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[ANALISI] Mutualismo e lotta di classe nel capitalismo in trappola

Pubblichiamo qui sotto l’articolo di Errezeta, già pubblicata dai compagni della redazione de Il Pungolo Rosso sul loro sito.

Questa crisi sanitaria e sociale, che sta provocando i primi scioperi spontanei nelle fabbriche dopo decenni, e diviene ora anche crisi economica e finanziaria, mette alla prova i sistemi capitalistici, in Italia e nel mondo intero, e scuote le coscienze in settori della nostra classe cui si chiede di lavorare comunque, anche in assenza delle condizioni di sicurezza che vengono invece imposte al resto della popolazione.

Per la prima volta da decenni assistiamo a scioperi spontanei nelle fabbriche.

Anche nella lotta per ambienti di lavoro sicuri e adeguati dispositivi di protezione individuale, e nelle difficoltà di coloro che sono lasciati a casa con un futuro incerto, deve crescere la coscienza della necessità di lottare per superare questa società divisa in classi.

Contro le ideologie da “unità nazionale” tra sfruttati e sfruttatori.

Il virus globalizzato mette inoltre in chiaro l’inconsistenza delle prospettive di autonomie locali/localistiche, e delle scorciatoie “sovraniste”.

L’unica strada è quella internazionalista, dell’unione tra i proletari di tutto il mondo.

S.I. Cobas


Mano a mano che la crisi si approfondisce, gli spettri della disoccupazione e della miseria prendono sempre più corpo. Per i proletari e le proletarie la migliore difesa da queste terribili minacce sarà auto-difendersi con la lotta, e nella lotta comprendere che stanno maturando le condizioni dell’attacco ad un capitalismo sempre più in trappola. Intanto i proletari e le proletarie cercano di non soffrire la fame, aiutandosi tra loro con forme di mutuo soccorso. E’ di queste esperienze, delle loro radici, del loro significato e valore che qui ci occupiamo.

Il Pungolo Rosso


Mutualismo e lotta di classe nel capitalismo in trappola – di Errezeta

L’incedere devastante dell’attuale ciclo economico, anche con il processo di accelerazione indotto dalla pandemia, sta abbassando il livello medio della condizione del proletariato e per una parte di esso ben al di sotto delle sue condizioni di sussistenza.

Sostenere le aziende “sane” attraverso l’immissione di liquidità e la trasformazione dei crediti di impresa in debiti di Stato, come ha dichiarato Draghi, nell’ormai emblematico articolo sul Financial Times, significa che lo Stato dovrà agire da capitalista collettivo e favorire le imprese competitive che hanno la capacità di prevedere piani di investimento di mettere in movimento un aumento della produttività sociale del lavoro per competere sul mercato mondiale, in un inaudito inasprimento di tipo bellico della concorrenza capitalistica tra Stati. Già prima della crisi pandemica, la politica protezionistica statunitense, la Brexit, nonché il calo della domanda tedesca, avevano creato non pochi problemi alle imprese più internazionalizzate, evidenziando come gli interessi imperialistici italiani fossero fondamentalmente connessi a questa catena del valore e, come risultino, d’altro canto, illusori i sogni nazional popolari di una parte delle classi medie su profetiche rotture, per connettersi sul mercato mondiale ad altre catene del valore (come ad esempio quella cinese o russa).

Le politiche borghesi, nel loro insieme, dovranno supportare sempre più le imprese internazionalizzate ad alta composizione organica del capitale, quelle grandi e medie, con investimenti tecnologici già effettuati o in grado di essere sostenuti a breve, attraverso un aumento della produttività sociale del lavoro e una riduzione del valore della massa dei salari, generando processi di accumulazione e concentrazione su nuove basi, con una grande espulsione di forza lavoro e intensificazione dello sfruttamento per quella che resterà in produzione; tutto questo, in Italia, in un contesto sociale ed economico composto da una miriade di piccolissimi padroncini e artigiani che potrebbero rischiare di saltare definitivamente, con la rovina loro e dei loro operai, spesso saltuari e a nero.

Secondo il Rapporto sulla competitività dei settori produttivi (Istat 2020) 1, le grandi imprese in Italia sono 3.452 (quelle con più di 250 dipendenti) pari allo 0,1% del totale delle imprese con ben il 20,6% di addetti e con un valore aggiunto prodotto pari al 31,5% del totale; 195.000 sono le piccole e medie imprese (quelle con 10-249 addetti) con il 32,7% degli addetti e un 38,8% del valore aggiunto. E poi abbiamo ben 4 milioni e rotti di piccolissime imprese (con meno di 10 addetti ciascuna) che cubano il 46,8% degli addetti dipendenti (di cui i 2/3 sono artigiani, sovente con zero dipendenti, ad esempio il barbiere, tanto desiderato in questi giorni) che producono il 29,7% del valore aggiunto.

Quindi 198.452 imprese (per lo più del settore industriale ma anche dei servizi) producono un valore aggiunto pari al 70,3% del totale e il restante scarso 30% viene prodotto da ben 4 milioni di piccolissime imprese per lo più artigiane. Le più solide tra queste ultime, prevalentemente dei settori industriali e dei servizi alle imprese, potranno agganciarsi, altre saranno costrette a cambiar mestiere, a tentare nuovi investimenti e collegarsi al grande capitale, producendo in controtendenza, occupazione di nuovi operai, ma un gran numero saranno spazzate via e questo andrà ad ingrossare le fila dei disoccupati. Il padroncino e l’operaio così come l’artigiano e il garzone di bottega, si troveranno nella stessa condizione degli operai e impiegati espulsi dalle fabbriche, dai magazzini, dalle diverse imprese di distribuzione e commercio, ristorazione e turismo, etc. Molte imprese industriali piccolissime che avevano alcune committenze con le medio-grandi, o cooperative della logistica, salteranno, o verranno in parte assorbite e inglobate da quelle più grandi e competitive.

Assisteremo ad un terremoto economico e sociale di devastante portata, con la classe operaia che a fasi alterne, da un settore ad un altro, si troverà espulsa o attratta dal mercato del lavoro a seconda degli assetti capitalistici trainanti, dalle tendenze della concorrenza internazionale, con una sovrappopolazione di disoccupati che spingerà verso il basso i margini, già molto scarsi, della contrattazione sindacale, con le imprese che irreggimenteranno ancora di più la forza lavoro alla disciplina produttivistica e alla fedeltà aziendale e nazionale. E con uno Stato che provvederà a riformare in senso restrittivo e illiberale le leggi sul diritto di organizzazione delle associazioni operaie e sindacali.

A questo neo-produttivismo sempre più dispotico del capitale, suggellato dalle forme gius-pubblicistiche del monopolio della violenza statale, con una normativa sempre più antioperaia, fondamentale per la produzione della ricchezza della Nazione e della riproduzione della società nel suo insieme, saranno associate nuove iniziative di riorganizzazione degli assetti statali e amministrativi, necessari, da un lato, a rimettere in gioco un rapporto fiduciario tra il capitale e la burocrazia statale (Ministeri, Regioni, Comuni, ospedali, scuole, etc.), dall’altro, ad attivare nuove politiche di beneficenza per i poveri, secondo forme sempre più repressive e totalitarie.

L’improvvisa e grande espansione della povertà, questo nuovo livello di pauperismo che si annuncia, effetto dell’accumulazione capitalistica, non viene da nessun commentatore di destra o di sinistra attribuito al meccanismo della produzione sociale della ricchezza, ma è fatto derivare, o da un eccesso di stato sociale, i c.d. sprechi (secondo le versioni della deregulation neoliberale), o dalla sua mancanza, secondo le politiche di stampo socialdemocratico entrate profondamente in crisi negli ultimi 40 anni e che, dinanzi a questa devastante situazione, in un sussulto social nazionale di stampo keynesiano, vedono nell’immissione di liquidità e nella spesa statale in deficit, possibili politiche redistributive.

Nelle sue varianti di beneficenza per i poveri, la politica borghese tende ad assecondare quello che la povertà sta diventando e diventerà sempre di più, una vera e propria istituzione totale della Nazione, che avrà una ramificata organizzazione amministrativa e sociale, non con l’obiettivo di eliminarla, perché non potrebbe, ma di disciplinarla come se ad averne colpa fossero i poveri stessi.

Sono anni che le politiche “per” i poveri vanno in questa direzione. Basti pensare alla repressione degli immigrati, alle manganellate sugli operai e disoccupati, ai piani di sfratto contro le occupazioni ad uso abitativo, alla mattanza nelle carceri, alle case famiglia, con la separazione dei bambini dai genitori, colpevoli questi di non essere in grado di provvedere a sé stessi e alla loro prole, alla c.d. inclusione sociale “attiva” collegata al disciplinamento e al controllo di una forza lavoro disponibile, con un possibile sussidio di povertà basato sulla disponibilità ad essere formati e sfruttati.

Per cui il controllo amministrativo sulla povertà come una certa sinistra sociale lo aveva immaginato, è entrato in crisi: il povero non sarà caritatevolmente indicato come uno sfortunato da aiutare, con la già raccapricciante stigmatizzazione delle c.d. persone fragili, con tutta la retorica laica e cattolica degli strati sociali che di quella povertà assistita fanno la fonte della loro competenza, della loro attività professionale e reddituale, come gli imprenditori e cooperatori del terzo settore, sociologi, psicologi, assistenti sociali, operatori di comunità, preti, suore, avvocati, etc. (nulla di personale, è ovvio; anzi la maggior parte di essi è brava gente, che matura sovente, in maniera diversificata, genuine idee filantropiche, talvolta ben remunerate, talvolta molto meno, producendo idealmente rotture e critiche fantasiose a quel tipo di welfare).

Il povero, piuttosto, sarà sempre più additato come un colpevole da reprimere e punire, con politiche che scoraggeranno sistematicamente i miserabili dalla resistenza per scampare alla morte per fame. Il modello repressivo applicato agli immigrati/emigranti sarà generalizzato a tutti i poveri della società, costruendo criteri di priorità per platee diversificate di beneficiari, per dividerli e metterli gli uni contro gli altri, per spingerli a piangersi addosso, per disciplinarli in fila ad aspettare la questua di Stato, costretti ad integrarla rischiosamente con quella di qualche padroncino che offre loro un lavoro saltuario. Un esercito in fila ad aspettare, confidando sul cambiamento o un emendamento di un codicillo di legge, l’estensione della platea per un sussidio di povertà, per un voucher alimentare, una sorta di vecchia tessera annonaria fascista, come sostegno e disciplinamento alimentare per i poveri, dal duplice carattere, preventivo e repressivo, di qualsiasi ribellione.

Le Prefetture, che hanno nella stragrande maggioranza dei casi dato il via libera al ritorno in produzione degli operai e delle operaie, con l’ausilio di questura e digos, saranno pronte a segnalare e reprimere qualunque voce, qualunque post sui social, qualunque scritta sui muri o grido di ribellione. I margini democratici per le lotte come le avevamo conosciute, si ridurranno ancora di più. Contrattazioni di autorizzazioni a manifestazioni, riunioni pubbliche, etc. si ridurranno sempre di più. La linea della legalità democratica si sposterà indietro, con un aumento inaudito della repressione politica e sociale.

E’ in questo scenario che va inquadrato il fenomeno del mutualismo proletario, e le sue nuove esigenze.

Nell’articolo La classe indispensabile pubblicato il 14 aprile scorso, avevamo evidenziato come l’attuale crisi pandemica disvelasse il carattere sociale della produzione capitalistica e l’esistenza di tipi sociali concreti che occupano un ruolo diverso nel processo di valorizzazione e accumulazione del capitale, con la classe proletaria (operai e operaie dell’industria, dell’agricoltura e dei servizi), indispensabile per i capitalisti e per la riproduzione dell’intera società.

Avevamo, tra l’altro, en passant, favorevolmente osservato, il nascere di iniziative di mutualismo spontaneo, brigate di solidarietà proletaria, fatte da studenti, operai già senza stipendio, come sono senza stipendio i disoccupati, i tantissimi lavoratori a nero, etc.

Qui ci soffermeremo, velocemente, sul carattere sociale di queste iniziative e su come esse siano intimamente connesse alla lotta di classe proletaria e alla stratificazione di altri tipi sociali concreti.

Si vogliono, brevemente, mettere in luce le nuove basi materiali di classe sottostanti alle diverse e articolate forme di aggregazione e organizzazione della solidarietà, dove quelle proletarie si differenziano dalle altre.

Ad esempio, il processo di declassamento dei piccolissimi imprenditori rappresenta quella base materiale della politica radicale e xenofoba della destra estrema, che sovente si salda nelle metropoli, anche con le istanze del sottoproletariato urbano, attraverso forme di mutualismo con la distribuzione di generi alimentari e propaganda anti-immigrati, pratiche ben distanti materialmente, socialmente e politicamente da quelle proletarie.

Il mutualismo proletario si differenzia anche dalle pratiche piccolo-borghesi istituzionali di chi ha teorizzato il welfare dal basso, integrato tra servizio pubblico e privato sociale, il c.d. “welfare di comunità” come risposta alle carenze dello stato sociale, nella logica del partenariato sociale come possibilità dello “sviluppo civile” di un territorio, mettendo magari in rete la pubblica amministrazione, le aziende, le famiglie, etc. Queste istanze moderate da operatori del terzo settore un po’ più alternativi, soventemente filo- governative, sono state mandate letteralmente in soffitta.

Ma il protagonismo proletario si interseca e si differenzia anche da quelle pratiche basate sulla c.d. autodeterminazione dei corpi desideranti della metropoli, che nelle versioni più radicali concepiscono il mutualismo come una dimensione “altra” di scambio, in grado di attivare fallaci istanze di liberazione del tempo di vita, in presunti contesti territoriali di contropotere, vagheggiando una “carta dei diritti del mutualismo” con le illusorie concezioni “radicali” che immaginano la trasformazione delle istituzioni pubbliche centralizzate. Tesi perennemente appese tra rinazionalizzazione dell’economia e sogno dell’autonomia sociale, entrambi, possibilmente, non subalterni alle classi dominanti. Quindi, non fare attraverso lo Stato, come una certa sinistra moderata di movimento vorrebbe, ma “fare da sé” come precondizione di una “soggettivazione politica” delle classi popolari. La copertura ideologica di queste istanze “radicali” di mutualismo è data dal libro Mutualismo di Salvatore Cannavò (che meriterebbe una trattazione critica, a parte, più specifica) e mette insieme le tesi redistributive con le istanze di autonomia dei movimenti, un’operazione ideologica che suggella le alleanze politiche di Potere al popolo con diverse realtà di movimento. Una sorta di mistura togliattiana e negriana su come cambiare il mondo senza prendere il potere. Ma è il mondo che sta cambiando rapidamente a sciogliere come neve al sole tutte una serie di illusioni, rendendo inservibili e inadeguati, abiti mentali consolidati in vecchi cicli di lotte, abitudini stantie, retoriche e routine (sempre meno) militanti.

Ciò detto, è evidente che, comunque, sono tante le iniziative meritorie, di diverse associazioni, collettivi e centri sociali sui territori. A Torino con i centri sociali Gabrio e Askatasuna, a Milano con le staffette di mutuo soccorso del Centro sociale il Cantiere, i giovani di Exploit a Pisa, a Roma in diversi quartieri Tor Pignattara, Centocelle, Tufello, con spese e rifornimento di beni alimentari e di prima necessità, a Napoli con l’Ex OPg Je So’ Pazzo, fino ad arrivare alle iniziative di sostegno agli immigrati, come la raccolta fondi “Portiamo acqua al ghetto di Campobello” di Mazara, che si connette alla lotta per l’accesso al sistema sanitario nazionale e alla campagna “Siamo qui – Sanatoria subito”, nonché alle lotte per il miglioramento delle condizioni abitative e di lavoro dei braccianti e tantissime altre iniziative spontanee sul territorio nazionale.

Ma la solidarietà proletaria che si sta affacciando nella crisi come pratica di resistenza economica e di organizzazione per difendersi dalla fame, e che si interseca nella pratica con queste iniziative, comincia a porsi su un terreno nuovo e diverso rispetto alle vecchie concezioni illusorie del “welfare dal basso” (riformiste) e delle pratiche di “contropotere” (“radicali”).

Comincia a nascere un nuovo protagonismo proletario fatto di soggetti reali “non semplicemente aiutati” da attivisti solidali, ma protagonisti diretti dell’autorganizzazione degli approvvigionamenti alimentari (intimamente connessi alla lotta operaia nelle fabbriche, nei magazzini, nelle campagne), che non ha nulla a che fare socialmente e politicamente con quelle “comunità territoriali libere e pensanti”, che sovente e a fasi alterne hanno strizzato l’occhio alle istituzioni borghesi. Istanze che galleggiano tra illusioni riformiste, autoproduzione di reddito e autonomia del sociale.

Oggi che si apre la fase di riflessione sulla espropriazione degli espropriatori, sul fatto che a pagare devono essere i capitalisti, il mutualismo di matrice proletaria assume pratiche e prospettive diverse che positivamente si intersecano con le diverse iniziative di tante realtà di movimento, sollecitando ad un ripensamento della militanza e ad una valutazione ampia sulle condizioni e le necessità della fase.

In questo quadro si inseriscono le casse di resistenza per gli operai in sciopero, la colletta per pagare il funerale alla famiglia di un compagno di magazzino ucciso dal padrone untore, l’approvvigionamento alimentare per i disoccupati in lotta e le loro famiglie, le iniziative di sostegno del sindacato operaio SI.Cobas di Piacenza, per lo più fatto da immigrati, alle persone indigenti e supportando il lavoro territoriale della protezione civile nella donazione di beni di prima necessità (alimentari e sanitari), o quello del SI.Cobas di Roma che, insieme ad altri, ha raccolto beni alimentari per consegnarli agli occupanti del Palazzo Salam in quarantena, per lo più eritrei, diversi dei quali facchini della logistica. Le iniziative della campagna “Vogliamo Tutto”, già prima della pandemia, a Palermo, Napoli, Catania, Perugia, Messina, Roma e Cosenza, con diverse realtà e movimenti di lotta, quali i disoccupati del Movimento 7 Novembre di Napoli, i disoccupati organizzati di Palermo – CUB, la Lista Disoccupati e Precari Nord-Ovest di Roma, la rete PrendoCasa di Cosenza, i movimenti di lotta per il diritto all’abitare di Roma, gli Operatori Sociali Autorganizzati di Perugia, il Fronte popolare autorganizzato di Messina ed i nodi del SI.Cobas locali, il Comitato Reddito, Lavoro e Casa di Cosenza, e diversi altri. Una campagna che continua in questa fase e che si estenderà ancora di più nella cosiddetta fase 2. Nella città di Napoli, in particolare, importanti le iniziative del Movimento di Lotta dei disoccupati “7 novembre” che con il distanziamento e le protezioni necessarie dei suoi attivisti, ha effettuato la distribuzione di mascherine alla popolazione, in alcuni quartieri della città, per denunciare l’insufficienza delle misure di emergenza e chiedere lo stop degli affitti e del pagamento delle utenze, il salario pieno e l’estensione del reddito, test e tamponi di massa, prelievo di risorse finanziarie del 10% sui patrimoni del 10% più ricco della popolazione, e nel mentre si stava finendo di scrivere l’articolo nella giornata del 25 aprile, è arrivata la notizia di cinque fermi e decine di identificazioni ai compagni solidali che sostenevano l’iniziativa. Denunce e multe a chi lotta, controllo poliziesco sugli operai e le operaie che scioperano e fanno assemblee sindacali, mentre si deve tranquillamente lavorare ammassati in fabbriche e magazzini.

Nell’ambito di queste iniziative di denuncia e mobilitazione, la solidarietà proletaria, non concepisce i suoi interventi come elementi ideologici fondanti di una politica antagonista alternativa, come tasselli strategici dell’aggregazione militante per la costruzione dell’autonomia del sociale, per un modello alternativo di vita e di relazione entro il capitalismo, in grado mano a mano di sgretolarlo e modificarlo, ma è una attività organizzativa volta semplicemente ad assicurare quanto necessario per vivere, muoversi e continuare a lottare, un elemento ausiliario e di supporto materiale e morale nella lotta di classe che si sviluppa sul terreno più ampio dello scontro sociale e politico, nell’ambito del quale la classe proletaria sarà sempre più sospinta verso una maggiore presa di coscienza politica, con la possibilità dell’effettiva costituzione di un fronte unico proletario anticapitalista.

Intanto le proletarie e i proletari non si lasciano morire di fame e hanno deciso di aiutarsi, gli uni con gli altri! Con gli strumenti possibili a portata di mano, e con qualunque altro mezzo che riterranno necessario per scampare ai morsi della fame.

L’attivista solidale, che aiuta, vive con generosità questo slancio, con l’abnegazione militante e lo straordinario spirito critico dell’educatore, come educazione sentimentale alla vita stessa, e lo chiama giustamente solidarietà; il proletario, che lotta per la sopravvivenza, vive questa condizione di bisogno, con estrema preoccupazione, come una necessaria assunzione di responsabilità nei confronti di sé stesso, della sua famiglia e dei suoi fratelli di classe e, con altrettanto spirito critico, la chiama resistenza in una situazione di merda!

Noi condividiamo, intanto, lo spirito di entrambi, come un prezioso processo di presa di coscienza, che può favorire l’auto-attività e l’organizzazione della classe sul terreno dell’aiuto reciproco dei suoi membri, che rompe con l’accettazione dello spirito dei tempi, della individualizzazione della condizione del singolo proletario nel rapporto con i padroni e con l’intera società.

L’incedere incalzante della crisi mondiale produrrà le lezioni di difesa e di attacco nelle forme inedite di vere e proprie scuole di guerra del proletariato, e in questa massa critica di esperienze di resistenza e rotture, esso genererà i suoi “cattivi maestri”, e con essi, nuove idee e nuove pratiche, la determinazione storica di una coscienza per sé, di una organizzazione di classe, come ferrea disciplina dei proletari e delle proletarie coscienti.

Siamo di nuovo a questa svolta necessaria, l’irrompere sulla scena mondiale delle masse proletarie. Non presagi avveniristici e fantasiosi, ma anticipazioni delle finalità dei processi in atto su scala planetaria. Il lavoro sotto padrone a rischio della morte e il pacco alimentare della fame nera, negli States e in Europa, ne sono l’oggettivo presupposto.

Soltanto lo studio concreto dei rapporti particolari fra la classe indispensabile, cioè il proletariato, e tutta la massa non proletaria, e anche semi-proletaria, della popolazione lavoratrice, nel contesto di un inaudito aumento dello sfruttamento operaio e del pauperismo, può permettere di dare la giusta soluzione al processo di maturazione delle condizioni dell’attacco di classe, ad un capitalismo sempre più in trappola, ad una borghesia incapace di rimanere ancora a lungo classe dominante. E tali rapporti particolari non si formano in un ambiente edulcorato ed armonico, ma nell’atmosfera reale della lotta di classe nella crisi e della repressione forsennata da parte della borghesia e del suo Stato.

Un cambio di mentalità è dato.

1 https://www.istat.it/storage/settori-produttivi/2020/Rapporto-competitivit%C3%A0.pdf