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[ANALISI] Cile, la quarantena non ferma le lotte: “pane, salute, lavoro!”

IN CILE LA QUARANTENA NON FERMA LE LOTTE:
”PANE, SALUTE, LAVORO!”

Sesto paese al mondo per numero di contagi da Covid-19 (323.700 casi e più di 7000 morti a metà luglio), il Cile sta affrontando una delle più drammatiche crisi sociali della sua storia; le contraddizioni preesistenti allo scoppio della pandemia si sono approfondite ed è il proletariato che sta pagando il prezzo di gran lunga più alto in termini di vite umane, disoccupazione, povertà e oggi anche fame diffusa.

Le forti lotte di classe scoppiate nell’ottobre dello scorso anno non si sono però piegate al pugno di ferro dello stato e alla militarizzazione generale del paese,
anche in piena pandemia e sfidando il virus, la quarantena e la sicura repressione si stanno riprendendo le strade.

Sono ancora più di 2000 i prigionieri politici di cui si chiede a gran voce la liberazione e migliaia i militanti che hanno perso la vista a causa dei lacrimogeni
sparati al volto.

Oggi la gestione dissennata e criminale dell’emergenza Covid-19, il collasso del sistema sanitario e l’imposizione dello stato di eccezione hanno riacceso focolai di lotta e di resistenza popolare in tutto il Cile.

I lavoratori dell’industria, delle miniere, delle ferrovie, della scuola e gli studenti organizzati spesso in un unico fronte ancor oggi affrontano l’esercito dispiegato ovunque per dire no ai licenziamenti, alla fame, alla disastrosa politica sanitaria, alla brutale repressione.

Non è un caso che il Covid-19 si diffonda soprattutto nei quartieri poveri e nelle periferie degradate delle grandi città, dove gli abitanti non possono rispettare la quarantena se vogliono mangiare; e nella zona mineraria, dove gli operai sono costretti ad andare al lavoro in condizioni a rischio.

E non è un caso che sia proprio in questi luoghi dove crescono le proteste più significative contro il governo e qui dove la repressione va a colpire più a fondo.
Il maggior numero di morti per il virus si trova nei comuni più poveri della regione
metropolitana: El Bosque, La Pintana, San Ramón hanno organizzato forti proteste perché le famiglie stanno patendo la fame, e a poco servono le consegne sporadiche di pacchi alimentari vantate dal governo.

ANTOFAGASTA E LA ZONA MINERARIA DEL NORD

La regione più combattiva e organizzata è la provincia di Antofagasta, territorio strategico per il paese perché vi si concentrano le più grandi imprese minerarie (principalmente di rame, di cui il Cile è il maggiore produttore mondiale, e Litio).

Il settore minerario, pur non risultando una produzione essenziale nel computo delle misure di contenimento del virus che prevedono la chiusura delle attività economiche, ha continuato a produrre, incrementando i ritmi di lavoro.

Non si potevano perdere i grandi profitti che sgorgano dalle miniere, in dispregio al livello elevato e in rapido aumento di contagiati e di morti rispetto a tutto il paese.

I dati economici sono inequivocabili, come quelli sanitari: l’Indice Mensile dell’Attività Economica (IMACEC) di maggio riguardo la produzione mineraria in piena pandemia è cresciuto dell’1,2%, mentre l’Indice dei settori non minerari è calato del 17%.

Nello stesso mese la produzione di rame è cresciuta del 3,5% rispetto all’anno precedente.

A questo si aggiunga che alla Borsa di Londra il prezzo del rame ha già superato del 50% il livello in forte calo dei mesi precedenti.

Codelco (Corporacion Nacional del Cobre de Chile), impresa statale con circa 18.000 operai, che gestisce i siti nazionalizzati dal 1971 di estrazione del rame e maggior produttore di rame al mondo, a maggio ha prodotto 144.200 t di rame, con un aumento su base annua del 3%, mentre Angloamerican ha registrato un aumento del 5%. La sua miniera Collahuasi, una delle più grandi del mondo, ha effettuato il record della produzione e uno dei più alti livelli di contagio tra i
lavoratori.

La miniera Escondida ha aumentato quest’anno la produzione dell’11% nonostante la pandemia, incassando 1116 milioni di US$ di utili.

E’ questa l’essenzialità della produzione mineraria.

Secondo dati della Banca Centrale, solo nell’aprile di quest’anno la vendita di rame ha reso 1400 milioni di US$.

Il 60% degli abitanti della regione sono rappresentati da più di 100.000 i lavoratori, distribuiti in più di 50 siti estrattivi, a cui si aggiungono più di 15.000 operai dell’industria.

Se consideriamo anche i lavoratori dei trasporti, dei porti, della logistica, sono altre migliaia di lavoratori in più.

Queste cifre ci fanno capire perché il virus si stia diffondendo così
ampiamente nella zona.

Al 15 luglio nella regione erano 270 i morti e 12.389 i contagiati, di cui 5400 ad Antofagasta e 5639 a Calama, la città più colpita, con il 61% dei contagi di tutta la regione.

Solo in Codelco si registrano 3215 casi e 9 morti, concentrati nel sito di Chuquicamata.

Qui come in altri siti i lavoratori denunciano sia la mancanza di test e di presidi di sicurezza che i licenziamenti, le giornate e i turni di lavoro estenuanti (anche 14 giorni continui in miniera), le discriminazioni tra i lavoratori a contratto e quelli esternalizzati (nelle principali industrie minerarie il 68% dei contagi riguarda lavoratori precari e in outsourcing).

Le imprese cilene hanno risposto alla pandemia conlicenziamenti in massa, il blocco dei contratti, la riduzione dei salari (oggi sono circa 2 milioni i lavoratori che non ricevono più il salario) e la sospensione dei diritti del
lavoro.

Il 57% delle industrie che hanno sospeso i contratti a seguito della pandemia affermano che non li riprenderanno.

Solo tra gennaio e aprile sono state licenziate 57.000 persone.

La regione di Antofagasta ha raggiunto a maggio l’11,1% di disoccupazione, la percentuale più alta del paese (non mi è dato sapere su che base si calcola questo tasso, n.d.t.).

Codelco ha ridotto del 30% il suo personale a contratto, sospeso il progetto della Miniera Sotterranea di Chuquicamata e chiuso la Miniera El Abra, con almeno 7500 lavoratori espulsi.

A Chuquicamata, nonostante le alte cifre del contagio (571 casi), tenute segrete per lungo tempo dalla dirigenza, a luglio si sono avviati turni eccezionali di lavoro (7X7 per 12 ore al giorno), necessari per “salvare l’economia”.

Il timore del licenziamento e del blocco dei salari ha fatto sì che il 75% degli operai votasse a favore di questa misura.

LE LOTTE

Già centrali nelle lotte dell’autunno scorso, i lavoratori e le forze sociali della regione di Antofagasta ancor oggi si organizzano nella resistenza all’assedio asfissiante delle forze dell’ordine e rilanciano la protesta con continui scioperi, manifestazioni e iniziative di mutuo soccorso, affrontando la violenza di stato, il carcere e le persecuzioni politiche a cui vanno incontro.

Nella città di Antofagasta, l’Assemblea dei licenziati Latam (aerolinea multinazionale che in Cile ha licenziato più di 1000 lavoratori, in Argentina 2000 e in Brasile altri 2000), il Sindacato Siglo XXI dell’Ospedale Regionale, in coordinamento con il Comitato di Emergenza e Protezione, alcuni sindacati e organizzazioni sociali, si sono uniti in un unico fronte di lotta contro i licenziamenti, la fame e la diffusione del virus.

Assemblee, scioperi, blocchi stradali, mense popolari, distribuzione di DPI alla popolazione… danno voce alle seguenti rivendicazioni: stop ai licenziamenti, un salario minimo di 500.000 pesos, anche per autonomi, informali, precari e disoccupati, il pagamento del salario pieno, la chiusura delle attività non essenziali e la tutela sanitaria per chi è costretto a lavorare, misure contro la miseria e la fame, il controllo dei prezzi e delle forniture alimentari, la libertà dei prigionieri politici, un sistema sanitario pubblico che attenda alle esigenze della popolazione.

A fronte dell’aumento del prezzo del rame e della produzione, i lavoratori pongono la salvezza della loro vita e di quella delle famiglie al primo posto: per questo stanno preparandosi per una paralisi totale del settore minerario.

Nelle miniere Zaldivar e Centinela, proprietà di Antofagasta Minerals il 95% dei lavoratori hanno già votato a favore.

Il 6 luglio il Sindacato Norte di AES Gener ha proclamato un “gran apagón (blackout) en la minería” che coinvolge Codelco, Escondida, Spence y SQM e rompe la tregua sindacale complice con le rispettive dirigenze aziendali.

IL GOVERNO PIñERA RISPONDE ALLE ESIGENZE DEL CAPITALE

L’industria cilena licenzia anche grazie ad una delle misure prese dal governo per affrontare la pandemia: la Legge di Protezione del Lavoro, titolo grottesco per una misura che dà la possibilità alle imprese di sospendere i lavoratori e i salari e garantisce loro ampio sostegno economico ed agevolazioni fiscali.

Prevede sì un assegno di disoccupazione che copre il 55% del salario il primo mese, percentuale a scalare per ogni mese successivo, ma non vieta i
licenziamenti.

A giugno erano più di 1 milione i disoccupati e 600.000 i lavoratori sospesi, soprattutto nelle grandi imprese.

Altre centinaia di migliaia hanno subìto i tagli dei salari e milioni di persone
che si guadagnano da vivere con il commercio informale hanno chiuso l’attività.

La stessa Ministra del Lavoro ha comunicato che la disoccupazione potrebbe raggiungere la cifra del 20%, la peggiore degli ultimi 40 anni.

Tutto il proletariato cileno deve poi fare i conti con l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità.

A inizio luglio da La Moneda è uscita una serie di aiuti economici diretti principalmente alla piccola borghesia cilena, che però aggrava la situazione debitoria del proletariato e dei giovani.

Il piano si struttura in quattro assi: microcredito dalla tesoreria di stato e prestiti a
tassi agevolati, proroga del pagamento dei dividendi di crediti ipotecari per le famiglie, aumento del sussidio all’affitto per 4 mesi e del credito per l’istruzione superiore.

Queste disposizioni lasceranno fuori il 70% dei lavoratori e la copertura di queste spese concorrerà solo ad aumentare il debito pubblico, un peso che ricadrà solo sulle spalle del proletariato.

Non altrettanto solerte è l’intervento del governo per affrontare la pandemia.

Il sistema sanitario è al collasso, non esiste una pianificazione di tamponi mirata, le cifre dei contagi vengono manipolate e la stampa alternativa silenziata; la popolazione viene criminalizzata per i suoi comportamenti e per questo si allarga il controllo dell’esercito nelle strade.

Ma il punto forte di Piñera è l’aver stretto un patto con quasi tutte le opposizioni per un ‘Grande Accordo Nazionale’, che lo rafforza e consolida al potere.

Concertación, Frente Amplio, Chile Vamos e i partiti di centrosinistra di fronte all’acuirsi della crisi sanitaria erano accorsi uno dopo l’altro a La Moneda per avviare un processo di “unità nazionale” e di “dialogo tra tutti i partiti parlamentari”.

Il Patto di Unità Nazionale si propone la riattivazione economica del paese attraverso la distribuzione di crediti garantiti dallo stato a qualsiasi impresa ne faccia richiesta e la disposizione di un budget di 12.000 US$, di cui buona parte a beneficio dell’industria e solo una minima frazione in sostegno alle famiglie.

Nonostante il fallimento del dichiarato “ritorno alla normalità” e della Legge di Protezione del Lavoro, trasformatasi nella legge del licenziamento facile, il governo non si indebolisce ma prospera grazie al sostegno del fronte di opposizione e del silenzio complice del più grande sindacato cileno, la CUT.

Era già accaduto a novembre, nel pieno delle rivolte popolari, che i partiti di opposizione salvassero Piñera firmando un patto costituzionale, con lo scopo di deviare la lotta proletaria verso una soluzione istituzionale.

Il PC, benché non abbia firmato l’accordo, condivide le misure intraprese dal regime di ‘salvezza nazionale’; la CUT, diretta dal PC, ha mantenuto con il governo una tregua vergognosa e nemmeno le è sfuggito un gesto di solidarietà ai licenziati o a chi ha fame e lo grida nelle strade.

LA REPRESSIONE

Piñera finora ha sfoderato un’unica arma per combattere la pandemia: la militarizzazione del paese, la repressione delle lotte, delle proteste e del dissenso.

Il governo per controllare il rispetto della quarantena ha dispiegato 73.000 effettivi militari tra esercito, polizia investigativa e carabinieri e ha riesumato le “boinas negras” (lett. berretti neri, Brigada de Operaciones Especiales Lautaro, unità di élite dell’esercito antiterrorismo) per le aree metropolitane.

Una plateale dimostrazione di forza al cui riguardo il Ministro della Difesa si vanta di aver “messo tutta la carne al fuoco” per difendere la salute della popolazione, l’ordine pubblico e la sicurezza.

Nella ‘parrillada’ ci sono anche nuovi acquisti: 4 carri lancia-acqua (334 milioni di pesos l’uno; 1 peso = 0.0011 euro), un sistema di vigilanza da 7000 milioni di pesos, altri milioni di pesos destinati all’acquisto di mezzi per i Carabinieri e 47 milioni di pesos per fucili e armi antisommossa.

In base alla Legge dello Spionaggio che è stata approvata con i voti dell’opposizione nel pieno delle rivolte di autunno, il presidente può anche infiltrare agenti nelle organizzazioni politiche e sociali dissidenti e concedere più ampio spazio di azione alle FFAA per interventi di ordine pubblico.

L’apparato poliziesco, che si è accanito particolarmente nella regione di Antofagasta, non fermerà il proletariato cileno.

Il pugno di ferro dello stato ha colpito ogni manifestazione, protesta e organizzazione sociale: sono state chiuse le mense popolari, che davano da mangiare a chi non aveva più un piatto caldo da mettere in tavola, distrutte le barricate, represse violentemente con gas lacrimogeni e pestaggi le manifestazioni della popolazione organizzata, cingendola in un asfissiante stato d’assedio.

“Basta licenziamenti! Pane, salute, lavoro e libertà per i prigionieri politici”: la voce unitaria e compatta della lotta di classe in Cile non sarà spezzata dal fragore degli idranti e dai colpi dei lacrimogeni.

Fonti: La Izquierda Diario, 1 maggio – 17 luglio

Traduzione e sintesi a cura di P.Z.