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[CONTRIBUTO] Contro l’islamofobìa, arma di guerra – II. Il falso mito dell’Islam, conquistatore e colonizzatore (ita – عربى)

Contro l’islamofobìa, arma di guerra – II

Il falso mito dell’Islam, conquistatore e colonizzatore

(italiano – arabic version)

Mentre ai confini tra Bielorussia e Polonia va in scena l’immondo spettacolo dei regimi borghesi europei dell’Est e dell’Ovest uniti nella guerra agli emigranti afghani, siriani, iracheni…; mentre in Francia, sotto la benedizione del potente miliardario Bolloré, sale la candidatura alla presidenza della repubblica di Eric Zemmour, che accusa gli immigrati musulmani di voler “ricolonizzare la Francia” e di essere i principali vettori del “Grand Remplacement” (la grande sostituzione etnica) dei francesi veri con la “melma d’importazione”, i cui figli sono “ladri e assassini”; mentre in Gran Bretagna l’uccisione del deputato David Amess e l’attentato di Liverpool sono gli inneschi di nuove campagne di stampa anti-musulmane; e mentre in Italia la “sinistra antagonista” (ma esiste ancora qualcosa del genere?) pressoché all’unanimità resta in un silenzio di tomba, succube e complice di questi orrori neocoloniali fisici e mediatici; pensiamo bene di pubblicare la seconda puntata del nostro testo contro l’islamofobìa come arma di guerra, dedicato appunto al falso mito dell’Islam di oggi, come conquistatore e colonizzatore dell’Europa e dell’Occidente. Andare controcorrente non ci fa problema, tanto più quanto più siamo certi delle nostre ragioni.

La prima puntata, insieme con l’introduzione generale a questo scritto, è rintracciabile qui.

A questo link potete invece leggere e scaricare la versione in arabo dell’articolo.

Il mito dell’Islam colonizzatore-conquistatore

La rappresentazione caricaturale del mondo “islamico” quale un monolite immobile, totalmente immerso nel sacro, tutto-religioso, è, però, solo un aspetto, lo sfondo per così dire, dell’islamofobìa che da due decenni infuria in Europa perfino più che negli Stati Uniti. Il secondo stereotipo di importanza forse anche maggiore è quello che vuole l’Islam (maiuscolo, in quanto il riferimento qui non è tanto ad una religione, quanto a una civiltà che in qualche modo accomuna un insieme di paesi) proteso per sua natura a colonizzarci per imporci le sue norme di comportamento reazionarie, e pronto a farlo con ogni mezzo, terrorismo incluso.

Ancora una volta, a cantarle chiare è la Fallaci. Rivolgendosi alle persone che davanti alla jihad islamista esitano a comprendere quello che è a suo giudizio il vero contenuto dell’islamismo jihadista, le sferza nel seguente modo:

«sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura di andare contro corrente oppure d’apparire razzisti, (parola oltretutto impropria perché il discorso non è su una razza, è su una religione), non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla Rovescia. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia di quella religione forse. (Forse?) Una guerra che essi chiamano Jihad: Guerra Santa. Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio forse, (forse?), ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e delle nostra civiltà. All’annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare e di non pregare, del nostro modo di mangiare e di bere e vestirci e divertirci e informarci… Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’ più intelligente, cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. Distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri… Cristo! Non vi rendete conto che gli Usama Bin Laden si ritengono autorizzati a uccidere voi e i vostri bambini perché bevete il vino o la birra, perché andate al teatro e al cinema, perché ascoltate la musica e cantate le canzonette, perché ballate nelle discoteche o a casa vostra, perché guardate la televisione, perché portate la minigonna o i calzoncini corti, perché al mare o in piscina state ignudi o quasi ignudi, perché scopate quando vi pare e dove vi pare e con chi vi pare? Non v’importa neanche di questo, scemi?»1.

Questa catena di mistificazioni fa perno sulla diffusissima tesi: l’islam ed in particolare l’islamismo politico, jihadista e non, hanno dichiarato all’Occidente una guerra offensiva di conquista. Questa guerra, condotta anche all’interno dell’Occidente e dell’Europa dagli immigrati “islamici”, ha di mira, forse, l’occupazione dei nostri territori, ma di sicuro l’annientamento del “nostro modo di vivere e di morire”, di “mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci” e quant’altro si possa chiamare in causa per impaurire e pungolare il pubblico europeo ed occidentale, soprattutto le persone comuni, e farle sentire minacciate nei loro affetti più cari (i bambini che rischiano di essere uccisi perche gli islamisti vogliono imporci diete alimentari diverse dalle nostre) e nelle loro soddisfazioni abitudinarie più elementari o misere (il calcio o il reality show).

Proviamo a mettere un po’ di ordine logico in questo marasma. Che l’islamismo politico sia animato dalla volontà di combattere contro l’Occidente, è un fatto. Che alcune tendenze dell’islamismo politico abbiano nel loro programma e nei loro piani operativi anche azioni violente contro gli interessi e le istituzioni occidentali in terra di Occidente, e non più solo nei paesi arabi o “islamici”, è un altro dato di fatto. Ma da dove nascono questa volontà e questo programma? Da una spinta offensiva o difensiva? Dall’esigenza di opprimere o dall’esigenza di reagire ad un’oppressione? Rispondere in un modo o nell’altro a queste domande cambia totalmente il senso della questione.

Iniziamo dal tema della colonizzazione dei nostri territori, ci occuperemo più avanti della colonizzazione delle nostre “anime” attraverso l’importazione in Europa di costumi sociali reazionari.

E, come è d’obbligo, cominciamo con il chiederci chi, da secoli, colonizza i territori di chi. La risposta che non lascia ombra di dubbio la dà la storia, ed è questa: non si può comprendere nulla dell’odierna accanita militanza islamista se si prescinde o anche solo si lascia in secondo piano la tragedia coloniale che per mano anzitutto dell’Europa si è abbattuta su tutte le popolazioni arabe e “islamiche”, dal Marocco all’Indonesia. Questa tragedia, che è lunga quanto il moderno colonialismo, inizia in Asia dopo il trattato di Tordesillas2 e si espande ad ovest nel tempo e nello spazio verso l’India, il Medio e Vicino Oriente, e infine verso l’Africa araba. Protagonisti dell’assoggettamento e della spoliazione di questi popoli furono dapprima le varie Compagnie delle Indie orientali e poi, direttamente, gli stati colonialisti europei, fino a quando non subentrò ad essi, nell’era del petrolio, l’asso pigliatutto statunitense.

Secondo Rosa Luxemburg i singoli capitoli di questa storia portano i seguenti titoli: 1) espropriazione forzata delle forze produttive naturali, il suolo, le foreste, i minerali, le pietre preziose, le spezie, etc.; 2) creazione forzosa di una forza-lavoro coatta a lavorare per lo sviluppo del capitalismo metropolitano; 3) introduzione forzata dell’economia mercantile, a cominciare dalla proprietà privata della terra; 4) separazione forzata dell’agricoltura dall’industria artigiana3. Ogni capitolo di questa “opera sistematica e pianificata di distruzione e annientamento delle comunità sociali non-capitalistiche” arabe ed “islamiche”, di saccheggio del loro ecosistema, è stato scritto dai colonizzatori con la violenza. Con la violenza fisica, i massacri, gli incendi, la tortura, le deportazioni forzate, la riduzione in servitù, gli stupri, lo stato di guerra permanente; e con la violenza economica della espropriazione delle terre, di una tassazione strangolatoria ai danni delle masse contadine, dell’usura, dei prezzi di monopolio, dei dazi doganali a senso unico, delle monoculture, della confisca, del furto puro e semplice4. Ne è nata la divisione internazionale del lavoro che ha fatto fiorire l’industria, la banca, i commerci e quant’altro in Europa, mentre produceva in questa vastissima area povertà, miseria, carestie, malattie su una scala e con un’acutezza sconosciute prima del colonialismo.

La presa di coscienza di questo sistema di oppressione è centrale nell’islamismo politico, a cominciare da colui che può esserne considerato il progenitore, al-Afghani. Egli è stato il primo a prospettare, come risposta ad un tale assoggettamento, la ricostituzione del califfato su basi nuoveriformatemodernepan-islamiche. Al nuovo califfato sarebbe spettato il compito storico di riunificare il mondo islamico dal Maghreb all’India attraverso la lotta contro il colonialismo occidentale, senza per questo dover rinunciare all’uso del progresso tecnico europeo:

«Alla sua nascita il popolo musulmano non era importante numericamente, ed era sprovvisto di tutto, a cominciare dai viveri e dalle munizioni. Ciò nonostante poté rompere le fila degli altri popoli e riuscì a imporre il suo dominio e la sua sovranità su vasti territori, da un punto all’altro della terra, conquistando genti diverse. […] L’ordine stabilito in qualunque paese non mise mai in discussione la sua volontà di azione. Le scienze e le arti degli altri popoli non lo hanno mai messo in difficoltà. Oggi il suo territorio si estende dall’Oceano Atlantico fino al cuore della Cina. Sono le migliori regioni del mondo, dotate di una natura bella, di un clima puro, di campagne fertili, di ogni ricchezza […]. Malgrado ciò, oggi, disgraziatamente, le città musulmane sono saccheggiate e spogliate […]. I paesi dell’Islam dominati dagli stranieri e le loro ricchezze sfruttate da altri. Non passa giorno che gli occidentali non mettano la mano su una parte di queste terre […]. La loro influenza ha talmente condizionato i popoli musulmani, che questi tremano appena sentono la parola Russia o Inghilterra e si sentono perduti quando sentono nominare la Francia o la Germania […]. Dove cercare le cause di ciò? A chi domandare ragione, se non tornando a quanto dice il Corano: ‘Iddio non cambia mai il favore di cui ha favorito un popolo, fin quando questi non cambia quello che ha in cuore’ »5.

Troviamo qui tutti gli ingredienti dell’islamismo politico radicale contemporaneo. L’amara presa d’atto della soggezione in cui versano paesi e popoli musulmani occupati da forze straniere. La stridente contraddizione tra la condizione di miseria e di spoliazione in cui giace nella seconda metà dell’ottocento il mondo islamico e le sue grandi ricchezze naturali e potenziali. Il richiamo alla grandezza del passato e al Corano per vincere la paura e il sentimento di inferiorità, l’impotenza nei confronti dei colonizzatori, e affrontarli a viso aperto6. Vi troviamo, al tempo stesso, il limite insuperabile di ogni forma di islamismo politico, per radicale che sia: il ricercare nel passato, nel ritorno ad un passato (più o meno) mitizzato, la via da battere per uscire dallo stato di dipendenza coloniale in cui versano i paesi “islamici”, per andare oltre il colonialismo capitalistico globale, e dunque oltre il capitalismo. Una contraddizione, come vedremo, irrisolvibile.

Ragioneremo qui di seguito proprio sulla natura dell’islamismo politico7 per esaminare se esso è davvero un’ideologia di conquista-colonizzazione dell’Occidente, o se non è piuttosto una forma di (supra-nazionale) nazionalismo difensivo nei confronti della colonizzazione subìta; se esso è davvero un’alternativa al sistema sociale occidentale (al capitalismo) e all’ordine mondiale che vi corrisponde, o se non è invece una semplice ipotesi di riforma interna dell’uno e dell’altro, di cui si guarda bene dal metter in causa i fondamenti; e ci domanderemo infine per quale ragione, nonostante la sua natura essenzialmente difensiva e la sua radicale inconseguenza, l’islamismo politico militante sia così criminalizzato in Europa e in Occidente.

L’esperienza storica mette in chiaro il nesso tra l’islamismo politico e la lotta di liberazione nazionale dei popoli arabo-islamici, nel senso che in una pluralità di casi esso è stato, a suo modo, un fattore, e talora un fattore importante, di questa lotta8. Dall’algerino Abd el-Kader a Mohammad Ahmad (il Mahdi sudanese)9, dal libico Omar al-Mukthàr a Ben Badis, dall’egiziano Sayyid Qutb all’iraniano ‘Ali Shariati al sudanese al-Tourabi fino ai movimenti di Hezbollah e Hamas, il riferimento all’Islam e alla jihad è stato, è un riferimento essenzialmente politico10 ed essenzialmente nazionalista. Sul fatto che la rinascita del movimento islamico in chiave islamista abbia questo contenuto anche se si serve di un linguaggio ad un tempo politico e religioso, o perfino prevalentemente religioso, sembra esserci ormai un largo accordo. E se per caso vi fossero dubbi, a scioglierli basterebbe leggere anche solo la prima pagina di uno dei testi islamisti più influenti, Pietre miliari,il manifesto di Sayyid Qutb, in cui egli annuncia la venuta del “tempo dell’Islam” non in opposizione al cristianesimo o ad altre religioni, ma come alternativa politica al duplice fallimento (politico) del “mondo occidentale” e della sua democrazia, e del “blocco dell’Est” socialista e del suo materialismo “contrario alla natura e alle necessità degli uomini”. Sia la spiegazione di questo fallimento che l’indicazione della “sola” via di uscita sono date, inutile dire, in termini religiosi:

«(…) l’umiliazione dell’uomo comune sotto i sistemi comunisti e lo sfruttamento degli individui e delle nazioni a causa dell’avidità di ricchezza e dell’imperialismo sotto i sistemi capitalisti non sono altro che il corollario della ribellione contro l’autorità di Dio e la negazione della dignità che Dio ha dato all’uomo. (…) Solo seguendo il modo di vita islamico gli uomini possono diventare liberi dalla servitù di alcuni uomini ad altri uomini e dedicarsi esclusivamente alla venerazione di Dio»11.

E dovrebbe essere altrettanto inutile specificare che un discorso come quello dell’islamismo politico

«che si avvale di una terminologia e di una simbologia islamica non deve necessariamente essere religioso. Lo si evince dal fatto che, tutto sommato, esso non comunica con altre religioni, bensì con un ‘discorso europeo’. Con ‘discorso europeo’ si intendono (…) tutti i mass media, le istituzioni, gli enunciati linguistici e i simboli per i quali si ricorre volutamente a un lessico e a un sistema di segni che veicolano i concetti della tradizione europea»12.

E, ovviamente, oltre i concetti sono in causa le prassi, i rapporti socio-economici che concetti ed enunciati linguistici riassumono e legittimano. L’islamismo politico radicale, dunque, va inquadrato come una forma di nazionalismo. Un nazionalismo da nazionalità oppresse appartenenti ad un mondo dominato, che è e si sente tuttora colonizzato dalle potenze occidentali. Qui la “nazione” non è più tanto il singolo paese: è, almeno idealmente – nei fatti le cose vanno in modo diverso, con il prevalere di particolarismi, localismi e divisioni settarie – il “mondo islamico” plurinazionale preso nel suo insieme, perché solo come insieme, come unità, come umma, questo mondo può sperare di uscire dalla condizione bi-secolare di soggezione all’Occidente (un West in cui gli islamisti includono anche la Russia).

Questo nazionalismo costituisce una reazione difensiva anche nei confronti della colonizzazione culturale compiuta dai poteri coloniali europei, che ha avuto (e ha) due facce: da un lato, l’occidentalizzazione delle élites locali e di strati via via più ampi dei paesi “islamici”, con la distruzione delle culture locali e la loro sostituzione con la cultura del colonizzatore; dall’altro, quella che Fanon ha definito la “deculturazione” dei popoli dominati, ovvero non l’uccisione, la totale cancellazione della cultura dei colonizzati, bensì la sua “agonia prolungata”. Affinché le genti colonizzate si sfibrino in una prolungata veglia accanto ad un corpo morente, e in questa luttuosa veglia per la propria storia perduta si lascino penetrare da un sentimento di fatale subordinazione al dominatore occidentale, o addirittura maturino per reazione l’incontenibile desiderio di assomigliargli in tutto e per tutto.

«Questa cultura che una volta era viva e passibile di sviluppi, si chiude, atrofizzata nello statuto coloniale, stretta nella morsa dell’oppressione. Il suo persistere in forma mummificata costituisce una testimonianza contro i colonizzati, li qualifica irrevocabilmente»13.

Ma nonostante i mezzi tecnici potenti e raffinati a disposizione dei colonizzatori, nonostante il loro potere di mistificazione, l’alienazione dei colonizzati arabi ed “islamici” da sé stessi, dalla propria storia e dalla propria condizione di oppressi, non si è realizzata mai in modo compiuto. Anche perché se il colonizzatore o il neo-colonizzatore europeo hanno cercato e continuano a cercare nel proprio passato la legittimazione a dominare (di questi tempi, anche riabilitando il proprio colonialismo)14, al polo opposto anche i colonizzati, umiliati da un presente pieno di afflizioni e sistematicamente delusi in tutti i loro tentativi di “essere come” i loro colonizzatori, si sono rivolti e si rivolgono al proprio passato per attingere da esso forza e ragioni per la propria resistenza, per la propria lotta di liberazione anti-coloniale. Riscoprono così le loro tradizioni, e le vivono “come meccanismo di difesa, come simbolo di purezza, come salvezza”. E questo “tuffo nell’abisso del passato”, tanto più se questo passato è luminoso, come effettivamente è nel caso della civiltà islamica, agisce su di loro come “condizione e fonte di libertà”15.

Per l’islamismo politico radicale il riscatto da questa condizione di colonizzazione economica, politica e culturale passa attraverso il ritorno rigenerante all’Islam dei primordi, all’islam storico di Maometto, che ebbe realmente una portata rivoluzionaria sul piano sociale. Nella vicenda sociale dell’Arabia del VII secolo, l’islam originario costituì infatti il braccio ideologico e armato della guerra sociale dei beduini poveri del deserto contro i ricchi mercanti della Mecca. Da un tale rivolgimento socio-politico nacque, con il divieto dell’usura, la hisba e il controllo anche penale sul mercato, le misure obbligatorie di redistribuzione dei redditi, il possesso comunitario della terra e dell’acqua, una sorta di mercantilismo egualitario. Si trattò, per quei tempi, di una forma sociale nuova e “superiore”16. Ma le ricette di riforma sociale che gli islamisti estraggono da quella esperienza storica per il mondo d’oggi non solo non hanno oggi alcunché di nuovo o di “superiore”, ma si rivelano del tutto impotenti ad afferrare alle radici le “ingiustizie” a cui dichiarano di voler porre rimedio, del tutto incapaci di andare al di là dello “sfruttamento degli individui e delle nazioni a causa dell’avidità di ricchezza e dell’imperialismo sotto i sistemi capitalisti”, per usare i termini di S. Qutb.

L’opera di Mohammad Qutb, Equivoci sull’Islam, opera di rango nel suo genere17, ci dà modo di convalidare o smentire questa affermazione. Per M. Qutb l’autentico Islam, quello delle origini e quello “integrale” che verrà, è «una totalità [sociale] armonica includente un ordinamento economico equo» e «un’organizzazione sociale equilibrata» (p. 7). Armonica la società realmente islamica lo sarebbe in quanto «comunità senza classi» (p. 167), nella quale «tutti [sono] uguali davanti alle leggi» – ma se davvero bastasse l’eguaglianza davanti alla legge a far sparire le classi, le società occidentali dovrebbero essere il regno dell’armonia da quel dì18Equa la società realmente islamica lo sarebbe in quanto ammette sì la proprietà privata, inclusa la proprietà privata dei mezzi di produzione, ma solo entro certi limiti, limiti che la rendono in qualche modo “inoffensiva” (p. 159) – ma questo medesimo principio e questa medesima rassicurazione non sono forse contenuti in ogni costituzione democratica che si rispetti? Nella società a cui aspira M. Qutb il meccanismo riequilibratore centrale nella distribuzione della ricchezza sociale sarebbe la “equità fiscale”, con i più ricchi vincolati a pagare allo stato più degli altri componenti (o… classi?) della società: l’Islam, infatti, è per «una equa divisione del profitto tra i lavoratori e il datore di lavoro» (p. 138) – anche questa l’abbiamo già sentita qualche milione di volte in ambienti, però, non proprio islamici! È ammessa la «libertà d’azione», di «scambio di servizi» tra i membri della comunità; è ammesso, quindi, il mercato, il mercato capitalistico, con il capitale ad un polo e il lavoro salariato all’altro polo, come dice chiaro e tondo un altro esponente dell’islamismo radicale, al Mawdudi19. Solo che l’islamismo vuole un controllo sullo sviluppo dell’economia di mercato, secondo il principio nient’affatto originale del «profitto moderato»: sarà lo stato, come in ogni altra dottrina riformatrice, a far valere questo principio. Sì, quindi, alla proprietà privata; no al monopolio. Sì al capitale produttivo, no all’usura («bisogna liberare l’economia dall’usura» – afferma Proudhon-Qutb) e al parassitismo, identificato riduttivamente con il capitale finanziario20.

Ho riferito del testo di M. Qutb per la sua relativamente maggiore accessibilità al lettore italiano, ma –come è noto– esso è largamente tributario di uno degli scritti più letti e influenti di Sayyid Qutb, Social Justice in Islam, il cui ordito storico-teorico presenta la medesima tematica, soltanto svolta con maggior mordente e aggressività. Il punto di partenza e di arrivo di tutta l’esposizione è la presentazione dell’islam come teoria, o dottrina, che unisce; che unisce cielo e terra, spirito e materia, culto e lavoro, società e individuo, il capitale e il lavoro; una teoria, o dottrina, che mira a preservare la “duratura armonia” tra le diverse componenti del tessuto sociale attraverso un’attenzione vigile verso l’equità e, appunto, la “giustizia sociale”21. Di che tipo di equità e giustizia si tratta? Premessa una banale polemica con il comunismo opportunamente ridotto a mera dottrina dell’eguaglianza assoluta dei salari, la risposta di S. Qutb è la seguente:

«La giustizia nell’Islam non è solo l’eguaglianza economica, è un’eguaglianza umana, che riguarda la composizione di tutti i valori. Ad essere precisi, l’eguaglianza economica è eguaglianza delle opportunità, combinata con la libertà di sviluppare i propri talenti entro i limiti posti dal rispetto delle più alte finalità della vita.

«Dal punto di vista islamico, i valori sono un insieme così composito che la giustizia non può ricomprenderli tutti; per questo motivo l’Islam non richiede un’eguaglianza economica forzata nello stretto senso letterale del termine. (…)

«L’Islam riconosce, ovviamente, l’esistenza di un’eguaglianza fondamentale tra tutti gli uomini e una giustizia fondamentale tra essi, ma al di là e al di sopra di questo lascia la porta aperta al conseguimento della preminenza attraverso il duro lavoro, così come mette sul piatto della bilancia altri valori oltre l’economico. (…)

«L’Islam, quindi, non richiede un’eguaglianza materiale intesa in modo letterale, poiché la distribuzione della ricchezza dipende dalle doti di ciascun uomo, che non sono uniformi»22.

Ritroviamo anche in questo caso una tematica proudhoniana, il nesso lavoro-proprietà, senza, però, la vis polemica proudhoniana nei confronti di una proprietà che non sia immediatamente riconducibile al lavoro personale. S. Qutb riconosce solennemente il diritto alla proprietà individuale come un diritto naturale (parla anche di “santità del diritto al possesso”, facendoci tornare alla mente un termine del codice civile napoleonico), che deve essere protetto dalla legge con mezzi forti (tipo il taglio della mano), anche se, precisa, tale diritto non è un diritto assoluto perché va conciliato con il benessere della società. La via islamica alla conciliazione tra diritto di proprietà individuale e bisogni della società è una non proprio originale “via di mezzo”, che ammette l’arricchimento, ma ritiene “indesiderabile” che la ricchezza si concentri nelle mani di pochi, perché un’eccessiva polarizzazione di essa produce una “profonda corruzione” del tessuto sociale. Ammette i “metodi rispettabili” di accumulazione della ricchezza individuale, ma nella convinzione che tali metodi non producono quel “grado di concentrazione del capitale che crea un abisso tra le classi sociali”. Riconosce e tutela la proprietà privata (anche dei mezzi di produzione), ma è contraria al monopolio.

«L’Islam disapprova anche l’esistenza delle distinzioni di classe in una comunità in cui alcuni vivono nel lusso e altri in condizioni di deprivazione, e disapprova ancor di più la deprivazione che si traduce in stenti, fame, spoliazione. (…) L’Islam disapprova una simile distinzione tra le classi perché essa lascia dietro di sé rancori e odi, e in questo modo mina le stesse fondamenta della società, in quanto contiene elementi di egoismo, avidità e durezza che corrompono lo spirito e la coscienza, ed in quanto costringe i poveri al furto e alla rapina, o alla umiliazione e alla vendita del proprio onore e della propria dignità.»23

Ecco perché la zakat (l’elemosina islamica) deve essere considerata “l’elemento più essenziale della teoria economica dell’Islam”, teoria “della benevolenza e della carità”, capace di saldare insieme nella stessa causa comune privilegi e responsabilità, “il forte e il debole, il ricco e il povero, l’individuo e la comunità, i governanti e i sudditi, in una parola tutti gli uomini”24. Il quadro che ne emerge è, in buona sostanza, quello di un welfare assistenziale che, piaccia o meno agli islamisti, si colloca sul piano dottrinale non al di sopra, bensì al di sotto della solidarietà organica durkheimiana, e sul piano politico-pratico non al di sopra, bensì al di sotto del welfare state nato in Europadallo scontro di classe tra capitalisti e movimento operaio. Insomma, l’economia politica islamica delineata da Sayyid Qutb, dal fratello Mohammad, da al-Mawdudi e dagli altri teorici dell’islamismo radicale, benché pretenda di essere alternativa e “superiore” rispetto al modello o ai modelli occidentali del capitalismo, si limita in realtà a criticarne gli eccessi iper-liberisti senza metterne in discussione affatto i pilastri fondamentali. In fondo, essa mette capo a nulla di diverso da un mercantilismo (o capitalismo) compassionevole, in cui la forza degli interessi proprietari e della ricchezza privata è in qualche misura “bilanciato” dal richiamo agli interessi complessivi della comunità, come accade anche nella economia politica prospettata dalla dottrina sociale cattolica25.

In questo non c’è nulla di sorprendente. Già mezzo secolo fa Maxime Rodinson constatò che in molti paesi arabi e musulmani il “settore capitalistico” dell’economia aveva cominciato a recitare la “parte dominante”26 e dimostrò come nella religione e nella stessa tradizione islamica non vi fosse alcun vero elemento ostativo allo sviluppo del capitalismo. Oggi l’intero mondo “islamico”, con le notevoli differenze del caso tra paesi e dentro i singoli paesi, è profondamente immerso nell’economia di mercato globalizzata di cui tali paesi costituiscono, per lo più, una componente subalterna. Non fanno eccezione gli stati che si professano islamici. Essi sono ben lontani da qualsiasi “forma pura di sistema economico islamico”, e accettano senza battere ciglio che siano messi in atto una serie di trucchi per aggirare i precetti coranici che possono intralciare il buon andamento degli affari, ad iniziare dal divieto dell’interesse. Esiste inoltre una concorrenzialità fra i diversi paesi “islamici” che ha assai poco a che vedere con la fraternità ideale della umma27. Questi processi non configurano solo una crescente autonomia dell’economia dalla religione, ci dicono, a mio avviso, della crescente sussunzione delle varie espressioni della religione islamica, ed in particolare delle sue istituzioni, alla economia di mercato; una dinamica storica già sperimentata dal cattolicesimo, dal protestantesimo e dall’ortodossia in Europa.

Anche il primo importante banco di prova dell’islamismo politico radicale al potere, l’Iran khomeinista, con la sua esperienza trentennale di “governo islamico”, consente di vedere quanto siano state e quanto siano contraddette dai fatti l’“armonia” e l’“equità” sociale vantate come caratteristiche distintive del “vero islamismo”. La retorica khomeinista indicò nel riscatto dei mostazafin, le masse oppresse e tiranneggiate, la finalità prima della repubblica islamica 28. Ma non si può dire che tale riscatto si sia verificato. Né che vi sia traccia, nell’Iran di oggi, della “economia della divina armonia”29. L’ammissione è di Ahmadinejad in persona, e neanche a lui riesce di attribuirne tutta la responsabilità alla guerra e al parziale isolamento cui l’Iran è stato costretto dalle potenze occidentali. Da anni ammonisce l’establishment economico-politico-religioso del suo paese e il suo stesso fedele retroterra di ceti medi arricchiti all’ombra protettiva del regime islamista, che la polarizzazione sociale in Iran si è accentuata fino al punto da diventare esplosiva. Nonostante le piccole provvidenze assistenziali per i più poveri previste dal misero welfare islamico, l’Iran “teocratico” di oggi è in pieno “sotto l’influenza del denaro”30. Al di sopra del governo “islamico”, infatti, c’è la… Guida Suprema del denaro, del capitale-denaro e delle sue maschere: la NIOC, le banche private, gli oligopoli del commercio con l’estero, i grandi mercanti del bazar, le Fondazioni, gli speculatori immobiliari e – lo si ammetta oppure no – il mercato globale.

Se così è, e così è, non può stupire il trattamento riservato da questo islamismo alla classe operaia. Gli operai iraniani ebbero un ruolo importante nel rovesciare il regime dello Scià. Khomeini e soci, che se ne sentirono minacciati, risposero prima con il brutale schiacciamento nel sangue delle punte più avanzate del movimento operaio, poi neutralizzando e svuotando i consigli operai nati spontaneamente dall’insorgenza di massa31. La medesima sorte toccò alle masse contadine e artigiane kurde, turcomanne, baluche in lotta per l’autodecisione nazionale. Del resto, una volta posta l’unità interclassista della umma come il bene supremo, è nell’ordine delle cose che ogni lotta di classe autonoma degli sfruttati sia vista con sospetto, con timore, perfino con ripugnanza. E vada perciò, quando si dà, compressa, soffocata senza pietà32. Se ne può chiedere conferma ai militanti di classe iracheni, pachistani, libanesi, e così via. È esattamente da questo lato che andrebbe criticato e messo sotto accusa, a mio avviso, tutto l’islamismo politico, incluso quello radicale: per il grande bluff che la tinteggiatura sociale del suo nazionalismo e del suo “anti-imperialismo” sta riservando ai lavoratori “islamici”. Ma non lo chiederemo certo agli industriali e ai tecnici dell’islamofobìa. A costoro un simile trattamento dei lavoratori iraniani e “islamici” è più che gradito, e perciò stendono non un velo, ma degli impenetrabili teloni protettivi su tutti i soprusi e i delitti che i regimi più o meno ispirati all’islamismo compiono nei confronti dei lavoratori salariati e dei diseredati.

Dunque: non c’è nessuna alternatività del modo di produzione “islamico” rispetto a quello mercantile di marca occidentale33. La stessa roboante proclamazione dell’Islam come arma per “cancellare dalla faccia della terra ogni traccia dell’imperialismo” (M. Qutb) mette capo in realtà a nulla più che l’ipotesi di un nuovo ordine mondiale capitalistico più equilibrato e multilaterale che quelle “tracce”, e qualcosa di più, conserverebbe per intero. I paesi islamici, si preconizza, dovrebbero formare “un loro proprio blocco” per “insorgere contro la barbara tirannide delle moderne potenze imperialiste”. E, grazie alla loro unità e alla loro eccellente posizione geografica, dovrebbero istituire un nuovo “equilibrio delle forze tra le nazioni del mondo” all’interno del mercato globale. Anche qui: non è forse l’obiettivo che si proponeva il nazionalismo arabo, il cui fallimento l’islamismo politico ha più volte sottolineato e sul cui fallimento è prosperato?

Altrettanto contraddittoria è la soluzione-non soluzione che l’islamismo politico dà alla colonizzazione culturale occidentale dei paesi arabi e “islamici”. Il richiamo alla storia passata dell’Islam come civiltà ha di sicuro costituito in alcune contingenze una forza corroborante nella lotta anti-coloniale. Ma com’è avvenuto per altri movimenti di liberazione nazionale, il richiamo esclusivistico alle proprie radici “nazionali” o di umma religiosamente connotata, ha funzionato al tempo stesso da argine, da impedimento al contatto e alla collaborazione con altri movimenti di lotta alla scala globale e da elemento di divisione e di scontro interno dentro lo stesso mondo “islamico” tra chi accetta e chi invece rifiuta la via islamista, tra le differenti, e conflittuali, versioni dell’islam. È qui l’invalicabile limite, la contraddittorietà, e perfino la mediocrità di ogni “anti-imperialismo” nazionalista, incluso quello islamista: da un lato unisce, dall’altro divide. Ha detto bene Said, riprendendo Fanon: la coscienza nazionale può condurre facilmente ad una rigida intransigenza, alla creazione di un “angusto e spietato ricettacolo di potere tendente a generare conformismo”, se dentro la lotta nazionale non si fa strada una coscienza sociale autonoma da quella nazionale, capace di oltrepassarla per protendersi materialmente e idealmente verso “una più ampia esigenza di liberazione”. Una liberazione non solo dal giogo dell’oppressore esterno, ma anche da quello interno, nonché dal peso insostenibile delle tradizioni “feudali” nazionali e locali, spesso patriarcali e autoritarie, a cui si è dovuto far richiamo nella resistenza all’azione dei colonizzatori di ieri e di oggi34. Alla formazione di questa coscienza sociale, di classe, ed alla prospettiva ad essa connessa della liberazione integrale di tutta l’umanità lavoratrice, indipendentemente dalla sua fede religiosa, anche l’islamismo politico più radicale si è messo di traverso.

E però, nonostante le distanze enormi tra le sue promesse e le sue realizzazioni; nonostante la sistematica azione repressiva contro le punte più combattive della classe lavoratrice e le loro espressioni sindacali, politiche, culturali; è un dato di fatto che, oltre ad una forte porzione delle classi medie, ancor oggi masse di diseredati e specie le frazioni del proletariato di più recente proletarizzazione restano “particolarmente recettive” alle tematiche islamiste. Come spiegarcelo? come spiegarci che in questa vasta area del mondo “la religione come utopia mondana” funga almeno in parte da eccitante, anziché da oppiaceo35?

Rispondo per indicem, indicando quattro fattori tra loro strettamente concatenati.

C’è, in primo luogo, il collasso del nazionalismo arabo, del primo tempo della rivoluzione anti-imperialista araba, e in particolare la crisi della prospettiva dell’unificazione pan-araba, affondata dall’interno stesso del mondo arabo da contrasti senza fine accortamente alimentati dalle antiche potenze coloniali, dagli Stati Uniti, da Israele. C’è, in secondo luogo, la catastrofe delle formazioni del movimento operaio di matrice stalinista, che per alcuni decenni rappresentarono un’alternativa (“progressista”) all’influenza delle tendenze islamiste per poi dissolversi ancor prima del tracollo dei regimi del “socialismo reale” cui erano legate.

Tale duplice fallimento ha le sue radici strutturali nel passaggio dal colonialismo storico al neo-colonialismo, dal dominio diretto sulle colonie al dominio indiretto sulle ex-colonie via prestiti e investimenti di capitali. Il conseguimento dell’indipendenza politica, infatti, avvenuto per molti paesi arabi ed islamici nel secondo dopoguerra, non comportò automaticamente né lo sviluppo economico nazionale “indipendente”, né una vera e propria liberazione dagli schemi mentali imposti dai colonizzatori. Solo là dove la lotta anti-coloniale si svolse con maggiore radicalità e partecipazione di massa (Algeria e Iraq innanzitutto) o là dove il contrasto con i vecchi poteri coloniali fu sostenuto con un certo piglio dall’alto (vedi Egitto e Libia), si fece un tratto di strada in direzione di un’economia e di una società riscattate dai vincoli coloniali. Le insegne a cui questo cammino si ispirò furono quelle del “socialismo arabo”36 o, come in Indonesia, la prospettiva ancora più ampia di una “terza via” tra l’Ovest e l’Est, di paesi non allineati tra loro solidali nel cercare un accesso “paritario” al mercato mondiale. Ma queste spinte verso una crescita materiale e culturale “auto-propulsiva”, un tantino equilibrata e libera dal passato servaggio andarono ad impattare contro gli ostacoli frapposti dagli Stati Uniti, la nuova potenza egemone, e dagli stati ex-colonizzatori a qualsiasi reale modifica della divisione internazionale del lavoro. Ostacoli che avrebbero potuto essere vinti solo a condizione di un conflitto aperto con il nuovo assetto neo-coloniale, solo a condizione di unire in questo conflitto le forze vive delle nazioni di nuova indipendenza, solo a condizione di coinvolgere in esso la grande massa delle classi lavoratrici urbane e rurali. Non mancarono parziali sforzi in tale direzione, ma nel loro insieme le borghesie nazionali dei paesi arabi ed islamici si tirarono progressivamente indietro da questo scontro anche là dove (Egitto ed Algeria, in testa) lo avevano aperto per il timore, o il terrore, degli sconvolgimenti sociali interni e internazionali che avrebbe portato con sé, per il timore, o il terrore, di mettere in causa l’intero ordine capitalistico mondiale, e preferirono ricercare il compromesso all’interno con i ceti feudali e pre-capitalisti, all’esterno con i nuovi, e perfino con i vecchi, padroni occidentali.

La marcia indietro fu particolarmente deludente per le genti arabe, perché tra esse la consapevolezza di avere una storia, una lingua, una cultura, una religione in qualche modo comune, di avere altresì in comune “una lunga tradizione di lotta contro l’invasore straniero, tradizione che da un secolo [aveva] preso la forma della lotta diretta, con contenuto rivoluzionario”, fece sperare loro per un certo arco di anni che queste molteplici affinità avrebbero avuto il loro sbocco naturale nel grande progetto di “un’esistenza comune, e persino di una unità a livello degli Stati”37. Viceversa, la ricerca delle vie e dei modi di questa sognata “esistenza comune” si interruppe precocemente senza che fossero state messe in atto reali strutture di cooperazione economica inter-araba, e con il clamoroso fiasco del tentativo di istituire una Repubblica Araba Unita. Nel corso degli anni ’70 le politiche di “apertura” del regime post-nasseriano in Egitto e del governo algerino codificarono la fine del cammino verso l’unità del mondo arabo. Invece dell’uscita dal sottosviluppo e dalla dipendenza, invece della riconquista dell’orgoglio nazionale, invece del “socialismo arabo” e, tanto più, del potere dei lavoratori prospettato dal Ben Bella dei primi tempi, i popoli arabi andarono incontro ad un blocco dello sviluppo, alla crescente sottomissione ai diktat della finanza mondiale, al ritorno in forze delle imprese transnazionali nei loro paesi, alla ri-privatizzazione delle risorse nazionali, a ripetute umiliazioni (si pensi all’interminabile martirio dei palestinesi), alla soppressione delle libertà politiche conquistate con le lotte di liberazione nazionale, ad un nuovo processo di colonizzazione culturale. Invece dell’unità araba, andò in scena il desolante spettacolo, che tuttora si replica, di un mondo arabo frammentato in singoli paesi messi in concorrenza l’uno con l’altro e diretti da élites sempre più occidentalizzate e lontane dalle aspirazioni delle proprie popolazioni.

Nella sconfitta del primo tempo della rivoluzione anti-coloniale araba fu coinvolto in pieno anche il fragile movimento operaio di matrice stalinista. Forzato da un lato dagli interessi esterni cui era collegato (l’URSS) ad adattarsi al clima della “coesistenza pacifica” e a smorzare perciò il suo “anti-imperialismo”, spinto dall’altro lato dal suo intrinseco nazionalismo a guardare con sospetto la prospettiva dell’unità araba, esso fu letteralmente inghiottito nei vortici dell’offensiva neo-coloniale degli anni ’60 e ’70. Da allora le forze islamiste radicali sono rimaste padrone della scena politica, diventando da una componente, tra le altre, del nazionalismo arabo-“islamico”, la quasi incontrastata ideologia di tale nazionalismo, sia in quanto insegne politiche meno compromesse con le potenze straniere e con i locali poteri autocratici ad esse soggetti, sia in quanto unica componente in grado di rilanciare su scala perfino più ampia l’aspirazione all’unità nella lotta contro un Occidente di nuovo rampante.

Tra gli elementi che spiegano il seguito di massa dell’islamismo radicale c’è, in terzo luogo, un quadro socio-economico in via di aggravamento anche, e proprio, per effetto dei meccanismi combinati e diseguali di funzionamento del capitalismo internazionale rimasti oramai senza effettivi elementi di contrasto nel mondo “islamico” a seguito della rotta intrapresa dalla quasi totalità dei suoi stati:

«Le economie di molti paesi – dal Marocco all’Indonesia – versano in uno stato pauroso. La crescita demografica starà forse rallentando, ma più della metà di tutti i pakistani e gli iraniani hanno meno di venti anni. La previsione per la popolazione dell’Egitto è di un quarto tra il 2000 e il 2015. (…) La disoccupazione, in particolare tra gruppi importanti come i laureati, è acuta e il valore reale dei salari è stagnante. La crescita economica in Medio Oriente durante gli anni novanta è stata inferiore all’uno per cento. Per centinaia di milioni di persone nel mondo islamico, le condizioni abitative e igieniche sono fortemente inadeguate. Molte città si stanno avviando a unirsi al gruppo degli ‘stati falliti’ come luoghi di anarchia, violenza e alienazione endemiche. Dappertutto la forbice tra ricchi e poveri si va allargando »38.

Qualche anno di petrolio a prezzi medio-alti non ha mutato in radice la situazione, mentre l’impatto della crisi mondiale in corso promette di peggiorarla ulteriormente.

In quarto luogo c’è il fattore che sovrasta, riassume e collega tutti gli altri: la inesausta offensiva militare e diplomatica scatenata negli ultimi trenta anni da Washington e dalle capitali europee consorziate contro i paesi che, in un modo o nell’altro, hanno opposto una qualche resistenza alla penetrazione neo-coloniale. L’accerchiamento dell’Iran. Le due guerre devastanti all’Iraq, messo in ginocchio anche da dodici anni di embargo genocida dell’ONU. La guerra all’Afghanistan, già semi-distrutto dall’occupazione russa e dalla guerra civile dei primi anni ’90. Le invasioni della Somalia e del Libano. I bombardamenti sul Sudan e sul Pakistan. L’embargo occidentale e la guerra chimica di Israele contro i palestinesi di Gaza, puniti per avere osato eleggere democraticamente un governo non quisling. L’occupazione permanente di Kuwait e Arabia Saudita… Nessuna serie di videotape jihadistiavrebbe potuto essere più efficace di questi avvenimenti nel mostrare quanto è globale39 l’attacco euro-occidentale al mondo “islamico”. E quanto sarebbe vitale per gli aggrediti rispondere ad esso unitariamente superando la fitna, il caos, l’anarchia, il frazionismo, il localismo, le sètte, le guerre intestine e confessionali che dilaniano il mondo “islamico”, per dare vita ad una lotta di liberazione inscindibilmente nazionale e sociale, altrettanto globale. Ed è esattamente qui la radice della grande paura degli islamofobici, che non a caso, nonostante le profondissime divisioni e gli antagonismi che percorrono il “mondo islamico” e lo stesso movimento islamico radicale, sono soliti rappresentare le genti “islamiche” come se fossero una sola massa indistinta e compatta (la materializzazione dei loro incubi).

Con le sue furiose invettive e falsificazioni, l’integralismo, il fondamentalismo, il fanatismo anti-islamico prova ad occultare rovesciare la realtà. Altro che guerra di religione e di civiltà dell’Islam volta ad occupare i territori dell’Europa e dell’Occidente! Sono ancora l’Europa e l’Occidente ad aggredire, invadere, occupare, espropriare, saccheggiare40 i territori “islamici”. La terribile, brutale ri-colonizzazione dell’Iraq ne è solo il segno più sanguinoso (per la violenza che ha dovuto subire) ed estremo (per le modalità con cui è stato spartito il suo petrolio) tra i tanti41. Spogliate dal loro involucro religioso, le denunzie e le evocazioni islamiste colgono quindi, almeno in parte, la verità delle cose: è in questo la loro perdurante forza.

Ma l’ideologia e la politica degli islamisti radicali sono qualcosa più di un mero involucro, di una mera superficie esterna facile da spellare come se fosse una buccia di banana. La loro volontà di tenere unita la “comunità dei credenti”, invece così profondamente scissa in classi; il loro eludere la questione sociale fondamentale della proprietà dei mezzi e delle forze di produzione, dello sfruttamento del lavoro; la loro insostenibile pretesa di attingere dal passato d’oro dell’Islam, oltre che coraggio e morale, le soluzioni economico-sociali appropriate per un futuro “non capitalistico”; la loro incapacità a portare fino in fondo con coerenza la critica del capitalismo; la loro inclinazione ad accettare il terreno fasullo dello “scontro di civiltà”, come se davvero di questo si trattasse; la loro riluttanza a parlare a quella parte delle società occidentali che potrebbe invece ascoltare le ragioni degli oppressi islamici; la loro intolleranza, la loro brutale repressione, nei confronti dell’autonomia della classe lavoratrice; sono altrettanti pesanti handicap nello scontro globale con le potenze neo-coloniali che pretendono avere mano libera nell’uso della forza-lavoro e delle risorse naturali del mondo arabo-“islamico”. Queste insanabili contraddizioni interne all’islamismo anti-occidentaledi tutte le più svariate tendenze spiegano perché, pur avendo conquistato un seguito imponente tra le masse degli oppressi del mondo “islamico”, esso si riveli impotente a dare una effettiva soluzione alle questioni che pone: l’uscita dal sottosviluppo e dalla dipendenza, l’unificazione dei paesi “islamici” nella lotta alla dominazione occidentale, la “giustizia sociale”.

Proprio su questa inconcludenza fa leva la crociata anti-Islam per mostrare come l’Islam non sia la soluzione, bensì il problema. Ma nonostante questa inconcludenza, questo avvitarsi su sé stesso del movimento politico islamista (ed ancor più della sua componente di al Quaeda), il martellamento di stato contro l’islamismo politico e il jihadismo continua senza un attimo di tregua. Continua perché i poteri forti dell’Occidente ed i loro “liberi” tamburini temono che la resistenza e la critica islamiste, per incoerenti (o peggio) che siano, possano innescare comunque nuove sollevazioni anti-occidentali, anti-imperialiste di grandissima portata. Temono che prima o poi queste sollevazioni possano trovare la propria strada di liberazione al di là ed anche contro l’islamismo che all’oggi le monopolizza, frenandole e deviandole non meno di quanto le ecciti – si pensi al percorso compiuto, a suo tempo, da Malcolm X, che loportò a separarsi dal movimento dei musulmani neri per incamminarsi verso la costituzione di un movimento afro-americano non strettamente connotato in termini religiosi, proteso verso “una più vasta lotta dei popoli oppressi contro ogni forma di oppressione”42. Temono che nuove insorgenze di massa nel mondo “islamico” riescano a parlare finalmente ai lavoratori e alle popolazioni europee, occidentali, la lingua dei comuni bisogni, delle comuni aspirazioni, dei comuni sogni di una società di liberi ed uguali, scuotendoli dal loro torpore, dai loro pregiudizi, dalla loro ostilità. E questi, incoraggiati da tanto ardire, trovino a loro volta la forza e la via per ritornare in sé e a sé stessi, alla difesa attiva e intransigente dei propri bisogni vitali, liberandosi dai ceppi che oggi li avvincono.

Detto di quanto sia inconsistente la tesi che vuole l’islam/Islam proteso a conquistare-colonizzare il territorio europeo, ci occupiamo ora dell’altra ossessione di Fallaci&Co.: la colonizzazione culturale dell’Europa per opera degli immigrati “islamici” qui emigrati. Sarebbe in atto, infatti, una sorta di crociata cultural-religiosa alla rovescia con l’obiettivo di conquistare le nostre “anime” ai costumi e alle credenze reazionarie proprie dell’islam. Un allarme rosso rilanciato di recente da C. Caldwell, secondo cui si andrebbe inesorabilmente verso uno scontro tra la cultura europea e la cultura/le culture dell’immigrazione che, anzi, starebbero già soppiantando quella europea, sotto la guida dell’immigrazione “islamica”43. L’inesorabilità di questo braccio di ferro sarebbe dovuta all’impossibilità di assimilare gli immigrati islamici per la semplice ragione che la religione islamica “mal si combina con il tradizionale laicismo europeo” e con i tradizionali “valori europei”: individualismo, libertà individuali, democrazia, libertà sessuale, diritti delle donne. A causa di ciò, le genti islamiche immigrate in Europa, supposte nella loro totalità fanaticamente ligie alla versione più conservatrice della loro religione e delle loro culture, si starebbero sempre più de-assimilando e auto-segregando in ghetti islamizzati, da Londonistan fino a Cremonistan, ed all’interno di tali ghetti “etnico”-religiosi starebbero preparando in massa un’offensiva di tipo jihadista contro la cultura e contro le istituzioni europee44. Quanto corrisponde alla realtà questo quadro? Vediamo.

Non avrebbe senso negare che esista e sia attiva in Europa una corrente jihadista estremamente minoritaria che nutre progetti di questo genere. Ma il rapporto della grande maggioranza delle popolazioni “islamiche” immigrate in Europa con l’ambiente socio-culturale europeo sembra essere di altro tipo. Le più significative indagini provano infatti un almeno parziale effetto-assimilazione. Scrivono Inglehart e Norris a commento di un’indagine compiuta in parallelo sulle società di provenienza degli immigrati “islamici” venuti in Europa e sulle convinzioni e i comportamenti di questi ultimi:

«l’analisi dimostra che i valori fondamentali dei musulmani che vivono nelle società occidentali si collocano all’incirca a metà strada tra i valori dominanti nelle proprie società di origine e quelli dominanti nelle loro società di destinazione. Questo risultato suggerisce che le popolazioni immigrate che vivono a Rotterdam, a Bradford o a Berlino sono dentro un processo di adattamento alle culture occidentali, mentre al tempo stesso continuano a riflettere i valori appresi attraverso la socializzazione primaria nei paesi di nascita. I modelli a più livelli usati per l’indagine contenuta in questo studio, controllati con riferimento a diverse altre caratteristiche sociali, mostrano che vivere all’interno di una società islamica o di una società europea ha, sui valori che gli individui assorbono, un peso di gran lunga più forte delle identità religiose individuali, o anche degli effetti dell’educazione, dell’età, del genere o del reddito degli individui. (…)

«Ciò indica che i musulmani non sono così eccezionalmente resistenti all’integrazione come alcuni studi pretendono; al contrario, la posizione intermedia documentata in altri studi per gli emigranti messicani o latino-americani si applicano anche alle popolazioni musulmane. Gli emigranti, così sembra, non rigettano per intero le proprie radici culturali, né adottano in toto i valori delle società di cui sono ospiti. Questo modello risulta chiaro e coerente attraverso tutti gli indicatori, sebbene l’esatta collocazione dei migranti vari in modo significativo nelle diverse scale culturali. Un’altra cosa che colpisce è che sebbene gran parte del dibattito europeo sia focalizzato sulle attitudini e sulle prassi che riguardano i ruoli degli uomini e delle donne, per ciò che concerne l’uguaglianza di genere le minoranze musulmane [in Europa] sono molto più vicine alle genti occidentali che alle genti islamiche»45.

I valori in questione sono la religiosità, l’attitudine nei confronti della “liberalizzazione” dei rapporti sessuali (divorzio, aborto, omosessualità), l’atteggiamento verso l’uguaglianza tra i generi, i principi democratici e, come anticipato, gli immigrati “musulmani” in Occidente si mostrano pressoché equidistanti tra le società di partenza (più “conservatrici”) e quelle di arrivo (più “evolute”)46. Secondo gli A. nel determinare una tale equidistanza incide una sorta di auto-selezione preventiva alla partenza: in linea di massima è infatti improbabile che a partire dai paesi “islamici” siano gli elementi più anti-occidentali, mentre è presumibile il contrario. Ed incide, evidentemente, anche l’effetto di “integrazione” che esercita in generale ogni società su tutti coloro che vivano abitualmente in essa, il che vale in modo speciale per le migrazioni contemporanee che sono in larga parte definitive.

Il modo in cui Inglehart e Norris delineano questo processo risulta, francamente, alquanto piatto, perché non vengono prese in adeguata considerazione alcune variabili fondamentali quali la fase storica in cui le migrazioni avvengono, i differenti gradi di “integrazione” dei differenti gruppi sociali e nazionali47, e i fattori di reazione repulsiva nei confronti delle dinamiche di “integrazione”. Vi sono tuttavia indagini più ficcanti e particolareggiate che mettono in luce la fragilità del mito di un Islam lanciato alla conquista culturale della Europa attraverso i “suoi” immigrati e le “sue” immigrate. La caduta del tasso di crescita demografica sia nei paesi “musulmani” che tra i “musulmani” di Europa; la stagnazione o la contrazione della pratica religiosa collettiva (con una bassissima percentuale di credenti che frequenta normalmente le moschee), e la crescente individualizzazione e privatizzazione di essa; il processo di “nazionalizzazione” di alcuni organismi istituzionali islamici; il numero davvero esiguo delle conversioni di europei all’islam; la continua espansione, con un tasso in alcuni casi spettacolare (in particolare tra le donne algerine), dei matrimoni tra musulmani e non musulmani; l’ampliamento dei quartieri “misti”; la crescita delle acquisizioni di cittadinanza, perfino in Italia dove esiste una legislazione molto restrittiva; il sostanziale fallimento o la marginalità delle liste elettorali religiose; la presentazione delle rivendicazioni dei diritti per le popolazioni di origini coloniali sulla base di “identità culturali laicizzate”, e non più religiose, come avviene in Francia con “Les Indigènes de la République”; il lievitare, in alcune aree più radicalizzate, della prospettiva del ritorno o dell’esodo verso i territori islamici48; sono altrettanti segni di un processo di adattamento delle popolazioni di origini “islamiche” al contesto europeo assai più sfaccettato e contraddittorio di quello spacciato dalla vulgata islamofobica.

Torniamo a dire: le immigrate, gli immigrati “islamici” in Europa non sono mummie imbalsamate da quattordici secoli, sono esseri sociali del tutto contemporanei; non sono zombie catatonici, sono individui in movimento, che hanno con le società euro-occidentali un rapporto vivo, e perciò conflittuale, che non è possibile racchiudere nell’opposizione assoluta tra conservazione dei propri costumi/credenze “di origine” e assimilazione. Può anche essere vero, come sostiene Caldwell, che dopo una “parziale adozione dell’identità nazionale del nuovo paese”, soprattutto le nuove generazioni dell’immigrazione nonché le seconde e terze generazioni tendono a ritornare “all’antica identità religiosa”49, o che, per tenerci ad un esempio abusato, le nuove generazioni sono più a favore del velo delle vecchie. Ma il punto-chiave sta nell’identificare i perché, non certo indecifrabili, di queste reazioni di rigetto. Il primo perché lo registra lo stesso Caldwell citando un rapporto del ministero degli Interni britannico che

«evidenziava come la principale causa di rabbia tra i giovani fosse la “sensazione che in politica estera la Gran Bretagna usasse ‘due pesi e due misure’, predicando la democrazia e, al contempo, opprimendo la umma (la comunità dei credenti) o tollerandone l’oppressione, come per esempio in Palestina, in Iraq, Afghanistan, Kashmir, Cecenia”. La stragrande maggioranza dei musulmani disapprova qualsiasi intervento nel mondo arabo musulmano. Tra il 64 e l’80% di essi, a seconda dei sondaggi, si proclamano contrari alla partecipazione britannica alla guerra in Afghanistan»50.

La seconda, fondatissima ragione di questo rigetto è nell’insieme delle discriminazioni economiche, sociali e culturali che gli immigrati in generale, quelli “islamici” in modo tutto speciale, sono costretti a subire, anche quando sono europei “sui documenti”, il che brucia ancor di più: la sollevazione dei giovani maghrebini dei quartieri popolari di Parigi e di molte altre città francesi nel 2005 lo dice a chiare lettere. E la terza, solo per limitarci alle cause di fondo permanenti, è la pretesa delle istituzioni europee di annullare la vita passata degli emigranti, di sradicarli dalla cultura dei loro popoli per farli inginocchiare dinanzi ai “valori europei” e alla cultura europea proprio nel mezzo di una palese crisi morale e spirituale del vecchio continente. Quindi, le reazioni che si vuole rappresentare come de-assimilazione e auto-segregazione “identitaria” altro non sono che inevitabili forme di auto-difesa individuale e collettiva della propria dignità, e mezzo (difensivo) di auto-affermazione. Un’auto-affermazione di tipo religioso? Direi: un’auto-affermazione che prende anche forme religiose51, come accade spesso quando degli oppressi, non vedendosi riconosciuti in quanto esseri umani, inseguono la realizzazione della propria “essenza umana” disconosciuta in una dimensione “fantastica”. In verità, per gli immigrati islamici in Europa la dimensione religiosa risulta più concreta di quanto si possa immaginare, in quanto si incarna, frequentino essi o meno le moschee, in relazioni sociali protettive, o perché consentono di accedere a servizi sociali altrimenti non abbordabili, o perché permettono loro di sentire in qualche misura il calore della propria comunità di origine, o perché gli fanno respirare un’aria etica in un mondo che avvertono essere del tutto privo di eticità.

Ancora una volta, perciò, l’industria dell’islamofobìa opera un rovesciamento della realtà: la volontà degli stati europei di riportare le popolazioni “musulmane” immigrate ad una condizione di “soggezione culturale” e materiale di tipo coloniale, è mistificata e nascosta dietro gli allarmi sui progetti di colonizzazione culturale e politica dell’Europa di fonte islamica, di cui queste popolazioni sarebbero il cavallo di Troia. Ma nelle pieghe della letteratura islamofobica si insinua qua e là la verità sulle radici e sulla natura delle paure che nutrono le campagne islamofobiche. Diamo ancora una volta la parola a Caldwell:

«Ci vuole un gran coraggio per decidere di emigrare, di lasciarsi alle spalle tutti i punti di riferimento e le certezze di un tempo e partire alla ricerca di una vita migliore. Ai nostri giorni, tuttavia, sono molti i nativi europei che si trovano esattamente in questa posizione. Vivono una sorta di éxil à l’interieur: i cambiamenti culturali ed economici li hanno tagliati fuori dal mondo che credevano avrebbero abitato. E per un aspetto almeno si trovano in una posizione più scomoda degli immigrati veri e propri: non sono stati loro a decidere questo cambiamento. E la crisi economica iniziata nel 2008 ha reso i paesi europei ancor meno riconoscibili ai nativi.

«Contrariamente ai diffusi sospetti, il vecchio, comodo contratto sociale – l’Europa dei matrimoni solidi, del lavoro abbondante, delle politiche equilibrate e delle relazioni sociali prive di attrito – non viene subdolamente negato ai musulmani e ad altri immigrati per mano degli europei stanchi di dispensarlo. Quel contratto sociale non è più disponibile neppure per gli europei»52.

Ecco la questione cruciale: un “buon numero di nativi europei, in particolare appartenenti al proletariato” (Caldwell) stanno vivendo una sorta di “emigrazione” da una condizione socio-giuridica che credevano loro per sempre – il “contratto sociale” degli anni affluenti – per entrare in una terra nuova in cui cominciano a sentirsi anch’essi esiliati (esiliati dalle certezze precedenti), degli immigrati, cioè dei discriminati, nei propri stessi paesi di nascita. La resistenza che gli immigrati “veri”, e gli “islamici” sono tra i resistenti più coriacei, oppongono al trattamento differenziale cui sono sottoposti, potrebbe perfino provocare un grande corto circuito sociale capace di bruciare le pareti divisorie con cui gli stati e i mercati si ingegnano a tenere separati lavoratori nativi e lavoratori immigrati. E allora, addio prospettive di “guerre di civiltà”…

***

Note

1 Cfr. Fallaci O., op. cit., pp. 78-9 (i corsivi sono miei). Analoga prosa e “argomentazione”, con l’accento posto prevalentemente sulle mire territoriali, in Pera M., Liberali, cannibali e cristiani, conferenza all’università statunitense di Georgetown (22 settembre 2005), citata in Zolo D., La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 135. Pera, al tempo presidente del Senato, paragona gli islamisti ai cannibali. In tema di civili versus cannibali, a “filosofi” della caratura di un Pera ha risposto con sarcasmo un po’ di tempo fa Michel de Montaigne nei suoi Saggi, Adelphi, Milano, 1992, pp. 268 ss., sostenendo che in fatto di “barbarie” già allora i civili civilizzatori superavano sotto ogni riguardo quelli che usavano chiamare selvaggi.

2 Il Trattato di Tordesillas, concluso il 7 giugno 1494 sotto l’alto patronato del papa Alessandro VI, divideva il “nuovo mondo” in due sfere di influenza, l’una portoghese, l’altra spagnola. Dopo lunghe trattative la linea di demarcazione (raya) tra i due imperi fu tracciata a 370 leghe ad ovest delle isole di Capo Verde. Con buona pace di Grozio, è questo il vero atto di nascita del diritto internazionale moderno.

3 Cfr. Luxemburg R., L’accumulazione del capitale, Einaudi, Torino, 1980,cap. XXVII.

4 Ha scritto A. Cesaire: «Tra il colonizzatore e il colonizzato, c’è posto solo per il lavoro duro, l’intimidazione, la pressione, la polizia, l’imposta, il ladrocinio, lo stupro, le imposizioni culturali, il disprezzo, la sfiducia, l’alterigia, la sufficienza, la villania, élites senza cervello, masse avvilite. Nessuno spazio per il contatto umano, ma rapporti di dominazione e di sottomissione che trasformano il colonizzatore in maresciallo, in guardia-ciurma, in frusta e l’indigeno in strumento di produzione» (Discorso sul colonialismo, Lilith, Roma, 1999, p. 19).

Il caso dell’Algeria, della vivisezione dell’Algeria, come ebbe a dire la Luxemburg, del martirio dell’Algeria tra il 1830 e il 1962, rappresenta bene tutto questo processo: cfr. Tlemcani R., State and Revolution in Algeria, Zed Books, London, 1986; Lacherat M., L’Algérie: nation et société, Maspero, Paris, 1965; Rapporto della delegazione del FLN alla Conferenza afro-asiatica del Cairo (dicembre 1957- gennaio 1958), in Crepuscolo del colonialismo, “Rinascita” n.11-12/1958, pp. 801-7. Y. Benot ricorda che i colonizzatori francesi incendiarono 8.000 villaggi e un milioni di ettari di foreste, uccisero 141.000 combattenti del FLN (secondo l’armée française) e tra 200.000 e 500.000 civili, deportarono nei camps dits de regroupement 2 milioni e 137.000 algerini e algerine -su una popolazione totale che era, al 1954, di 8 milioni: cfr. La décolonisation de l’Afrique française, in Ferro M., Le livre noir du colonialisme, Hachette, Paris, 2003, p. 741.

Altrettanto bene esemplifica questo processo la più breve dominazione italiana sulla Libia che, con i suoi massacri, le deportazioni, i campi di concentramento, la semina di milioni di bombe sul terreno, letteralmente decimò la popolazione libica e il suo bestiame conquistando, in nome della “pace romana”, un “record sanguinoso” nella storia insanguinata del colonialismo: cfr. Salerno E., Genocidio in Libia, Sugarco, Milano, 1979; Santarelli E. et aliiOmar al-Mukhtàr e la riconquista fascista della Libia, Marzorati, Milano, 1981; Del Boca A., Italiani brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 2005, cap. 8.

5 Citato in Scarcia B.M., Il mondo dell’Islam, Editori Riuniti, Roma, 1981, pp. 69-70. Tra i governanti arabi quello che cercò per primo, con convinzione ed energia, di impadronirsi delle tecnologie europee per favorire lo sviluppo industriale dell’Egitto fu Muhammad ‘Ali, che governò il paese dal 1805 al 1848.

6 Ha ragione la Scarcia Amoretti: c’è una certa continuità tra le affermazioni di al-Afghani e quelle che il comunista indonesiano Tan Malakka fece nel 1922 al 4° congresso della Terza Internazionale in un intervento mirato a sostenere l’alleanza tra il movimento comunista e il pan-islamismo di Sarekat Islam, un’organizzazione indonesiana di ispirazione islamica: «Che cosa significa esattamente il pan-islamismo? Un tempo il pan-islamismo aveva un significato storico: l’Islam doveva conquistare il mondo intero, spada alla mano […]. Oggi il pan-islamismo ha un significato completamente diverso: è la lotta per la liberazione nazionale [c. m.], perché l’Islam per i musulmani è tutto; esso rappresenta non solo la religione, ma lo Stato, l’economia, il cibo e tutto il resto; significa la fratellanza di tutti i popoli musulmani, la lotta di liberazione non solo del popolo arabo, ma dei popoli indú, giavanesi, insomma di tutti i popoli musulmani oppressi. Questa fratellanza ha come conseguenza che la lotta di liberazione è lotta non solo contro il capitalismo olandese, ma anche contro quello inglese, francese, italiano, contro il capitalismo di tutto il mondo» (Ivi, p. 70).

7 Mi riferirò non in generale all’islamismo politico, ma pressoché esclusivamente all’islamismo politico militante più radicale, e – benché sia consapevole delle diversità di posizioni che lo caratterizzano in relazione anche ai diversi contesti storici e nazionali in cui ha preso corpo, e delle durissime lotte che lo hanno attraversato e l’attraversano – lo considererò (di fronte all’Occidente) come se costituisse un’unica tendenza, il che – a rigore – non è.

8 Ha smentito completamente, invece, l’aspettativa di Tan Malakka, e non solo sua, che questa lotta di liberazione pan-islamica potesse evolvere quasi spontaneamente in lotta «contro il capitalismo di tutto il mondo». In molti casi, al contrario, l’islamismo politico si è distinto per la violenta contrapposizione ai movimenti e ai partiti comunisti e socialisti.

9 Sul ruolo svolto nel XIX secolo dall’islamismo nell’Africa nera in “tutta una serie di rivoluzioni sociali, etniche e politiche” (Coquery-Vidrovitch C.-Moniot H., L’Afrique noire de 1800 a nos jours, PUF, Paris, 1974, pp. 320, 89-113), cfr. Froelich J.C., Les musulmans d’Afrique noire, Orante, Paris, 1962; Monteil V., L’Islam noir, Seuil, Paris, 1964. Per il suo ruolo nel Maghreb, cfr. Julien C.-A., L’afrique du Nord en marche. Algérie Tunisie Maroc 1880-1952, Omnibus, Paris, 2002. Per il suo ruolo nelle vicende passate dell’Iraq, cfr. Batatu H., The Old Social Classes and the Revolutionary Movements of Iraq, Princeton University Press, Princeton, 1989.

10 «[…] a prescindere dall’accordo sulle questioni celesti e al di là di quello sui problemi di vita quotidiana, quando questi accordi esistono e nonostante le similitudini, o anche l’identità, delle forme di organizzazione e di denominazione, i movimenti musulmani restano essenzialmente dei movimenti politici e [costituiscono] quindi le forme di interessi sociopolitici specifici ed eminentemente terrestri» (Achcar G., L’Oriente incandescente. Il Medioriente allo specchio marxista, Shahrazad Edizioni, Roma, 2008, p. 64). Questa stessa chiave di lettura la troviamo in studiosi di differenti orientamenti quali Kepel G., Il profeta e il faraone. I Fratelli musulmani alle origini del movimento islamista, Laterza, Roma-Bari, 2006; Id., Jihad Ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, Carocci, Roma, 2001;Etienne B., L’islamismo radicale, Rizzoli, Milano, 1988; Choueiri Y.M., Il fondamentalismo islamico, Il Mulino, Bologna, 1993, secondo cui l’ispiratore del radicalismo islamico sarebbe addirittura il marxismo (p. 104); Burke J., Al Qaeda. La vera storia, Feltrinelli, Milano, 2004.

11 Traduco dall’edizione statunitense di Milestones, The Mother Mosque Foundation, Cedar Rapids, s.d., p. 11.

12 Cfr. Schulze R., op. cit., p. 19. Ancor più chiaro è F. Burgat: «L’uso da parte degli islamisti di un lessico ‘religioso’ è fonte di profondi malintesi. ‘Islamico’ non vuol dire affatto, o in ogni caso non vuol dire solo, ‘sacro’. Ben più di quanto non sia sacro, il lessico islamico è di fatti soprattutto ‘endogeno’, ‘autoctono’, altro dall’Occidente, ‘nostro’ e non… ‘loro’» (Face à l’islamisme: l’autisme!, intervista a François Burgat, pubblicata sul sito www.alencontre.org nel mese di maggio 2009). A parere di Burgat, la reintroduzione di questo lessico facilita il processo di modernizzazione e la stessa laicizzazione della società.

13 Cfr. Fanon F., Scritti politici. Per la rivoluzione africana, vol. I, DeriveApprodi, Roma, 2006, p. 47.

14 Il più clamoroso passo istituzionale in questa direzione è stato compiuto nel 2005 in Francia con l’emendamento (art. 4) alla legge sugli harki,che dava mandato agli autori di libri scolastici di mettere in evidenza “il ruolo positivo svolto dalla presenza francese oltre mare, in particolare in Algeria”. Ma Chirac, Sarkozy & Co. non sono certo i soli a lanciarsi in simili imprese. Perfino lo snervato ex-premier britannico Brown è riuscito a sfornare in questa materia delle affermazioni energiche quali: «Dovremmo essere fieri dell’impero», e «È tramontata l’epoca in cui la Gran Bretagna doveva scusarsi per la sua storia coloniale» (cfr. “Daily Mail”, 14 settembre 2004 e 5 gennaio 2005). Gli storici britannici conservatori vanno, naturalmente, oltre. A. Roberts, ad esempio, è sicuro che l’Africa «non ha mai conosciuto un’epoca più bella di quella vissuta sotto l’amministrazione britannica», che portò libertà e giustizia in un mondo fino ad allora «sprofondato nelle tenebre dell’ignoranza» (cfr. “Daily Mail”, 8 gennaio 2005). Per l’Italia mi limito a citare Fini, il presidente della Camera dei deputati, che passa per uomo di “sinistra” nella destra italiana. A suo dire, «non tutte le pagine del colonialismo sono negative. Ritengo che l’Europa sia stata un elemento di grande civilizzazione, e se guardiamo a come sono ridotte oggi Etiopia, Somalia e Libia e a come stavano quando c’era l’Italia, credo che ci sarà una rivalutazione del nostro ruolo in quei paesi» (cfr. “la Repubblica”, 26 settembre 2006 – corsivo mio).

15 Cfr. Fanon F., op. cit., p. 55. Secondo Fanon è anche attraverso questo esercizio che i «passivi di una volta, i vigliacchi per natura, i paurosi, i sottomessi di sempre si sollevano e insorgono».

16 Cfr. Gabrieli F., Maometto e le grandi conquiste arabe, Il Saggiatore, Milano, 1967; Id., Aspetti della civiltà arabo-islamica, ERI, Roma, 1956; Le cause storiche del separatismo arabo, “il programma comunista”, n. 6/1958.

17 La citerò qui nella traduzione italiana, a cura della Unione degli studenti musulmani in Italia: Equivoci sull’Islam, S.I.T.A., Ancona, 1980. L’edizione più nota in Occidente è quella in lingua inglese, pubblicata a Chicago nel 1980 da Kazi Publications.

18 Indicativa del modo di ragionare di M. Qutb, insieme apodittico, legalistico e a dir poco ingenuo è la seguente concatenazione di affermazioni: premesso che «nello stato islamico nessuno ha il permesso di fare leggi come a lui piace», premesso inoltre che le leggi islamiche «non fanno distinzioni fra i singoli», ne deriva che «la società islamica è una comunità senza classi». Infatti (?), se è vero che «l’esigenza delle classi è strettamente connessa con l’esistenza di una prerogativa legislativa [?], laddove un tale privilegio è inesistente e nessuno può far leggi che salvaguardino i suoi propri interessi a spese di altri, non vi saranno classi» (p. 167).

19 Si deve ad al-Mawdudi una definizione di parità che sembra una fotocopia del concetto di pari opportunità di pura matrice statunitense: «La parità in cui l’Islam crede è la parità rispetto alla possibilità di lottare per assicurarsi i mezzi di sostentamento e per raggiungere il più elevato grado di prosperità e di fortuna» (cfr. Vivere l’Islam, a cura dell’Unione degli studenti musulmani in Italia, S.I.T.A., Ancona, 1979, p. 86).

20 Si trovano comunque nei testi islamisti denunce efficaci della “minoranza tirannica che [in Europa e in Occidente] possiede tutto il capitale finanziario”, e che in forza di ciò controlla i parlamenti, le costituzioni, la stampa, svuotando i meccanismi di garanzia democratici (cfr. Choueiri Y.M., op. cit., cap. V). Ancora una volta, però, appare inconsistente l’alternativa che viene proposta. Infatti, non si capisce come in società quali quelle “islamiche” che sono egualmente divise in classi, con ricchi proprietari dei mezzi di produzione e di grandissime fortune da un lato, masse di salariati e semi-salariati nullatenenti dall’altro, il principio della consultazione (shura) possa avere il magico potere di annullare disuguaglianze e antagonismi sociali. Le elezioni democratiche occidentali non sono forse altrettante consultazioni in cui tutti i cittadini hanno formalmente un solo voto a loro disposizione?

21 Cfr. Qutb S., Social Justice in Islam, Islamic Publications International, Oneonta (N. Y.), 2000, pp. 43-49, testo pubblicato per la prima volta nel 1949.

22 Ivi, pp. 47-8 (il corsivo è mio). «Nell’Islam il solo modo per acquisire il diritto di proprietà è attraverso il lavoro, di qualsiasi tipo e varietà esso sia» (p. 138).

23 Ivi, p. 164.

24 Ivi, p. 202.

25 Si potrebbero mettere in parallelo le pagine che Social Justice in Islam dedica alla “santità” e ai limiti dellaproprietà privatacon quelle che il cardinale J. Höffner riserva a questo medesimo istituto come “fondamento dell’ordine economico nel senso della dottrina sociale cristiana” ragionando sui “due aspetti della proprietà”, la sua funzione individuale e la sua funzione sociale, e vi si troverebbero facilmente delle impressionanti omologie (cfr. La dottrina sociale cristiana, Edizioni Paoline, Roma, 1979, pp. 182-205). Si potrebbero anche accostare le limitazioni poste alla proprietà privata dalla dottrina sociale islamica (o islamista) con quelli posti da qualsiasi costituzione democratica recente, quelli fissati ad esempio dalla Costituzione italiana del 1948 nel 2° comma dell’art. 42: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». E da tale duplice accostamento risulterebbe evidente che nella dottrina sociale islamista di specificamente islamico c’è solo l’insieme delle giustificazioni storiche e dottrinali, e niente altro.

26 Cfr. Rodinson M., Islam e capitalismo, Einaudi, Torino, 1968, p. 140. Non si deve dimenticare, del resto, che già l’Islam medievale presenta un’economia che nelle città è centrata sul mercato.

27 Cfr. Nomani F. – Rahnema A., Islamic Economic Systems, Zed Books, London & New Jersey, 1994 (molto istruttivo); Amin S., The Arab Economy Today, Zed Books, London, 1984; Oualalou F., Complementarietà e concorrenzialità delle economie arabe: dal progetto panarabo ai complessi regionali, in Abdel-Fadil et aliiStato ed economia nel mondo arabo, Edizioni della Fondazione G. Agnelli, Torino, 1993, pp. 47-59; Siddiqi M.N., Il sistema bancario islamico: teoria e pratica, in Islam e finanza. Religione musulmana e sistema bancario nel Sud-Est asiatico (a cura dell’Institute of Southeast Asian Studies), Edizioni della Fondazione G. Agnelli, Torino, pp. 42-79, in particolare le pagine sulla partecipazione agli utili, l’interesse e il murabaha e su “una sorta di crisi di identità all’interno del movimento finanziario islamico” (p. 76) in seguito alla sua crescente omologazione a quello occidentale.

28 Cfr. Vieille P., Transformation des rapports sociaux et revolution en Iran, “Peuples Méditerranéens”, n.8/1979, pp. 25-58;Abrahamian E., Iran Between Two Revolutions, Princeton University Press, Princeton, 1982; Bakhash S., The Reign of the Ayatollahs. Iran and the Islamic Revolution, Tauris&Co., London, 1985. Su questo tema Khomeini insiste anche nel suo Imam’s Final Discorse, pubblicato a cura del Ministry of Guidance and Islamic Culture (dell’Iran), senza data e senza luogo di edizione.

29 Noto en passant che il tema dell’armonia e dell’equità sociale accomuna l’islamismo politico oltre che al riformismo occidentale, anche al “comunismo” confuciano dei buro-capitalisti cinesi.

30 Cfr. Motamed-Nejad R., L’Iran sous l’emprise de l’argent, “Le Monde diplomatique”, juin 2009.

31 Cfr. Bayat A., Workers & Revolution in Iran, Zed Books, London, 1987.

32 Si pensi alla sorte toccata a formazioni del giovane marxismo iraniano quali il Partito comunista d’Iran o il Komaleh, che nei primi anni ’80 si produssero in un grande sforzo di emancipazione dallo stalinismo, nel mentre intervenivano attivamente nel processo rivoluzionario in corso.

33 Scrive Bayat A.: «Anche il loro [degli islamisti] ‘populismo redistributivo’ rimane largamente una caratteristica della loro fase di movimento; le politiche economiche degli stati islamisti quali l’Iran, l’Arabia saudita, il Sudan o l’Afghanistan (sebbene varino a seconda dei differenti paesi e dei differenti periodi), differiscono ben poco da quelle di altri paesi in via di sviluppo non connotati ideologicamente dai redditi nazionali comparabili»: cfr. Islamism and Empire: the Incongruous Nature of Islamist Anti-Imperialism, “Socialist Register”, vol. 44/2008, p. 50.

34 Ibid.

35 Cfr. Achcar G., op. cit., p. 67.

36 Cfr. Abdel-Malek A., Il pensiero politico arabo, Editori Riuniti, Roma, 1973, dove si legge: «la lotta contro l’imperialismo europeo, laddove essa si è effettivamente svolta, ha reso notevolmente più duro il movimento nazionale; e lo Stato nazionale indipendente, che ne è il frutto, emerge fortemente orientato verso il radicalismo politico, vale a dire, nella fase storica in cui ci troviamo, verso il socialismo» (p. XXIV).

37 Ivi, p. XXVIII.

38 Cfr. Burke J., op. cit., p. 282.

39 E, aggiungerebbe N. Chomsky, terroristico: cfr. Terrorismo made in Usa, “Micromega”, n. 4/2004, pp. 7-31.

40 L’Islam distruggerà la nostra cultura e la nostra arte, ammoniva la Fallaci nel 2001. Due anni dopo, per non perdere l’allenamento, noi “civili” mettemmo a sacco in Iraq, per l’ennesima volta, la cultura e l’arte mesopotamica.

41 Cfr. Ali T., Bush in Babilonia. La ricolonizzazione dell’Iraq, Fazi, Roma, 2004. D. Harvey ricorda che il 19 settembre 2003 Paul Bremer, capo statunitense dell’Autorità provvisoria creata dagli occupanti, promulgò contro il popolo iracheno quattro ordinanze che prevedevano «la totale privatizzazione delle imprese pubbliche, il pieno diritto alla proprietà privata delle attività economiche irachene da parte di aziende straniere, il totale rimpatrio dei profitti da queste ottenuti […], l’eliminazione di quasi tutte le barriere agli scambi commerciali, disponendo la loro applicazione a tutti gli ambiti dell’attività economica, escluso il petrolio, i cui proventi –sempre sotto lo stretto controllo degli occupanti– erano requisiti per finanziare la guerra. La stessa Autorità “liberatrice” proibì di fatto gli scioperi nei settori-chiave e limitò fortemente il diritto ad organizzarsi in sindacato, introducendo un sistema fiscale “regressivo” (cfr. Breve storia del neo-liberismo, Il Saggiatore, Milano, 2007,pp. 15-6). Se questo non è neo-colonialismo…

Sul pesante arretramento che tale ricolonizzazione ha comportato per la condizione delle donne, cfr. Al-Ali N.-Pratt N., What Kind of Liberation? Women and the Occupation of Iraq, University of California Press, Los Angeles, 2009.

42 Cfr. Malcolm X, L’ultima battaglia. Discorsi inediti, Manifestolibri, Roma, 1993, p. 208.

43 Cfr. Caldwell C., L’ultima rivoluzione dell’Europa. L’immigrazione, l’Islam e l’Occidente, Rizzoli, Milano, 2009, pp. 28 ss.

44 Ivi, pp. 125-160. In modo estremizzato questa medesima tesi è presentata in Bawer B., While Europe Slept: How Radical Islam is Destroying the West from Within, Anchor, New York, 2007.

45 Cfr. Inglehart R.-Norris P., Muslim Integration into Western Cultures: Between Origins and Destinations, Harvard Kennedy School, March 2009, pp. 4, 14-15. Questo saggio si basa sulle risultanze di cinque indagini svolte tra il 1981 e il 2007 all’interno del progetto World Values Survey and European Values Study.

46 I dati numerici esatti sono, rispettivamente per le società “islamiche”, le società occidentali e gli immigrati “islamici”: religiosità (83, 60, 76); liberalizzazione sessuale (24, 50, 37); eguaglianza tra i generi (82, 57, 75); valori democratici (81, 71, 75). Nello stesso senso cfr. The Pew Global Project Attitudes, Muslims in Europe: Economic Worries Top Concerns about Religious and Cultural Identity, Washington, July 2006, secondo cui le principali preoccupazioni degli immigrati islamici in Europa sono di ordine materiale e non religioso o culturale.

47 Cfr. Alba R.D.-Nee V., Remaking the American mainstream: assimilation and contemporary migration, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 2003; Portes A.-Zhou M., The new second generation: segmented assimilation and its variant, “American Academy of Political and Social Science, n. 530/1993, pp. 74-96.

48 Cfr. Todd E., Le Destin des immigrés, Seuil, Paris, 1997; Courbage Y.-Todd E., Le Rendez-vous des civilisations, Seuil, 2007; Khellil M., L’intégration des Maghrebins en France, PUF, Paris, 1991; Saint-Blancat C., L’islam in Italia. Una presenza plurale, Edizioni Lavoro, Roma, 1999; il n.3/2004 di “Limes”, Il nostro islam; Caritas/Migrantes, Immigrazione Dossier Statistico 2009 XIX Rapporto, Roma, 2009;la lettera di Livingstone K., Society is Becoming More Mixed in the UK, “The Financial Times”,23-24 dicembre 2006;Haenni P.-Amghar S., Le mythe de l’islam conquérant, “Le Monde diplomatique”, janvier 2010.

49 Caldwell C., op. cit., p. 170.

50 Ivi, p. 276.

51 Lo stesso Caldwell riconosce in parte il reale contenuto di questa “rinascita religiosa islamica” quando afferma: «Il terrorismo è solo una modalità di auto-affermazione dei musulmani, e quindi non è solo l’affermarsi di una religione, bensì di un popolo» (Ivi, p. 294).

52 Ivi, pp. 367-8 (il corsivo è mio).