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[ANALISI] Migranti in Libia, intrappolati tra guerra e Covid-19

Pubblichiamo questo articolo “Migranti in Libia, intrappolati tra guerra e Covid-19” realizzato da Nancy Porsia e già disponibile su openmigration.org.

Dall’inizio di aprile, migliaia di uomini, donne e bambini intrappolati in Libia sono stati messi in mare diretti verso l’Europa.

Si stima che circa 800 migranti abbiano lasciato le coste libiche nella sola seconda settimana di aprile.

Mentre il governo di Tripoli ha inviato trenta medici in Italia per contribuire alla lotta contro Covid-19, l’Italia e Malta hanno dichiarato i loro porti “non sicuri” a causa dell’emergenza sanitaria, e chiuso di fatto le frontiere ai migranti sulla rotta del Mediterraneo centrale.

Nel frattempo, i centri di detenzione ufficiali rifiutano i migranti, mentre le carceri gestite dalle milizie spalancano le loro porte.

Questa crisi sanitaria e sociale, che sta provocando i primi scioperi spontanei nelle fabbriche dopo decenni, e diviene ora anche crisi economica e finanziaria, mette alla prova i sistemi capitalistici, in Italia e nel mondo intero, e scuote le coscienze in settori della nostra classe cui si chiede di lavorare comunque, anche in assenza delle condizioni di sicurezza che vengono invece imposte al resto della popolazione.

Per la prima volta da decenni assistiamo a scioperi spontanei nelle fabbriche.

Anche nella lotta per ambienti di lavoro sicuri e adeguati dispositivi di protezione individuale, e nelle difficoltà di coloro che sono lasciati a casa con un futuro incerto, deve crescere la coscienza della necessità di lottare per superare questa società divisa in classi.

Contro le ideologie da “unità nazionale” tra sfruttati e sfruttatori.

Il virus globalizzato mette inoltre in chiaro l’inconsistenza delle prospettive di autonomie locali/localistiche, e delle scorciatoie “sovraniste”.

L’unica strada è quella internazionalista, dell’unione tra i proletari di tutto il mondo.

S.I. Cobas


MIGRANTI IN LIBIA, INTRAPPOLATI TRA GUERRA E COVID-19
NANCY PORSIA (OPENMIGRATION.ORG)

Dall’inizio di aprile, migliaia di uomini, donne e bambini intrappolati in Libia sono stati messi in mare diretti verso l’Europa.

Si stima che circa 800 migranti abbiano lasciato le coste libiche nella sola seconda settimana di aprile.

Mentre il governo di Tripoli ha inviato trenta medici in Italia per contribuire alla lotta contro Covid-19, l’Italia e Malta hanno dichiarato i loro porti “non sicuri” a
causa dell’emergenza sanitaria, e chiuso di fatto le frontiere ai migranti sulla rotta del Mediterraneo centrale.

Nel frattempo, i centri di detenzione ufficiali rifiutano i migranti, mentre le segrete gestite dalle milizie spalancano le loro porte.

La giornalista Nancy Porsia descrive cosa significa essere intrappolati in un paese in guerra durante una pandemia.

«Ho letto delle migliaia di morti in Europa per coronavirus.

Una vera tragedia.

Però, preferirei ammalarmi laggiù che non qui in Libia», dice un giovane senegalese di Zuwara, città libica al confine con la Tunisia.

«Ieri sera alcuni uomini sono venuti a prendermi, insieme ad altri tre migranti, e ci hanno portato in un posto vicino al confine.

Ci è stato chiesto di scaricare alcuni cassoni.

Credo che fossero armi» dice l’uomo, che da giorni ormai si addormenta al suono delle fucilate. Nei giorni scorsi, a pochi chilometri a est del complesso in cui vivono i migranti nella città di Berber, le truppe schierate con il governo di Fayez Al Serraj hanno ottenuto una delle più importanti riconquiste dall’inizio dell’offensiva del generale Khalifa Haftar su Tripoli e l’area circostante.

Pepe ha deciso: «Aspetto di essere pagato per un lavoro che ho fatto, poi me ne andrò. Perché anche se riesco a sopravvivere alla guerra qui, morirò del virus».

Il numero delle vittime di Covid-19 è ancora basso in Libia; circa 50 casi confermati, undici dei quali in terapia intensiva e un decesso, secondo il National Center for Disease Control.

Tuttavia, queste cifre sono destinate a salire aumentare, nonostante il coprifuoco imposto dal governo di Tripoli per l’intero territorio nazionale, o almeno per il territorio sotto il suo controllo nella Libia occidentale.

Gli sforzi del governo di Al Serraj possono fare ben poco per far fronte alla crisi sanitaria in corso, in cui gli ospedali locali sono da anni a corto di farmaci di base, e chi ha bisogno di cure deve acquistare farmaci all’esterno.

Dopo cinque anni di guerra civile tra le truppe del generale Khalifa Haftar e la coalizione di milizie a Tripoli, l’accesso a ciò che resta del sistema sanitario libico è ulteriormente ostacolato dai bombardamenti aerei del generale Haftar, che ha colpito di recente l’ospedale Al Khadra di Tripoli.

L’ospedale era stato di recente designato dal governo di National Accord come struttura principale per il ricovero dei pazienti con coronavirus che necessitavano di cure intensive.

Inoltre, uno degli uomini di Haftar, Hassan Ali Al Gheddafi, sindaco del villaggio di Shweirif nel deserto libico, ha ordinato la chiusura della rete idrica del Grande Fiume Artificiale per vendicarsi della detenzione di suo fratello a Zawiya, una città ad ovest di Tripoli.

Così, nel bel mezzo di un’emergenza sanitaria, il paese è stato lasciato senza acqua corrente per dieci giorni.

«Siamo in 468 qui, e ci sono già 130 casi confermati di scabbia. Nessuno parla di coronavirus tra le guardie, e nemmeno tra lo staff locale di Medici senza frontiere» scrive su WhatsApp Solomon, originario dell’Eritrea, rinchiuso nella prigione di Zintan, sul monte Nafusa nella Libia occidentale.

«Se il virus arriva qui, sarà un massacro» dice l’uomo, prigioniero dal 2018.

Efrem, sua moglie e i loro quattro figli sono stati trasferiti da un centro di detenzione all’altro in Tripolitania per quattro anni, e solo lo scorso febbraio sono stati liberati dalla prigione di Zawiya.

«Per alcuni giorni sono riuscito a trovare un lavoro e cibo per i miei figli, ma da metà marzo con il coprifuoco non posso nemmeno andare al negozio per procurarmi generi alimentari», dice l’uomo, proveniente dal Sud Sudan. «Dovrò pagare l’affitto tra una settimana.

E davvero non ho i soldi. Nel frattempo, le nostre scorte alimentari si stanno esaurendo», conclude.

«I trafficanti nel sud non fanno entrare i migranti, perché temono la diffusione del coronavirus», dice una fonte vicina ai militari a Tripoli.

Tuttavia, per le decine di migliaia di migranti già nel paese, la rotta marittima rimane aperta.

«Certo, ci sono complicazioni sulla strada verso il confine tunisino.

Tra Sabrata e Surman ci sono grosse sacche di gruppi fedeli a Haftar. Ma in qualche modo ce la facciamo, e alla fine riusciamo ancora a portare i migranti ai punti di imbarco», spiega un uomo coinvolto nel traffico dei viaggi via mare.

L’uomo è nientemeno che un funzionario della Direzione per la lotta alla Immigrazione Illegale (DCIM) del Ministero dell’Interno, che collabora con i trafficanti.

«A volte li mettiamo su un bus DCIM in modo da evitare problemi ai punti di controllo», rivela.

Il passaggio verso i porti chiusi per l’emergenza Covid-19

Migliaia di uomini, donne e bambini intrappolati in Libia sono stati messi in mare diretti verso l’Europa dall’inizio di aprile.

Secondo le stime circa 800 migranti hanno lasciato le coste libiche nella sola seconda settimana di aprile.

Mentre il governo di Tripoli ha inviato trenta medici in Italia per contribuire alla lotta contro Covid-19, l’Italia e Malta hanno dichiarato i loro porti “non sicuri” a causa dell’emergenza sanitaria, e chiuso i loro confini ai migranti sulla rotta del Mediterraneo centrale.

Due imbarcazioni sono state salvate dalla nave Alan Kurdi della ONG tedesca Sea Eye, che era l’unica a navigare vicino alle coste libiche all’inizio del mese.

Durante le operazioni di Alan Kurdi, gli uomini della Sicurezza costiera di Zuwara hanno quasi speronato la barca con i migranti a bordo, e poi hanno sparato in aria.

«Siamo stati noi a mandare la Sicurezza costiera», ha detto un ufficiale della Direzione della Sicurezza Zuwara.

«Abbiamo l’ordine di fermare i gommoni con migranti irregolari e noi lo eseguiamo»,
ha dichiarato.

Le autorità libiche cercano di adempiere agli accordi firmati con Roma e Bruxelles sulla cooperazione contro l’immigrazione clandestina, anche se ognuno ha le proprie ragioni.

Alcuni vedono un’opportunità per uno degli affari più redditizi del momento, altri vogliono avere ildiritto di chiedere all’Italia e all’Europa di restituire il favore in altre situazioni, e altri vogliono solo tener fede a quanto promesso.

La UE ha assicurato la cooperazione con la Libia su questo tema, fingendo di non vedere l’abuso sistematico sui migranti nelle carceri libiche, compresi quelli gestiti
dal Ministero degli Interni di Tripoli, nonché la pratica diffusa tra le milizie di usare i migranti come campi di scudi umani nella guerra civile che da un anno flagella la parte occidentale del paese.

Il coronavirus, questo evento tragico, imprevedibile e inimmaginabile fino a pochi mesi fa, sta cambiando le carte.

I direttori dei centri di detenzione di Tripoli si rifiutano di accettare i migranti
intercettati e riportati in Libia dalla Guardia Costiera.

Dopo essere sopravvissuti a un bombardamento sul porto di Tripoli durante l’attracco, 280 migranti intercettati dalla Guardia costiera libica a metà aprile e
trasferiti sul rimorchiatore Ras Jader, furono costretti a passare un giorno e una notte in un hangar nel porto.

«Nessuno dei centri di detenzione DCIM di Tripoli era disponibile ad ospitarli.

Tutto a causa della paura della malattia», afferma un funzionario del Comitato supremo per la lotta contro Covid-19.

«Abbiamo visto molti aerei volare sopra di noi, abbiamo chiesto aiuto, perché ci hanno lasciato in mare?» chiede una donna piangendo.

È sopravvissuta a un lungo naufragio e si sfoga al telefono con l’avvocato per i diritti umani Giulia Tranchina, con sede a Londra.

Alarm Phone, una piattaforma per il salvataggio delle imbarcazioni, ha continuato per giorni a ricevere richieste di aiuto dal gommone in difficoltà, e le ha trasmessi alle autorità italiane e maltesi.

L’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera disponeva di due aerei che monitoravano l’area centrale del Mediterraneo in quel momento.

Malta e l’Italia non hanno risposto alle richieste, nascondendosi dietro l’emergenza Covid-19. «Altre quattro persone si sono buttate in mare lunedì notte, erano disperate», ha detto un altro sopravvissuto al centro DCIM di Trik Al Sikka, Tripoli. Solo cinque giorni dopo un peschereccio libico li
raggiunse e li riportò in Libia.

«Avrei preferito morire in mare, se avessi saputo che volevano riportarci
indietro» continua la donna.

«Sono stati salvati nell’area di ricerca e salvataggio maltese» afferma l’organizzazione internazionale per le migrazioni, il cui personale sta lavorando in diversi porti sulla costalibica.

«Servono soluzioni urgenti, perché la Libia non è un porto sicuro».

Le segrete dove finiscono i migranti

Dei 280 migranti intercettati e riportati sul rimorchiatore Ras Jader il 9 aprile, alcuni sono fuggiti.

Questo è quanto dichiarato dalle autorità libiche quando hanno contato i migranti.

«È prassi ordinaria liberare i migranti dai centri DCIM», afferma una fonte militare di Tripoli. «Persino i direttori dei centri non sanno come gestire i migranti con la guerra in corso. E ora con coronavirus …» continua la fonte.

Mentre i centri di detenzione ufficiali rifiutano i migranti, le segrete gestite dalle milizie spalancano le porte.

Alcune persone riportate a terra il 9 aprile furono presumibilmente trasferite in una fabbrica di tabacco abbandonata nella parte occidentale di Tripoli, oggi centro di interrogatori della milizia Sawa’iq della città di Zintan.

Non c’è traccia di quei migranti nei registri ufficiali di Tripoli, che registrano
solo le persone ospitate nei centri DCIM.

Dall’autunno scorso, centinaia di migranti intercettati in mare sono tati trasferiti ad Al Khoms, a circa 100 km. a est di Tripoli, nella prigione del Souq Al Khamis.

Questo è uno dei tre centri DCIM che furono ufficialmente chiusi dal ministro dell’Interno Fathi Bashaga dopo il bombardamento delle truppe di Haftar al centro di detenzione per migranti di Tajoura lo scorso luglio, quando morirono circa 50 detenuti.

«Nessuno sa cosa succeda lì ai migranti. Una cosa è certa, però: il governo non ne ha alcun controllo», afferma un analista internazionale sulla sicurezza libica.

Secondo i dati forniti da Tripoli, circa 1500 migranti sono attualmente in carceri controllate dal Ministero dell’Interno.

«È il numero più basso registrato da ottobre 2019», come può essere letto in una nota dall’IOM (International Organization for Migration, Organizzazione Internazionale per la Migrazione).

Tali dati sono in netto contrasto con l’alto numero di imbarcazioni intercettate dalla Guardia costiera libica. Dall’inizio del 2020, almeno 3200 migranti sono stati riportati a terra dai suoi uomini.

«Droghe, armi e prigioni per i migranti sono attività riservate alle milizie che controllano i ministeri di Tripoli», afferma un trafficante di diesel di Zawiya.

«Non è come vendere diesel al confine tunisino», conclude.

(traduzione a cura di Giulia Luzzi).