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Cooperazione allo sfruttamento

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Pubblichiamo il Reportage di  firstlinepress.org con il Titolo: DOSSIER LOGISTICA E COOPERATIVE /2 – Dalla logistica all’università, da Bologna al resto d’Italia, il « sistema delle cooperative» spinge al ribasso salari e diritti. Ma i lavoratori sviluppano un nuovo modello di lotta

 

Qui l’articolo completo con gli approfondiemtni: Cooperazione allo sfruttamento

 

Cooperativa dovrebbe essere una bella parola. Richiama valori universalmente condivisibili: il mettersi insieme per lavorare al bene comune, una maniera alternativa e più egualitaria di pensare l’economia e la società. Nel passaggio dalla teoria alla pratica, tuttavia, come sempre, qualcosa cambia. E così in Italia da un po’ di anni esiste un vero e proprio “sistema delle cooperative”: un meccanismo che si adatta perfettamente alla scelta politica ed economica di rendere il lavoro sempre più instabile e precario e i lavoratori sempre più deboli e inermi.

Con Gigi Roggero del laboratorio dei saperi comuni Hobo, che incontriamo a Bologna con parte della redazione di

First Line Press, proviamo a capirci qualcosa di più. «Si può individuare nel sistema delle cooperative uno dei nodi centrali delle forme di abbassamento del costo della forza lavoro, di smantellamento del welfare, di riduzione dei diritti, di precarizzazione selvaggia del lavoro». A società che hanno la forma di cooperative, spesso riunite in consorzi, si affidano multinazionali come l’Ikea, grandi aziende della logistica, ma anche enti pubblici come le università, per i loro servizi, o i comuni, per esempio per l’assistenza alle fasce più deboli.

 

Con la scusa di non essere grandi enti o aziende, tali cooperative impongono contratti con paghe più basse di quanto i contratti nazionali prevedono; non garantiscono diversi diritti quali il pagamento totale di infortunio, malattia, festività, permessi, Tfr, tredicesima e quattordicesima; non consentono la libertà di scegliere il sindacato; obbligano ad orari e turni di lavoro massacranti, non pagando gli straordinari. Il tutto, non di rado, accompagnato da buste paga che non corrispondono al vero. Si tratta del cosiddetto dumping contrattuale: un abuso di accordi e norme che porta ad uno sfruttamento della manodopera sempre più sistematico, per contenere al massimo il costo del lavoro ed essere slealmente competitivi sul mercato.

 

Grazie al meccanismo dell’appalto o del subappalto, l’affidamento della gestione del personale ad una cooperativa fa sì che per i lavoratori sia anche più complicato ribellarsi, a causa della conseguente «smateralizzazione della controparte», ricorda Roggero. «L’altro personaggio del conflitto non è chiaro, non sono chiari i responsabili contro i quali rivendicare i propri diritti. Le cooperative iniziano un appalto con un committente, poi magari cambiano nome e scaricano le responsabilità l’una sull’altra. Quando determinate cooperative diventano scomode, vengono scaricate dall’azienda principale e ne vengono fatte entrare altre, con nomi diversi ma che in realtà appartengono sempre alla stessa “famiglia”, allo stesso giro di persone».

La questione diventa ancora più complessa quando all’abuso della forma cooperativa e alle “scatole cinesi” si aggiunge la commistione con partiti politici, istituzioni, sindacati e relativi circuiti sociali e mediatici: è così che questo dispositivo di sfruttamento ALL COOPS ARE BASTARDS – Un’illustrazione della campagna contro Legacoop – ph Hobo Bolognaassume i contorni di un “sistema” aggressivo, che ha come principale bersaglio, di fatto, il lavoratore.

 

A seconda del contesto regionale cambiano solo i colori e gli attori, ma il dispositivo è lo stesso. In Lombardia, ad esempio, le “coop” gravitano attorno a Comunione e Liberazione ed ai loro referenti politici e sindacali, ovvero quello che fino a poco fa era il centrodestra berlusconiano e che ora appare diviso in due parti, non si sa quanto in conflitto. In Emilia-Romagna le “coop” sono invece storicamente legate al triangolo costituito sul versante economico dalla Legacoop (Lega delle Cooperative, che ha come affiliati principali la Coop Adriatica nella grande distribuzione, il consorzio Granarolo nel ramo alimentare e la Camst nella ristorazione); sul versante sindacale dalla Cgil e su quello politico dal Partito Democratico.

In poche decine di anni, in queste terre, gli “eredi” dello schieramento politico chiamato a difendere gli interessi di quel lavoro simboleggiato dalla falce e dal martello sono passati a rappresentare il capitalismo più becero. Quello che insegue ciecamente il profitto, sacrificando i lavoratori e i loro diritti; quello che è al governo, che fa parte del “potere costituito” e controlla un sindacato, in larga parte asservito, e dei media accondiscendenti.

 

Bologna, che una volta era “la rossa”, è oggi un po’ il quartier generale di un sistema ormai generalizzato in tutta Italia, orientato a quell’istituzionalizzazione della precarietà e dello smantellamento dei diritti del lavoro che sono diventati la linea politica generale del governo da tempo. L’esecutivo Renzi lo mostra in maniera evidente: Giuliano Poletti, ex presidente di Legacoop, è oggi il ministro del Lavoro. Ma anche Maurizio Lupi, esponente lombardo di Comunione e Liberazione, ha il suo posto nel governo, nell’altrettanto strategico dicastero delle Infrastrutture. Il sistema delle cooperative, in tutte le sue sfumature, guida anche politicamente il Paese.

 

Blocchi – Un facchino in protesta ostacola l’ingresso di un camion in un polo logistico – ph SI Cobas Non mancano però dei punti deboli in questo sistema, e lo sa bene chi da qualche anno sta portando avanti delle lotte molto dure contro le cooperative. Uno di questi è il palesarsi così netto del “fronte comune” formato dai membri di questo sistema, ovvero le cooperative, le istituzioni, i sindacati confederali, il governo nazionale. Ogni volta che i lavoratori hanno provato a ribellarsi, tutte queste componenti hanno remato compattamente nella stessa direzione, a difesa di questo modello di sfruttamento: Cgil-Cisl-Uil non hanno mosso un dito rispetto ad accordi che esse stesse hanno firmato con le “controparti”, né si sono opposte quando sono stati licenziati i lavoratori che protestavano; comuni, prefetti e governi hanno criminalizzato le proteste, cercando di ostacolarle puntando a spostare l’attenzione sul piano dell’ordine pubblico, con denunce strumentali, fogli di via etc. Così facendo, è stato più facile per i lavoratori “unire i puntini” e individuare le molteplici facce di un avversario che è però unico. Ed è stato possibile portare il conflitto dal contesto locale a quello nazionale, e dal piano della singola vertenza sindacale a quello della lotta propriamente politica contro un blocco di potere più generale.

Per comprendere nel dettaglio le falle del meccanismo, possiamo prendere in considerazione due esempi concreti di lotte “No Coop”, che hanno tra i loro teatri principali Bologna e l’Emilia-Romagna: da un lato quella dei facchini della logistica e dall’altro quella dei lavoratori dell’Università di Bologna.

 

In entrambi i casi, una strategia vincente è stata quella di bloccare la mobilità, delle merci come delle persone. Il capitalismo post-fordista vive sul movimento di quello che si produce tra grandi “poli” che smistano e poi vendono. E così la protesta dei lavoratori delle cooperative della logistica, in contesti come la Granarolo, l’IKEA o l’Interporto di Bologna, è diventata efficace e vincente quando si è deciso di bloccare fisicamente l’entrata e l’uscita delle merci dai magazzini. Arrecando danni molto pesanti alle cooperative come alle più grandi aziende committenti: il blocco della distribuzione di una sola giornata ai magazzini Esselunga è arrivato a far perdere anche 300 mila euro all’azienda, mentre nel caso dell’IKEA di Piacenza, che smista mobili anche verso il Medio Oriente, le braccia incrociate e i picchetti dei facchini hanno ritardato a catena la partenza di treni e navi verso est. Nell’ateneo bolognese bloccare l’ingresso alle sedi universitarie, concentrate perlopiù in via Zamboni, ha causato una vera paralisi dell’Università. Grazie ad essa i lavoratori della Coopservice, appaltatrice di molteplici servizi (dall’assistenza informatica, al supporto alla didattica, al servizio biblioteche), hanno potuto farsi sentire e aprire un tavolo di trattativa.

 

Altro punto sensibile del sistema delle cooperative, come del capitalismo contemporaneo, è il danno di immagine al marchio. Il picchettaggio ai magazzini e poi ai punti vendita IKEA, per sensibilizzare anche i clienti della multinazionale svedese, ha allarmato a tal punto i vertici da inviare direttamente dalla Svezia un dirigente a trattare con lavoratori e cooperative. La campagna di boicottaggio dei prodotti Granarolo è stata altrettanto importante nella strategia di lotta dei facchini. Situazione analoga si è verificata ancora una volta nell’università felsinea, che con la mentalità dell’ateneo-azienda ha visto nella mobilitazione permanente di studenti, precari e lavoratori forti rischi per il “brand” Alma Mater, e quindi una potenziale diminuzione di “utenti” ed ha quindi aperto un tavolo di discussione.

 

Il parallelo tra le lotte della logistica e quelle dell’università non è casuale: il loro trait d’union è proprio il comune avversario, ovvero il blocco di potere omogeneo che ruota attorno alle cooperative. «La lotta in UniBo si è immediatamente collegata con le lotte della logistica, che sono diventate il modello di una lotta più complessiva contro il sistema delle cooperative», sottolinea ancora Gigi Roggero. «Strategico è stato riconoscere uno spazio comune, dato dalla materialità delle condizioni di sfruttamento e delle lotte».

 

Si può arrivare a dire che il luogo del conflitto capitale-lavoro, che una volta era la fabbrica, oggi sta diventando il magazzino. Il settore della logistica è infatti centrale per il capitalismo contemporaneo, che si fonda sulla distribuzione delle merci. Con Aldo Milani, coordinatore nazionale del sindacato SI Cobas, sigla protagonista delle rivendicazioni nel settore della logistica, proviamo a contestualizzare queste condizioni di sfruttamento e questo modello efficace di azione dei lavoratori.

 

«Nel comparto della logistica il meccanismo delle cooperative è stato finora il modo migliore per rendere più flessibile la forza lavoro, al costo più basso possibile. In Italia infrastrutture e trasporti sono molto più ridimensionati rispetto ad altri Paesi, quindi l’unico modo per le aziende italiane di essere concorrenziali sul mercato è quello di ridurre al minimo il costo della forza lavoro». La manodopera impiegata in questo settore, in Italia, ha poi la caratteristica di essere prevalentemente immigrata: avere a disposizione migliaia di persone in cerca di lavoro arrivate massivamente e in un breve periodo nelle metropoli significa per le aziende poterle sfruttare senza problemi. «Fuori uno, dentro un altro. Questi lavoratori sono stati trattati come limoni – afferma Milani –: spremuti il più possibile e poi buttati via». Da non sottovalutare sono poi altri due aspetti. Uno è la presenza della criminalità organizzata: «I più grandi consorzi di cooperative hanno chiaramente rapporti con la mafia, lo vediamo. Tramite il controllo delle cooperative della logistica si ripuliscono capitali sporchi mafiosi, mettendo a disposizione ingenti somme anche per le grandi aziende committenti, che non riescono più ad ottenere facilmente liquidità dalle banche». L’altro aspetto riguarda i sindacati confederali che, pur avendo essi stessi firmato con la controparte il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) del settore, «prendono i soldi dai padroni, dalle cooperative», rappresentando un ostacolo più che un supporto alle rivendicazioni dei lavoratori.

 

Venendo alle condizioni di sfruttamento, queste sono le stesse di molti altri ambiti lavorativi. Vale a dire: salari dimezzati rispetto a quanto previsto dal CCNL; buste paga false; orari, turni e ambienti di lavoro poco umani; mancato riconoscimento di un’ampia serie di diritti e precarietà assoluta, possibile soprattutto grazie alle “scatole cinesi” delle coop. Si aggiunga a questo un rapporto di caporalato simile a quello delle campagne o dell’edilizia in altre parti della penisola, che spesso sfocia in violenze di vario tipo e nei molteplici ricatti cui sono sottoponibili in generale i migranti in Italia, soggetti ai documenti di soggiorno e a leggi e pratiche discriminatorie.

 

Dal 2008 ad oggi, i facchini della logistica in molte periferie delle grandi città italiane (nel centro-nord ma non solo) sono i protagonisti di un vero e proprio “ciclo di lotte” contro questo dispositivo di sfruttamento. Dal nord-est (Verona e Padova), all’area metropolitana di Milano, ai poli di Bologna e Piacenza, questi lavoratori hanno alzato forte la voce. Si è trattato dei dipendenti di quelle cooperative alle quali big della logistica (come Tnt, Dhl, Gls, Bartolini, Artoni) e della grande distribuzione (come Bennet, Esselunga, IKEA) hanno affidato i servizi di circolazione delle merci, esternalizzandoli. Una lotta organizzata dal basso, fatta di assemblee, scioperi, picchetti, che ha conosciuto momenti di alterne vicende e livelli molto duri di scontro con la controparte, ovvero il blocco compatto fatto da aziende, cooperative, sindacati confederali, istituzioni e forze dell’ordine. Un processo lungo e faticoso, costato determinazione e sacrificio, provvedimenti disciplinari e attacchi personali, ma che in molti casi ha ottenuto ottimi risultati: salari adeguati alle normative, migliori condizioni di lavoro, lavoratori reintegrati, caporali licenziati.

 

In alcune situazioni i rapporti di forza sono cambiati a tal punto che i delegati SI Cobas, esclusi pregiudizialmente dal tavolo delle trattative sul Contratto Nazionale, lo hanno addirittura superato in meglio. Hanno raggiunto accordi diretti con le aziende committenti più vantaggiosi per i lavoratori, successivamente fatti valere anche nei confronti delle cooperative. Aldo Milani, prendendo come esempio una delle prime lotte, quella ad Origgio (Varese) nel 2008, sottolinea: «L’elemento più importante è stata la partecipazione alla lotta di lavoratori di 17 diverse nazionalità, che precedentemente erano invece gli uni contro gli altri, spesso anche in maniera razzista. Si è sviluppato un coinvolgimento di “classe” di centinaia di facchini, insieme al SI Cobas e ad attivisti di varie esperienze, anch’essi prima divisi, e si è creato un coordinamento. Poi il conflitto si è ampliato a raggiera nel settore, attraverso conoscenze dirette di altri facchini e passaparola». Altro nodo essenziale, «per mantenere alto il livello di rivendicazione e di scontro, è stata la volontà, fin dall’inizio, di non limitare l’azione alla singola lotta aziendale, ma di allargare il discorso al sistema economico, allo Stato, al governo». Con parole d’ordine come lotta, unità e solidarietà, un pezzo importante della forza lavoro di questo Paese è riuscito a uscire dall’invisibilità.

 

In questo momento a Bologna l’importante lotta della Granarolo sembra stia per concludersi positivamente per i facchini e il tentativo in atto è quello della generalizzazione e dell’allargamento di queste mobilitazioni. In una sorta di “circolo virtuoso”, i facchini della logistica stanno condividendo saperi, esperienze e pratiche con i lavoratori dell’università. A loro volta questi ultimi stanno supportando la mobilitazione dei dipendenti delle cooperative sociali, sempre legate a Legacoop, che fanno da supporto alle scuole. Chissà che non siano i primi passi di un’opposizione su scala nazionale all’intero sistema delle cooperative e al suo modello di sfruttamento. Da quelle parti si comincia già a leggere uno slogan emblematico: All Coops Are Bastards.