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Art. 18 ed esodati: due facce della stessa medaglia

C’è un legame ben preciso tra il problema degli esodati e quello dell’art. 18.
E’ il problema di un’intera  generazione considerata troppo vecchia per restare nel mondo del lavoro e troppo giovane per andare in pensione. E’ anche il problema di un Paese dove la forbice che separa ricchi e poveri diventa sempre più grande e in cui si chiede a questi ultimi di farsi carico dei problemi di risanamento del Paese, e di un governo di finti tecnici, in realtà schierati con una parte politica ben precisa, che approfitta della crisi per fare macelleria sociale ed annientare diritti conquistati con anni di lotte.
    E’ forse per questo che oggi il problema dell’art. 18 assume un carattere ideologico molto importante, perché dietro a questa “riforma del lavoro” non si cela l’intenzione di fare entrare i giovani nel mondo del lavoro bensì quella di espellere enormi masse di lavoratori anziani e “garantiti” dalle imprese per sostituirli con una manodopera più fresca e giovane ma, soprattutto, più a buon mercato e con meno diritti.
    Ecco, allora, che si tenta di dividere i lavoratori mettendo i giovani contro i vecchi – sulle pensioni come sul lavoro- creando la falsa illusione che l’abolizione di diritti e  tutele sociali permetterà ai giovani di trovare un lavoro e  garantirà loro una pensione futura. In realtà saranno proprio i giovani  a pagare il prezzo più alto, a ritrovarsi senza diritti e senza pensione, rischiando di ripercorrere la strada dei loro padri e delle loro madri, di quei 350.000 esodati ultracinquantenni che oggi si trovano senza pensione e senza lavoro.
    E’ la legge del mercato, ci dicono. Ti usano, ti sfruttano e quando a 50 anni non rendi più ti buttano semplicemente nella spazzatura e resti in un limbo che rischia di trasformarsi in un inferno: niente stipendio e niente pensione. Del resto “non sono mica venuti qui a distribuire caramelle” semmai  miliardi ai loro amici banchieri e ai grossi gruppi industriali, come la FIAT, che dopo essere stati assistiti dallo Stato per anni ora fanno la voce grossa e minacciano di lasciare l’Italia se non verranno accettati i loro diktat: abolire qualsiasi diritto all’interno dei luoghi di lavoro.
    -La concertazione è morta- ha detto ieri Angeletti. Il problema è che sull’altare della concertazione,  in questi anni sono morti i nostri diritti, sacrificati al “bene” del Paese, alle compatibilità economiche, allo scambio di favori. E ora che non c’è più niente da scambiare anche i sindacati concertativi alzano la voce nel tentativo di ottenere una revisione un po’ più dolce dell’art. 18.
    Ma è tardi per cancellare le responsabilità che il sindacato confederale ha avuto in questi anni nella politica di annientamento dei diritti e, sull’art. 18,  l’obiettivo non deve e non può essere quello di  un ulteriore compromesso, di un’altra mediazione al ribasso.
    E l’ipotesi di estendere al pubblico impiego le nuove norme della “riforma del lavoro” apre scenari inquietanti per il rischio che alla riduzione dei servizi, a cui stiamo assistendo, seguano licenziamenti collettivi, giustificati  dalla “necessità” di alleggerire la spesa pubblica.
     E’ ora di prendere coscienza della gravità della situazione e opporsi con forza alle politiche attuate da questo governo che si sono rivelate funzionali ai soliti pochi, costruendo una mobilitazione generale che, partendo dai luoghi di lavori, crei un reale movimento di lotta che rimetta al centro i diritti e le condizioni di vita dei lavoratori.

    Milano, 4/4/2012                S.I. COBAS INPS