Riceviamo e pubblichiamo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso questo contributo, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
Il parlamento salva Macron.
Ma la protesta di piazza non si ferma
Nella giornata di ieri, si è definitivamente chiuso l’iter parlamentare di approvazione della famigerata riforma delle pensioni voluta da Macron e dalla sua fida premier Elisabeth Borne. Dopo il colpo di mano della settimana scorsa, allorquando il governo ha utilizzato lo stratagemma dell’articolo 49.3 della costituzione del 1958, ovvero la possibilità per i governi di minoranza di ricorrere all’ approvazione diretta di una legge senza passare per il confronto parlamentare, il tentativo delle opposizioni di ribaltare la situazione con una mozione di sfiducia al governo si è arenato per soli 9 voti mancanti. Se ci fosse stato bisogno di una dimostrazione del ruolo e della funzione reazionaria dei parlamenti, ne abbiamo avuta un’ennesima riprova. A fronte di un paese attraversato ovunque da scioperi, manifestazioni e sommosse di piazza, e di una chiara maggioranza dell’”opinione pubblica” favorevole alle proteste, l’assemblea legislativa ha obbedito all’ordine di scuderia della grande borghesia (bellicista) tesa a tagliare la spesa sociale per le pensioni e dirottare le risorse pubbliche derivanti dal lavoro salariato ad “altre finalità”. D’altronde, nel clima di fuoco di questi giorni e con un governo barcollante sotto la spinta degli scioperi e delle piazze, sia Macron che Bourne non ci sono andati tanto per il sottile nello spiegare all’opinione pubblica che loro due “eseguono solo i compiti” dettati dai mercati finanziari – la totalitaria dittatura del capitale finanziario, di cui non si parla mai, mentre si riempie il cranio degli ascoltatori con i termini sempre più vuoti e demagogici di libertà e democrazia. Da ciò se ne ricava, a nostro avviso, che data la necessità di usurare e spremere sempre più a fondo la classe lavoratrice in nome della guerra e dell’economia di guerra, non c’è margine di mediazione parlamentare che tenga.
Anche in questo frangente i lavoratori, i proletari e gli studenti francesi hanno dimostrato una combattività e una radicalità nelle forme di lotta che, insieme alla Grecia, non ha eguali nel resto d’Europa. Almeno ora, mentre scriviamo, la bocciatura delle mozioni di sfiducia in parlamento non si è tradotta in sfiducia a manifestare e a scendere in piazza. Tutt’altro: già nella serata di ieri le proteste sono riprese con forza, con una notevole partecipazione e protagonismo del proletariato giovanile, non solo a Parigi ma anche nelle città minori e nei centri agricoli. Esemplare a tal proposito la tattica adottata dai manifestanti in alcune città di “cingere d’assedio” le abitazioni o dare al fuoco gli uffici dei parlamentari favorevoli alla riforma (com’è accaduto a Nizza con l’ufficio di Eric Ciotti, il presidente dei Républicains), a voler dire con i fatti: “se voi politicanti vi rintanate nei palazzi del potere ultrablindati, allora noi veniamo a chiedervi il conto fin sotto casa vostra!”.
D’altra parte, con l’approvazione della riforma da parte dell’Assemblée Nationale si fanno sempre più impegnative e pericolose le insidie e le potenziali trappole sul percorso della lotta.
Da un lato, le dichiarazioni del “sinistro” Melenchon, secondo cui “ora la parola passa alla sfiducia popolare”, con un chiaro riferimento allo strumento referendario, svelano al tempo stesso la sfiducia dell’opportunismo nella lotta di classe, e l’estrema sopravvalutazione degli istituti della “democrazia diretta” borghese. In Italia abbiamo avuto numerosi esempi di come lo strumento referendario sia un vero e proprio boomerang, soprattutto se accompagnato dalla smobilitazione di piazza e dall’abbandono degli scioperi: valga su tutti l’esperienza del referendum sui punti di contingenza del 9-10 giugno 1985, che sancì la decisione del governo Craxi di smantellare la scala mobile grazie alla mobilitazione della grande, media e piccola borghesia, quanto mai unita quando si tratta di lottare contro il nemico comune rappresentato dai lavoratori, e quanto mai ringalluzzita nel confrontarsi sul terreno che è da sempre più congeniale alle classi sfruttatrici e parassitarie: quello dell’urna.
In secondo luogo, questa nuova fase dello scontro tra l’asse governo/Macron/padronato e il movimento degli scioperi e delle dimostrazioni di piazza tende a mettere realmente alla prova la tenuta dell’unità sindacale sul terreno della lotta. In verità, anche nelle scorse settimane si è trattato di un’unità più apparente che reale: sullo sfondo dei proclami e delle iniziative comuni dell’”intersindacale” che vede unite la quasi totalità delle sigle (ivi comprese quelle più sfacciatamente collaborazioniste), è emersa una chiara divergenza sull’opportunità e la necessità di proclamare lo sciopero in modalità “reconductible”, cioè prorogabile di giorno in giorno senza ulteriori avvisi, praticamente ad oltranza. Una situazione di scontro di tali dimensioni, con interi settori completamente bloccati da settimane (su tutti i trasporti, le raffinerie e la nettezza urbana), avrebbe senz’altro reso opportuna la generalizzazione di questa modalità di sciopero, che invece, proprio anche per la resistenza delle burocrazie sindacali, è stata adottata solo in alcune città e in alcune categorie.
Tale condotta “esitante” delle grandi centrali sindacali, compresa la stessa CGT, è in realtà il portato della loro linea di indirizzo generale che in nessun caso mette in discussione il primato degli interessi nazionali, oltre ad essere il riflesso del peso molto limitato dei sindacati nella classe lavoratrice francese, la quale registra il tasso di “sindacalizzazione” più bassi d’Europa (poco meno del 10% dei salariati francesi aderisce a un sindacato, l’8,5% nel settore privato). Ciò, in un contesto di grande mobilitazione spontanea dei lavoratori e dei proletari su scala nazionale come quella cui stiamo assistendo, se da un lato spinge le grandi centrali (CFDT, CGT, FO, ecc.) a “rincorrere” le piazze e la “base”, dall’altro ne svela al tempo stesso il ruolo di freno svolto dai loro vertici.
In terzo luogo, bisogna evidenziare come anche il movimento dei lavoratori francesi non ha ancora pienamente compreso lo stretto legame esistente tra le controriforme varate dai governi sul piano interno e il contesto internazionale di tendenza alla guerra. Si tratta di un limite che non è imputabile tanto al corpo largo dei lavoratori e dei proletari in lotta, quanto piuttosto alle cosiddette “avanguardie” che, in Francia così come nel resto d’Europa, sono ancora incapaci di mettere bene a fuoco come la guerra e la corsa al riarmo globale diventino ogni giorno di più l’elemento determinante, la sacra “ragion di stato” con cui i governi di tutte le potenze imperialiste intendono legittimare le politiche economiche, fiscali e sociali che stritolano ed affamano i lavoratori e i settori oppressi della popolazione.
Vedremo nelle prossime ore e nei prossimi giorni quali saranno gli sviluppi del movimento francese, e soprattutto la sua capacità di mantenersi in piedi evitando il pantano delle urne e i rituali della democrazia borghese; così come ci sarà da vedere se Macron e i suoi soci in affari saranno capaci di reggere l’urto delle proteste e mantenersi al potere – dopotutto vincere per soli 9 voti con l’apporto decisivo dei Républicains “responsabili” ha fatto rilevare quanto esile sia il margine di maggioranza su cui può contare Macron, e quanto sfarinato appaia il panorama delle forze borghesi. Noi tifiamo senz’altro per una caduta del governo, poiché si tratterebbe di un evento capace di infondere fiducia nella classe e consapevolezza dei propri mezzi.
In ogni caso, indipendentemente dai suoi esiti immediati, questa lotta ha molto da raccontare e da insegnare ai lavoratori italiani, che con un inflazione galoppante e i salari fermi al palo da più di 30 anni, a differenza dei loro compagni di classe francesi, sembrano ancora immersi in un sonno che appare senza fine…