Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
Gran Bretagna: lavoratori in lotta contro il carovita
– Combat-COC
Mentre la sanguinaria Truss sconfessa se stessa annullando il provocatorio abbattimento delle tasse sui più ricchi, quelli con oltre 160.000 sterline di guadagni l’anno, deciso pochi giorni fa, costretta dagli stessi gnomi della City che trovano folle un programma ultra-liberista in questo momento, e dal montante malcontento dei lavoratori, è molto utile questo aggiornamento sullo stato delle lotte contro il carovita in Gran Bretagna, che riprendiamo dal blog Combat COC, curato dai compagni e dalle compagne di Pagine marxiste.
Istruttivi sono anche i rilievi critici contenuti nell’articolo: 1) pur avendo le lotte obiettivi quasi sempre comuni, non c’è un ancora coordinamento delle lotte; 2) ci si batte contro il carovita, ma manca un’adeguata iniziativa contro la guerra; 3) i sindacati stanno svolgendo una sorta di supplenza politica (vista la posizione anti-sciopero, o comunque di non sostegno al movimento degli scioperi, assunta dal Labour, e l’inesistenza di altri organismi politici capaci di essere la guida di queste ampie agitazioni), ma questa supplenza non può essere certo risolutiva della questione dell’autonomia di classe. (Red.)
Ma il governo Truss accentua il programma “meno burro, più cannoni”
In Gran Bretagna negli ultimi mesi si è diffusa un’ondata di lotte dei lavoratori salariati come non si vedevano da un quarto di secolo, a difesa del salario taglieggiato dall’inflazione. Diversi sindacati nel settore dei trasporti e dei servizi le hanno promosse e sostenute, anche contro la linea del Labour Party di Starmer, che dopo la parentesi radicale di Corbyn ha ripreso la linea filo-padronale di Tony Blair. Un esempio anche per i lavoratori italiani, parziale tuttavia perché alla lotta per il “burro” non viene affiancata quella contro i cannoni.
Mentre in Italia i partiti del centro-sinistra stanno digerendo i risultati elettorali e molti dei loro elettori si stracciano le vesti per “il fascismo che avanza”, dalla Gran Bretagna, davanti a sfide analoghe (carovita, rischio licenziamenti ecc.), ci viene un esempio di risposta attiva e autonoma dei lavoratori.
Un nuovo governo: più spesa militare, meno diritti sindacali
In Gran Bretagna Boris Johnson, dimissionario, è stato sostituito dalla anche più conservatrice Liz Truss. Elisabetta II, l’icona e la fedele custode dei valori dell’imperialismo britannico, si è alzata apposta per nominarla due giorni prima di morire. La sua morte ha dato al neonato governo un po’ di respiro, distraendo l’opinione pubblica con un’ampia distribuzione di melassa filo-monarchica e filo-nazionalista, anche se alcuni sono stati arrestati per aver espresso qualche critica (nota 1).
Seppellita l’osannata spoglia, Liz Truss e il suo segretario alla Difesa Ben Wallace hanno esplicitato il primo punto del loro programma. Se Johnson aveva proposto una spesa militare pari al 2,5% del PIL, loro parlano di 100 miliardi di sterline (112 miliardi di €) entro il 2030, cioè il 3% del PIL. Allineatissimi agli Usa sull’Ucraina, mettono al centro della loro agenda l’opposizione alle nazioni ostili, come la Russia di Putin, ma anche la Cina di Pechino. Liz Truss non nasconde che il suo modello è Margaret Thatcher, guerra delle Falkland compresa. Ma soprattutto ammira il suo modello di gestione delle relazioni sindacali. Sotto questo profilo le ricette che ha esibito finora sono “meno leggi sul lavoro” (cioè meno tutele per chi lavora e meno restrizioni per gli imprenditori), tagli alle tasse dei redditi medio alti, nessun aiuto in campo sociale perché incoraggia la pigrizia, più limitazioni al diritto di sciopero.
Un’ondata di scioperi
I lavoratori hanno già fornito una risposta preventiva, scioperando massicciamente a partire da giugno. Gli scioperi riguardano le categorie più disparate, dai lavoratori delle poste agli infermieri, dai ferrovieri ai riders.
Queste lotte non sono coordinate, anche se c’è indubbiamente un effetto imitazione, ma sono tutte la risposta a problemi comuni, fra tutti in primo luogo l’aumento del costo della vita, che taglieggia retribuzioni e risparmi.
Sull’inflazione, che ha superato il 10%, hanno inciso sia i generi alimentari che il costo del gas e dell’energia. Sinteticamente un portuale, nel mezzo della estate più torrida che la Gran Bretagna abbia conosciuto, ha dichiarato: “devi scegliere, o mangi meno e male, o usi il condizionatore. E quest’inverno sarà anche peggio”. Si calcola infatti che una famiglia media di 4 persone spenderà per l’energia circa 6.200€ all’anno e si comincia a parlare di “fuel poverty” (povertà legata ai costi del combustibile). Mentre i politici si gloriano del fatto che la Gran Bretagna non subisce il ricatto di Putin per il gas, la speculazione ha fatto triplicare i prezzi. Frances Lorraine O’Grady, segretaria generale della Centrale sindacale britannica TUC, ha denunciato la scandalosa contrapposizione fra gli aumenti di stipendi e bonus dei membri dei Consigli di Amministrazione e i consigli dispensati ai lavoratori dipendenti di risparmiare sul cibo o l’energia.
Il governo di Johnson è rimasto indifferente davanti all’evidente carattere speculativo degli aumenti su gas e luce (nota 2), sostenendo che gli aumenti dei prezzi sono inevitabili a causa di fattori globali come l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022. Ha poi auspicato che il suo successore intervenga per gli otto milioni di famiglie vulnerabili (prospettando un aiuto di 1.200 sterline annue).
Sull’onda dell’indignazione degli strati meno abbienti è nato il movimento Don’t pay UK, che mira a portare almeno un milione di persone a boicottare le compagnie energetiche, sospendendo l’addebito diretto delle bollette di ottobre. (nota 3)
Mentre scriviamo, la Truss ha ipotizzato un tetto di spesa energetica per le famiglie a 3 mila €; la spesa per il governo sarebbe di 180 miliardi di €. Il tutto è rimandato alla prossima legge di bilancio e condizionato al reperimento delle risorse, cosa improbabile vista l’annunciata mega detassazione dei ricchi…
L’estate “calda” dei lavoratori
Hanno cominciato fra giugno e luglio gli addetti alle pulizie e alla manutenzione dei treni, per il salario, ma anche per la sicurezza sul lavoro. Poi si sono uniti tutti i lavoratori dei trasporti (Ferrovie, marittimi e trasporti su strada e metropolitane), organizzati dal sindacato RMT, indignati per l’offerta di un aumento dell’1% e preoccupati perchè le aziende minacciano il taglio delle linee meno proficue e quindi anche una riduzione del personale. Johnson si è stracciato le vesti per i disagi ai cittadini, smentito da molte interviste ai pendolari che affermavano di capire benissimo le ragioni dello sciopero. A metà agosto RMT ha indetto un altro sciopero di sei giorni, cui hanno partecipato 50 mila ferrovieri. In pratica circolava solo 1 treno su 5. E si è continuato scioperare in settembre.
A fine luglio si sono fermati ii dipendenti delle Poste, organizzati dal sindacato CWU, circa 40 mila lavoratori per 4 giorni contro 700 licenziamenti annunciati dalla Royal Mail. Ma nel periodo agosto-settembre gli aderenti hanno raggiunto i 115 mila, coinvolgendo anche i call center e i lavoratori temporanei. Le proteste riguardano i bassi salari, ma anche i turni massacranti e le ore di straordinario non pagate. In agosto hanno scioperato medici e infermieri. Oltre al carovita il settore lamenta turni massacranti, per una carenza di organici ormai insostenibile, aggravata dalla Brexit (il 40% dei medici sono lavoratori non britannici che man mano stanno tornando ai paesi di origine) e dalle dimissioni di infermieri, operatori dei servizi sanitari. C’è anche la frustrazione del mancato riconoscimento del lavoro svolto durante il Covid. Dice un’infermiera “ci hanno applauditi, ma gli applausi non pagano le bollette e se continuo a dover fare doppi turni chi crescerà i miei figli?”. Hanno indetto uno sciopero anche gli operatori del check-in della British Airways.
I “Gilet Rossi” di Felixstowe, il più grande porto mercantile di tutto il paese, organizzati dal sindacato Unite, hanno bloccato a fine agosto le merci per otto giorni per l’adeguamento dei salari e contro i licenziamenti del personale dei traghetti. Anche qui un portuale commenta dicendo che il loro è un “live hand to mouth” (“campare alla giornata”, cioè tutto quello che guadagni lo spendi interamente per vivere, senza riuscire a mettere nulla da parte). Ma, soprattutto, i portuali cominciano a riflettere sulla necessità di coordinarsi con gli scioperi dei sindacati delle ferrovie e dei trasporti in generale. Nel frattempo c’è stata la solidarietà dei camionisti, che in GB sono lavoratori dipendenti, non padroncini come in Italia.
Con l’inizio della scuola anche gli insegnanti sono sul piede di guerra, oltre al personale dell’Università e dei college. Dal 5 settembre anche gli avvocati penalisti hanno deciso di fermarsi per un tempo indefinito, per protestare per i ritardi e la misera entità della retribuzione quando garantiscono il gratuito patrocinio. Anche i lavoratori di Amazon a Coventry hanno deciso per lo sciopero.
Ci fermiamo qui. Non pretendiamo di dare un’idea esaustiva delle lotte in Gran Bretagna, ma portare l’attenzione sul fenomeno. Sul fronte più strettamente sindacale si registra il blocco temporaneo di alcuni licenziamenti e l’apertura di alcune trattative, ma la situazione è in evoluzione.
Per capire l’importanza di queste agitazioni, le prime così massicce dagli anni ’90, si deve tener conto del fatto che una serie di diritti sindacali sono stati persi con la Brexit, perché dopo la Thatcher il diritto del lavoro inglese era meno favorevole di quello europeo. Oggi in Gran Bretagna per fare sciopero, la proposta deve essere approvata con un voto scritto di quattro quinti degli addetti, pena il sequestro dei fondi del sindacato. RMT e CWU hanno avuto l’assenso di più del 90% degli addetti. Sono adempimenti burocratici obbligatori, lunghi e cavillosi.
Un altro aspetto importante è il silenzio stampa su queste agitazioni, a cui non è stato dato alcuno spazio nella cronaca; è quando si è dato spazio, lo si è fatto per demonizzare gli scioperanti.
La dissociazione del Partito Labourista e la “supplenza” politica del sindacato
Molti dei sindacati che hanno organizzato gli scioperi sono finanziatori del Partito Labourista e sono entrati in rotta di collisione con il Labour proprio per la loro decisione di scioperare. Il nuovo segretario del Labour, Keir Starmer, che nel maggio 2020 ha raccolto l’eredità di Corbyn, si è dissociato dalle azioni sindacali, addirittura ha sospeso il parlamentare Sam Terry che ha portato la solidarietà a un picchetto. Sembra che del radicalismo di Corbyn poco sia rimasto nel partito, tornato sulla rotta apertamente borghese di Blair. Sarebbe interessante un confronto con il percorso del PD italiano, anch’esso ormai del tutto estraneo alle tematiche del lavoro, distaccato dai pur moderatissimi sindacati confederali e pochissimo propositivo in tema di problemi sociali.
Comunque il Labour sembra aver fortemente indebolito, almeno nella dirigenza, il collegamento con la sua base storica operaia, tanto che The Guardian parla di un’azione di “supplenza” politica del sindacato.
L’ondata di scioperi è anche la conseguenza del ricambio demografico, i vecchi sindacalisti annichiliti dalla Thatcher sono stati sostituiti da una nuova leva relativamente più combattiva, magari massimalista, ma non appiattita sulla delega alle lotte parlamentari.
Questo non significa che la dannosa eredità Thatcher non faccia sentire i suoi effetti. Da una parte dalle cronache di scioperi e picchetti arriva la testimonianza che valori come la solidarietà con chi sciopera stanno riemergendo, che si intravede l’importanza dei collegamenti fra settori. Per la prima volta dal 1926 potrebbe esserci la proclamazione di uno sciopero generale. Dall’altra, non esistono più le casse di resistenza e il razzismo ha intaccato anche il sindacato rendendo difficile costruire l’unità in certi settori. I giovani sono poco sindacalizzati e spesso accettano lavori pericolosi o non pretendono adeguate tutele per la loro salute. Tutta una tradizione organizzativa si è persa, ma anche una coscienza di classe, come modo di sentire condiviso. Tutto ciò va ricostruito.
Per questo le lotte in Gran Bretagna sono importanti anche per gli operai italiani, per capire le ragioni dell’immobilismo di casa nostra (fatte salve le lodevoli eccezioni di settori come la logistica dove sindacati di lotta come il SI Cobas e l’AdL Cobas hanno preso il sopravvento sui confederali) e favorire l’inversione di rotta, con in vista lo sciopero del 2 dicembre.
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Nota 1. Si va da chi ha detto che sarebbe ora di espropriare la monarchia di tutte le proprietà carpite al paese, venderle e con quello finanziare opere sociali a una donna che ha esibito un cartello con scritto “fanculo l’imperialismo – aboliamo la monarchia”, a chi ha gridato “buu” all’annuncio “Dio salvi il re”. D’altro canto Sky News ha presentato come manifestazione di cordoglio per la regina una marcia contro il razzismo per l’assassinio da parte della polizia di Chris Kaba, un giovane nero disarmato al volante della sua auto.
Nota 2. Nell’aprile 2022, il regolatore energetico britannico Ofgem ha autorizzato gli aumenti del gas e della luce che secondo lo stesso governo hanno reso insostenibili i costi per 6 milioni di famiglie a basso reddito” e si prevede che altri 2 milioni di famiglie non potranno riscaldarsi il prossimo autunno.
Nota 3. Il precedente storico cui ci si ricollega è la lotta sostenuta 1990 e 1993 da ben 17 milioni di persone, che si rifiutarono di pagare la Poll Tax, una quota fissa da pagare al proprio comune, indipendentemente dalla composizione del nucleo familiare, dalla situazione patrimoniale e dal reddito. Di fatto la tassa decadde e fu una delle cause della caduta della Thatcher. Secondo gli attivisti di Don’t pay UK, fin ora rigorosamente anonimi per evitare le denunce, l’11 agosto le adesioni al progetto hanno raggiunto i 100 mila; intanto hanno organizzato a Glasgow, fuori dalla sede della OFGEM, una manifestazioni in cui si sono bruciate le bollette. Nel frattempo, le società energetiche hanno continuato ad aumentare i profitti: Shell li ha raddoppiati (8,4 miliardi di sterline) nel secondo trimestre del 2022 rispetto all’anno precedente; BP di £ 6,9 miliardi nello stesso periodo, triplicando rispetto al 2021; Centrica , il proprietario di British Gas ha realizzato £ 1,3 miliardi di profitti nella prima metà del 2022, cinque volte di più rispetto al primo semestre 2021 Cfr https://en.wikipedia.org/wiki/Don%27t_Pay_UK).