Approfondimenti politiciCampaniadisoccupatiImmigrazioneInternazionale

[LETTERA] Quarantena: una miseria chiamata “normalità”, sola speranza la lotta dei lavoratori

Pubblichiamo il testo “Coronavirus. Una riflessione in quarantena in Italia.”, articolo di opinione di Alessandra Mincone per la testata svedese “Il Lavoratore”.

Questa crisi sanitaria e sociale, che sta provocando i primi scioperi spontanei nelle fabbriche dopo decenni, e diviene ora anche crisi economica e finanziaria, mette alla prova i sistemi capitalistici, in Italia e nel mondo intero, e scuote le coscienze in settori della nostra classe cui si chiede di lavorare comunque, anche in assenza delle condizioni di sicurezza che vengono invece imposte al resto della popolazione.

Per la prima volta da decenni assistiamo a scioperi spontanei nelle fabbriche.

Anche nella lotta per ambienti di lavoro sicuri e adeguati dispositivi di protezione individuale, e nelle difficoltà di coloro che sono lasciati a casa con un futuro incerto, deve crescere la coscienza della necessità di lottare per superare questa società divisa in classi.

Contro le ideologie da “unità nazionale” tra sfruttati e sfruttatori.

Il virus globalizzato mette inoltre in chiaro l’inconsistenza delle prospettive di autonomie locali/localistiche, e delle scorciatoie “sovraniste”.

L’unica strada è quella internazionalista, dell’unione tra i proletari di tutto il mondo.

S.I. Cobas


27 Marzo 2020, Aversa, Italia

Il 17 Marzo il nostro Governo ha pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il Decreto “Cura Italia”, provando il primo goffo tentativo di contenere al minimo il contagio dal Covid-19, l’epidemia conosciuta ormai in tutto il mondo col nome di “Coronavirus”, il cui ceppo originario era stato trovato in Cina già a dicembre del 2019.

Per noi italiani è sempre stato così: non ci rendiamo conto di quante cose accadono in tutto il mondo fino a che le emergenze non ci si ripropongono addosso come un boomerang.

Se la Cina per marzo è stata capace di costruire due ospedali, noi a marzo ci siamo visti cadere addosso come un terremoto il nostro palazzo di precarietà statale: i controlli disposti per impedire la diffusione del contagio da nord a sud non hanno sortito alcun effetto e il Governo, anziché predisporre misure di tutela alla salute come l’estensione dei tamponi a tappeto per gli emigranti, ha solo gettato fumo negli occhi dell’opinione pubblica e additando i pazienti positivi a “colpevoli” di non restare chiusi in casa.

Dal 9 Marzo, nel giro di meno di 48 ore tutte le attività commerciali delle piccole province italiane hanno in massa abbassato le saracinesche, anche se dal Presidente del Consiglio Conte non erano ancora arrivati restringimenti chiari sull’obbligo di chiusura.

Addirittura pare che le chiese, storicamente case per i senza case, abbiano chiuso le loro porte, senza più curarsi e curare i deboli, timorosi anche loro di essere processati per “attentato alla salute pubblica” con il divieto a ricreare assembramenti.

Ai senza tetto di questo paese anziché garantire una quarantena d’emergenza, sono arrivate fiumi di multe.

Molti lavoratori sembrano che attraverso il Decreto Cura Italia potranno fare ricorso alla cassaintegrazione, ma la grande emergenza della popolazione in quarantena, non si vede, non si sente e non può parlare: io sono fortunata ad usare questo momento di quarantena forzata perché ho una fede ben più grande della religione, ho la parola e la libertà di usarla per dire la verità.

Mi chiamo Alessandra, ho 25 anni e sopravvivo nella provincia Caserta, vicino Napoli.

Vivo con un cane e un gatto, in un appartamento al centro storico dove rischi che se vai a buttare la spazzatura ti può crollare addosso un palazzo, per l’incuria di un’amministrazione che sebben si alterni nelle sigle, da un trentennio non offre nulla se non sei il figlio di un commercialista o di un imprenditore.

A 21 anni ho lasciato l’università per lavorare in un bar del posto, tutt’ora non so se fosse stata una idea geniale, ma vi posso assicurare che non avevo scelta.

A 23 anni tutti i locali della città mi conoscevano e non volevano che lavorassi per loro, perché chiedevo un contratto regolare ed una paga che mi permettesse di pagare l’affitto senza l’aiuto di nessuno.

A quell’età ho purtroppo conosciuto le burocrazie di un sistema sanitario che disumanizzano e sviliscono chi convive con problemi di salute e non ha nessuno su cui contare a cui richiedere un “favore”.

Sì, perché i diritti salariali di forma diretta e indiretta, per noi sono dei favori da chiedere a qualcuno, e ci va bene quando nessuno chiede di ricambiarli, perché non sapremmo come fare.

Adesso che avevo trovato un lavoro, sono finita in quarantena forzata, praticamente di nuovo nel limbo della disoccupazione.

Mentre il Governo e le amministrazioni locali scelgono come aiutare le imprese colpite, a noi lavoratori a nero non è dedicato nemmeno un trafiletto nei giornali alla tv, figuriamoci un paragrafo in un decreto ministeriale.

La mia famiglia non se la passa meglio, mia madre è una casalinga e non percepisce alcuna forma di reddito, mio fratello è un operaio a nero, mia sorella, poverina, lavora per un’azienda di distribuzione di ossigeno medicale per malati terminali.

Anche lei a nero, e in questa fase di emergenza da coronavirus rischia di dover restare in quarantena nel proprio ufficio, 24 ore su 24, per garantire ai pazienti le stesse terapie necessarie.

“Ieri ne sono morti 6 di cui sappiamo per coronavirus, i facchini che caricano i contenitori e i corrieri che portano le bombole alle case dei più anziani sono spaventati da morire. Ma anche i pazienti lo sono, prima gli offrivano il caffè, anche per farsi fare un po’ di compagnia; a quell’età con un respiratore non dovresti trovarti a passare le giornate intere a casa da solo, e invece oggi non li fanno più entrare, anche quando non sanno bene come attaccare da soli le bombole. La cosa più brutta di questa epidemia, è che le persone che muoiono intorno a noi, per il Governo sono solo un numero che diventa sempre più grande.”

Qui in Italia vige uno strano paradosso: le persone come mia sorella, come gli infermieri, come i medici, in questi giorni sono diventati gli eroi della nazione.

Eppure non sembra esserci nessuna forma di riconoscenza neppure per loro: le disposizioni del Governo non prevedono alcuna forma di tutela per il personale esposto al contagio, è davvero assurdo che non si rendano conto di quanto pericoloso sia per loro e per tutti quelli che chiedono l’accesso alla sanità pubblica.

Il nostro sistema sanitario è già al collasso, sui social network, quelli che lo Stato chiama “eroi” mandano messaggi di supplica a tutti noi di restare a casa, perché i posti letto sono ridotti al minimo e loro non sanno come fare.

Così come l’intero personale sanitario è ridotto al minimo, costretto a lavorare sotto stress; a quanto pare è solo grazie al coronavirus che lo Stato assumerà nuovi infermieri che con le leggi dell’altro ieri non avevano l’abilitazione scritta, mentre tutti i medici della nazione andati in pensione sono stati chiamati dal Governo in via emergenziale.

Sarebbe bastato non tagliare la spesa sanitaria di 37 miliardi di euro solo nell’ultimo decennio.

Invece oggi la misura più rivoluzionaria di alcune regioni è stata di aprire alcuni ospedali che erano dismessi da anni, e che tutt’ora andrebbero messi in sicurezza.

E come se non bastasse, al peggio si aggiunge l’inverosimile, ossia che la priorità per i tamponi verrà garantita ai reparti militari che saranno impiegati nelle città per evitare che le persone escano di casa senza giusta causa.

I medici e gli infermieri sono i primi soggetti a rischio in questa pandemia, ma sembra che per lo Stato italiano siano sacrificabili: il 26 Marzo il numero del personale sanitario morto era di 36 persone e ci sono quasi 6200 contagiati tra loro.

Pare che circa 2 infermiere si siano suicidate: una delle due, positiva al coronavirus, non ha retto il senso di colpa per aver potuto contagiare colleghi e assistiti.

Per non parlare delle carceri e del fatto che in trent’anni viviamo il periodo di peggior sovraffollamento degli edifici: anche in questo caso il Governo ha mostrato solo incertezza e confusione, e alle prime disposizioni di vietare gli assembramenti e alle prime rivolte dall’interno, hanno seguito decine e decine di morti e trasferimenti indiscriminati, senza attuare un piano nazionale per sospendere le punizioni con misure domiciliari e annullamenti delle pene per reati minori.

Uno dei pochi spiragli che sono riuscita a vedere in questa quarantena in casa è stata l’esperienza di alcuni lavoratori in un comparto industriale qui vicino: hanno deciso in massa di aderire a un sciopero generale in tutte le categorie proclamato dal Si Cobas Lavoratori Autorganizzati.

Sì, perché se da un lato lo Stato ha chiuso le strade e le piccole attività, Confindustria e grandi sindacati confederali non permetteranno facilmente la chiusura di poli logistici, porti e fabbriche metalmeccaniche né di produzione bellica.

La nostra nazione spende più soldi in spese militari, interne e esterne, che in investimenti pubblici sulla nostra salute, ed oggi ci ritroviamo ad affrontare una pandemia che qui ha già fatto più morti della Cina.

“Un Caccia F35 costa quanto 7113 ventilatori polmonari.

Quante vite staremmo salvando?” si sono chiesti i lavoratori.

L’Italia è un paese con un sistema sanitario ormai al collasso.

Quando questa epidemia sarà finita sarà dura tirare le somme e sono convinta che saremo ancora noi, lavoratori più sfruttati e sottopagati, a dover pagare caro gli effetti di questa quarantena e del blocco dell’economia del paese.

Eppure un minimo di speranza proprio quei lavoratori in sciopero, mi auguro che l’abbiano diffusa quanto più forte possibile: perché quando l’epidemia verrà debellata, noi chiederemo tutto, fuorché tornare allo stato di miseria che ci era stato propinato fino a ieri, come quella che oggi, chi ci ha ridotto così, vorrebbe continuare a chiamare “la normalità”.