Riceviamo e pubblichiamo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso questo contributo, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
Curioso. A una settimana dal massacro di Uvalde, nella moltitudine di geo-strateghi che sdottorano sulla guerra in Ucraina, neppure uno di numero ha collegato quel tragico evento all’incontenibile bisogno di massacro manifestato in questi mesi dall’amministrazione Biden, dall’Ucraina a Taiwan. Eppure il nesso è evidente.
Gli Stati Uniti d’America sono oggi una società in disgregazione, solcata da fratture di classe, razziali, politiche, culturali, territoriali in via di allargamento. Una società in cui i morti per disperazione e i morti prodotti da disperati si ammonticchiano quotidianamente come merci di scarto nel più smisurato supermercato del mondo, i cui scaffali sono affollati da armi d’ogni tipo. In questa società imperversa la stessa “necessità” di omicidi di massa che gli Stati Uniti hanno esportato ovunque negli ultimi decenni, dai deserti e dalle città dell’Iraq alle periferie di Belgrado fino alle montagne dell’Afghanistan, con il concorso dei volonterosi carnefici amici. Al di là del dollaro, il cui regno è sempre più efficacemente contestato nel mondo, è la violenza bruta l’arma di ultima istanza con cui l’invecchiata superpotenza tenta di frenare il suo irreversibile declino.
Solo dei poveri fessi ignari di tutto possono scambiare la cupa Amerika del 2022 con quella trionfante e allegra del 1945, magnete attrattivo – checché se ne dica – anche per le genti al di là della cortina di ferro. Così tanto al di sopra di leggi e convenzioni valide per tutti gli altri stati (a cominciare dalla Germania nazista appena sconfitta e processata per i suoi crimini) da poter esibire, a guerra finita, la propria arma di sterminio di massa senza dover pagare alcun dazio morale. Commettere l’efferato crimine di polverizzare in un istante la vita di centinaia di migliaia di esseri umani a Hiroshima e Nagasaki, e subito dopo, come nulla fosse accaduto, inondare i paesi sudditi di “generosi” anticipi e simpatiche gag/accattivanti sorrisi delle star hollywoodiane. Quanto lontani quei tempi! Certo, il complesso militare-industriale continua a funzionare a pieno regime, ed è in grado, anche più dell’omologo russo, di generare terrore, ove direttamente, ove per interposti burattini. Ma – questa è la grande novità – l’interna decomposizione di quella che osò proporsi come la prima società moderna totalmente coesa, composta di soli ceti medi, ha reso questa grande potenza militare impotente, da mezzo secolo, a vincere fino in fondo una sola guerra, per quanto asimmetrica fosse. Da mezzo secolo l’Amerika, o perde le guerre (Vietnam, Afghanistan), o perde la “pace” (Iraq, Libia, Siria).
Ora sta perdendo pure la guerra interna, la guerra che combatte contro sé stessa. “L’apoteosi assassina dell’America moderna” andata in scena a Uvalde, come l’ha definita Chris Floyd su Counterpunch, e ciò che ne è seguito, squadernano agli occhi del mondo una verità imbarazzante per Washington e i suoi italianuzzi lacché: il paese che pretende di insegnare alle nazioni il rispetto dei diritti umani non è in grado di impedire sul suo suolo la sistematica violazione del più elementare dei diritti umani, il diritto a vivere. Anzi, produce e riproduce di continuo i presupposti di questa violazione, anche per i suoi bambini.
La sua classe dirigente è lo specchio di questa impotenza/complicità. L’osceno Biden si fa fotografare mentre riesce, forse, a spremere a comando una lacrima. Ma non sa che dire di concreto a chi lo prega di “fare qualcosa”, mentre la sua vice ripropone, a puro scopo propagandistico, di vietare le armi d’assalto, come se le armi ordinarie non bastassero a falciare vite, e come se questa proposta non fosse stata avanzata dai democratici molte altre volte senza esito alcuno. L’altrettanto osceno Trump recita, riuscendo a storpiarli, i nomi dei 19 bambini falciati nella loro scuola solo per invocare più armi davanti e dentro le scuole contro “i malati di mente”, mentre i suoi fans se la prendono con il “male” e, molto opportunamente, con il demonio. Entrambi si muovono come se la mattanza di Uvalde, quella di pochi giorni prima a Buffalo e le innumerevoli altre, non fossero l’esito di decenni di politiche bipartisan che hanno sventrato i diritti del lavoro, i servizi sociali e quelli di salute mentale, le strutture e le comunità locali, e innescato processi incontrollabili di atomizzazione, insicurezza, scissione delle personalità, emarginazione sociale. Contro i quali la sola risposta bipartisan è stata, è un corpo di polizie sempre più “vaste, militarizzate, irresponsabili e politicamente radicalizzate” (ancora Chris Floyd).
Mettiamo in prospettiva la mattanza di Uvalde. La tendenza degli ultimi quaranta anni è alla crescita degli “assassini di massa”. Secondo il Gun Violence Archive che si occupa di censirli limitandosi ai soli eccidi con almeno quattro morti, la massima accelerazione si è avuta nel periodo 2014-2021, quando si è passati da meno di 300 a 693 stragi di massa, il che significa quasi due al giorno, e 20.660 morti. Nel 2020 le stragi erano state 611, l’anno prima 417.
Del resto negli Stati Uniti ci sono più armi che persone. Poche industrie sono fiorenti laggiù quanto quella delle armi, con un fatturato cresciuto dal 2000 al 2020 del 187%. Secondo il Washington Post è dal 2013 che le armi in mano ai soli cittadini (esclusi esercito e la miriade di polizie) sono diventate più degli abitanti: 357 milioni contro 317. Oggi dovrebbero oltrepassare i 400 milioni, includendovi anche le ghost guns, le armi fabbricate in casa assemblando i pezzi liberamente comprati nei negozi. Con poco meno del 5% della popolazione mondiale, negli Stati Uniti c’è più del 40% delle armi detenute da civili in tutto il mondo. Un record che ha la sua base legale nel secondo emendamento motivato, a suo tempo, in chiave anti-britannica (ci armiamo per impedire a Londra di riconquistarci), ma ha la sua origine storica nel terrificante genocidio delle popolazioni native (che all’inizio del XVI secolo erano intorno ai 12 milioni) compiuto dai coloni e dai loro eserciti, e negli infiniti conflitti privati tra coloni e proprietari terrieri per l’accaparramento di terre, armenti, miniere, acque, sottratte ai nativi.
“Il capitale nasce grondando sangue e fango dalla testa ai piedi”: la sintesi di Marx calza come un abito su misura al capitalismo yankee, espressione concentrata di tutto ciò che il capitalismo è, e non può non essere. Si addice a maggior ragione al suo caotico tramonto.
Diamo ancora uno sguardo, con l’aiuto di Anne Case e Angus Deaton, a quell’interna disgregazione della società statunitense che sfugge alla cecità dei geostrateghi, inclusi gli accoliti dilettanti di estrema sinistra. E ci imbattiamo nel vasto esercito dei “morti per disperazione”, ai quali appartenevano i giovanissimi killer di Uvalde e Buffalo – sia la ricerca di una vendetta personale per il sofferto bullismo, sia l’arruolamento da soldati semplici nel campo del suprematismo bianco sono infatti forme di disperazione.
In Morti per disperazione e il futuro del capitalismo Case e Deaton raccontano “la storia non solo della morte ma anche del dolore, della dipendenza, delle vite spezzate dalla perdita di struttura e di significato” dei bianchi “privi di laurea”, proletari e salariati quindi. Stroncati nel loro ultimo passaggio da un’overdose di droga, da un colpo di pistola (oltre 24.000 nel 2021), da un’epatopatia alcolica, dopo essere stati a lungo logorati da dolori cronici, cattiva salute (obesità, ipertensione, diabete), gravi disagi psichici, insostenibili livelli di precarietà lavorativa, povertà di legami affettivi, abbandoni, e un declino salariale (-13% tra 1979 e 2017) che abbatte l’autostima e mina propositi e mezzi di ogni possibile recupero del terreno perduto. Dal momento che la “grave povertà in termini finanziari, se mantenuta per molti anni, determina anche una povertà sanitaria, aggravata dal razzismo e dai bassi livelli di assistenza sanitaria, di istruzione e talvolta persino di servizi igienico-sanitari”.
Per tanti lavoratori bianchi gli oppioidi (ne fa uso e abuso un terzo degli statunitensi), i farmaci, l’alcool sono diventati le uniche illusorie difese dall’implacabile procedere del mercato, della competizione, della (finta) meritocrazia, della dittatoriale libertà del capitale. Accade così che in una nazione tuttora prospera, benché indebitatissima sia come stato che come privati, l’aspettativa di vita diminuisca da anni per l’intera popolazione. E in maniera più pesante della media proprio tra gli operai e i lavoratori bianchi. “I decessi per disperazione tra i bianchi, uomini e donne, di età compresa tra i 45 e i 54 anni sono saliti da 30 per 100.000 nel 1990 a 92 nel 2017” – l’anno in cui questi decessi sono ammontati, in totale, tra bianchi neri e marroni, a 158.000: 40.000 suicidi, 70.000 morti “accidentali” per overdose, 41.000 per epatopatie da alcolismo.
Il dolore, il primo stadio di una possibile deriva (individuale), colpisce all’oggi, nella quotidianità, più di 100 milioni di cittadini statunitensi: “l’aumento del dolore tra gli americani meno istruiti può essere ricondotto alla lenta disgregazione della vita sociale ed economica”, ed è, a sua volta, uno dei passaggi attraverso i quali tale disgregazione porta alla dipendenza e al suicidio. “La storia di una morte per disperazione passa sovente attraverso il dolore (…); e il dolore provocato dalla esclusione sociale agisce nel cervello in modo simile al dolore prodotto da una ferita. In tal caso, la lenta distruzione della classe operaia (…) potrebbe essere una delle cause dell’aumento del dolore cronico”. Il dolore come prodotto e fenomeno sociale.
L’industria sanitaria, che istituzionalmente dovrebbe curare o almeno lenire questo dolore socialmente diffuso, è invece, con i meccanismi estorsivi che la connotano, uno dei fattori che contribuisce a minare la salute della popolazione. Per il duo Case-Deaton il sistema sanitario nord-americano, con la sua assoluta subordinazione alla legge del profitto, è un “distruttore di vite” anziché un salva-vite. E i governi e il Congresso sono complici di questa sua funzione. Noi non siamo anticapitalisti, sia chiaro!, si scherniscono Case e Deaton. E’ la spirale di disgregazione “economica, sociale e comunitaria” in corso a destabilizzare il capitalismo, non la nostra critica. Una spirale resa finora inarrestabile anche dalla semi-distruzione delle organizzazioni sindacali di cui fanno vanto le imprese delle rete di ultima generazione.
Abbiamo sperperato migliaia di miliardi di dollari in Iraq e in Afghanistan invece di impiegarli in sanità, scuole e nel sociale, ha tuonato Trump alla convention della potentissima National Rifles Association, sede perfetta per una simile denuncia. Fatto sta che dello strapotere dell’industria bellica e dell’interminabile sequenza di guerre combattute dagli Stati Uniti, repubblicani e democratici sono corresponsabili alla pari. Mette sotto accusa i disturbati mentali facendo finta di non essere stato lui a cancellare, nel 2017, una legge che impediva a 75.000 disturbati gravi di ottenere il porto d’armi. E se tornerà alla Casa Bianca, come pare probabile, la sola differenza con Biden sarà che porterà la guerra il più possibile alle porte della Cina.
E l’esportazione della guerra, fin dai tempi del Vietnam, è uno dei fattori principali delle patologie mentali diffuse nella società statunitense. Non poche delle stragi di massa degli ultimi cinquant’anni e dei suicidi, sono opera di reduci derelitti, sradicati, divorati dalla solitudine e dai rimorsi, incapaci di sottrarsi all’unica soluzione finale che la prassi sociale dominante gli propone: uccidere o uccidersi, o entrambe.
No, non è questione di repubblicani o di democratici. Si tratta di qualcosa di molto più strutturale e profondo: sono gli effetti devastanti della de-industrializzazione dell’America, che è stata una delle più efficaci controtendenze dell’ultimo mezzo secolo alla caduta del saggio di profitto alla scala mondiale, ma a costi altissimi per una parte almeno del proletariato statunitense. Sono gli effetti delle politiche “neo-liberiste” promosse per lo stesso scopo. E sul piano delle conseguenze sociali, una cosa è la spietata concorrenza in un paese in prepotente ascesa, come gli Stati Uniti del 1945, tutt’altra in un paese in declino. Declino che sta accentuandosi nella misura in cui l’Amerika di Biden e Trump rifiuta di essere ridimensionata. E per ridiventare a tutti i costi “Great Again”, si getta in contese universali plurime manifestamente al di là delle sue forze attuali.
Ha scritto Paul Kennedy nel 1987:
“sembra sempre più difficile contraddire l’affermazione secondo cui un’eccessiva spesa militare danneggerà la crescita economica. Le difficoltà che incontrano le attuali società troppo militarizzate non fanno che riprodurre quelle che, a suo tempo, affliggevano la Spagna di Filippo II, la Russia di Nicola II e la Germania di Hitler. Un vasto apparato militare può, come un grande monumento, far colpo su un osservatore impressionabile, ma se non si basa su solide fondamenta (in questo caso, su di una economia nazionale produttiva), corre il rischio, in futuro, di crollare”.
Questa considerazione estratta dall’analisi dell’ascesa e declino delle grandi potenze negli ultimi secoli apparve adeguata, nel 1989, al crollo dell’Urss. Ed appare oggi ben attagliarsi alla perdita di egemonia mondiale degli Stati Uniti, che ad onta di tutte le frottole su democrazie versus autocrazie, costituiscono la società più militarizzata e autocratica del mondo (l’autocrazia del capitale ultracentralizzato). 778 miliardi di dollari di spesa militare nel 2021, pari al 39% del totale mondiale. 800 basi militari con circa 200.000 effettivi sparsi in 177 paesi del mondo. 800.000 arruolati nelle polizie federale, politica, segreta, militare, nelle polizie statali, di contea, municipali, per non dire delle onnipresenti polizie private…
E poiché l’Amerika resta tuttora il vertice del modo di produzione capitalistico, la sua folle corsa riarmista e bellicista indica la traiettoria che tutti i paesi capitalistici, siano suoi rivali o “amici”, incluse l’ascendente Cina e la decrepita Italia, sono condannati a percorrere.
Per chi ha suonato la campana a Uvalde?