Riceviamo e pubblichiamo dalle compagne del Comitato 23 settembre questo contributo, già disponibile sulla loro pagina (vedi qui):
Per Atika Gharib e tutte le Atika del mondo:
la nostra denuncia, la nostra sentenza
L’assassino di Atika Gharib, il molestatore delle sue figlie, è stato condannato ieri 7 febbraio all’ergastolo, con 4 mesi di isolamento. La giustizia dei tribunali, basata essenzialmente sulla responsabilità individuale, ha fatto il suo corso. Nessuno sconto per l’imputato. Nessuna attenuante.
Il nostro comitato, nato il giorno in cui questo processo è cominciato, e presente davanti al tribunale il giorno della sua conclusione, non ha certo finito il suo lavoro con la condanna pronunciata oggi. Siamo appagate da questa sentenza?
No. Non perché siamo indifferenti al riconoscimento della colpa o all’entità della pena. Ma perché non crediamo che questa sentenza modifichi di fatto la situazione sociale generale in cui possono maturare delitti atroci e quotidiane violenze contro le donne. Non crediamo che essa intacchi nel profondo il senso di possesso che caratterizza molto spesso i rapporti interpersonali, anche i più stretti, che dovrebbero essere improntati alla solidarietà e all’amore. Non crediamo che il clima sociale in cui viviamo, sempre più caratterizzato dalla stretta repressiva e dalla sopraffazione sessista, patriarcalista, classista e razzista possa essere combattuto a suon di sentenze, che stigmatizzano colpe individuali, mentre cresce la pressione su tutta la classe lavoratrice.
La vulnerabilità di molte donne è accentuata dalla frammentazione e dalla divisione che le donne e tutti gli sfruttati e gli oppressi vivono in questa società. Dall’isolamento che impedisce di chiedere aiuto, dal degrado dei rapporti sociali, dall’attacco ai diritti sindacali, dalla repressione delle lotte, dall’imbarbarimento dei rapporti interpersonali che dovrebbero essere l’ultima trincea di difesa nelle difficoltà. Dalla tenacia con cui ci si affretta a soffocare e colpevolizzare ogni tentativo di autonomia e autodeterminazione delle singole donne. E’ questo clima sociale che favorisce e avalla la violenza individuale, in particolare quella contro le donne.
Saremo soddisfatte quando coloro che subiscono violenza, in tutti i modi presenti nella società, scenderanno in lotta, perché è nostra fermissima convinzione che solo la denuncia e la lotta comune, per la propria dignità e i propri diritti, assieme alla ferma volontà di cambiare alla radice il sistema sociale che della violenza si nutre ogni giorno, potranno fermare la catena di femminicidi, di morti sul lavoro, di vittime di apartheid, di guerre e aggressioni che si snoda ogni giorno davanti ai nostri occhi.
Al tempo stesso non possiamo non ricondurre la sentenza che è stata emessa, a sua volta, ad una origine sociale. E’ quella dell’espandersi e rafforzarsi del movimento internazionale delle donne, che da sempre denuncia la violenza che esse subiscono, ma che da qualche anno ne ha fatto un obiettivo primario. Questo movimento che associa la violenza economica con quella psicologica e fisica, e che la denuncia come un fatto strutturale e mondiale, ha proiettato l’eco delle sue lotte nella società – ad esso va il merito di aver reso possibile la conclusione di questo processo.
Essa non attenua l’indignazione, la rabbia e il dolore che ancora proviamo per la morte di Atika e di tutte le Atike del mondo, essa non ci induce alla delega alle istituzioni; noi la accogliamo come un risultato di una sempre maggiore coscienza che deve scorrere nelle vene del movimento delle donne e degli sfruttati tutti, come il risultato di una seppur embrionale forma di mobilitazione comune che si è realizzata in questa vicenda tra il nostro comitato e i lavoratori del sindacato a cui la famiglia di Atika faceva riferimento, il S.I. Cobas.
Un piccolo esempio da potenziare e allargare. Un segnale della necessità della convergenza delle lotte. Una lotta comune tra sfruttati che è la nostra linea guida e la nostra garanzia di successo.
Comitato 23 settembre
***
Testo del volantino distribuito davanti al Tribunale di Bologna
GIUSTIZIA PER TUTTE LE ATIKA
Oggi, a Bologna, in questo tribunale si sta svolgendo l’ultima udienza che renderà una parziale giustizia ad Atika Gharib e alla sua famiglia per una morte violenta e premeditata per mano del suo ex compagno.
Nel suo nome e simbolicamente in occasione della data dell’inizio di questo processo nel 2020 si è formato il Comitato 23 settembre che oggi sente il dovere di ricordare anche tutte le violenze e il dolore subiti da questa donna anche per un lungo periodo prima dell’ultimo brutale atto che ha posto fine alla sua vita.
Nel 2021, 116 donne sono state uccise, per la stragrande maggioranza da compagni, ex compagni e familiari. Questa estrema violenza non è che l’ultimo atto che colpisce solo una infima minoranza delle donne quotidianamente maltrattate, abusate spesso fin da bambine, picchiate sistematicamente, costrette col ricatto dei figli a relazioni tossiche e a rapporti non voluti. Una violenza che trova poco ascolto nella società e nelle istituzioni.
Come in moltissimi altri casi di femminicidio che si susseguono quotidianamente in Italia e in tutto il mondo, le denunce con le quali Atika aveva cercato di difendere sé stessa e le sue figlie non sono state prese in considerazione dalle forze dell’ordine, e un processo che si conclude a distanza di 2 anni e mezzo dal suo assassinio, confermano la scarsa sollecitudine delle istituzioni e la loro poca volontà di affrontare il problema alla radice.
Consapevoli che anche la più pesante delle condanne non possa porre riparo alla perdita subita dalle figlie e dalla famiglia di Atika dobbiamo, ancora una volta, puntare il dito sull’ipocrisia della celebrazione delle date, stabilite ad hoc dalle Istituzioni tutte, che, un paio di volte all’anno, pongono all’attenzione mediatica i casi di cronaca più appariscenti, senza denunciare quante volte TUTTI I GIORNI le donne subiscano violenze, e non solo fisiche, nel sistema sociale in cui viviamo.
Nella vita sociale, le donne e i loro corpi sono sempre più una merce, nella vita privata una proprietà da usare o da distruggere.
Le discriminazioni sessiste, razziste e le molestie sessuali sempre presenti all’interno dei posti di lavoro, i ricatti che aumentano la fatica di conciliare il lavoro produttivo e quello riproduttivo e di cura, stanno lì a dimostrarlo ogni giorno.
Certo il lavoro produttivo rappresenta un nodo importante per l’autonomia economica delle donne (che con sotto-salari e precarietà troppo spesso manca) contro il patriarcalismo che le vorrebbe caricare in toto dei compiti all’interno della famiglia e nello stesso tempo supersfruttare sul posto di lavoro.
Ma nelle loro lotte la rivendicazione del posto di lavoro non può bastare, e noi siamo qui a rivendicare una messa in discussione degli obiettivi e dei metodi della classe al potere che, oggi più che mai, scarica i costi di una crisi aggravata dalla pandemia sulle spalle delle donne, aumentandone la precarietà e la povertà togliendo loro diritti, sicurezza sul lavoro e servizi sanitari e all’infanzia.
NELLE LOTTE DI TUTTE E TUTTI, CON QUESTI OBIETTIVI, DOBBIAMO PROVARE A DIFENDERE TUTTE LE ATIKA DALLA BARBARIE DI UNA SOCIETA’ CAPITALISTA BASATA SUL PROFITTO E SULLO SFRUTTAMENTO
Bologna, 7 febbraio 2022
Comitato 23 settembre