Riceviamo e pubblichiamo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso questo contributo, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
Riprendiamo dal n. 52 di “Pagine marxiste” (marzo 2023) un articolo del compagno Roberto Luzzi che analizza in modo diretto e crudo lo “stato delle cose sociali” nella Russia d’oggi, illustrando – sulla base per lo più delle stesse statistiche ufficiali della Federazione russa – la divisione della società in classi sociali antagoniste. Una divisione che nei suoi tratti essenziali non si differenzia affatto dalla struttura sociale propria delle società capitalistiche appartenenti all’”Occidente collettivo”, se non, forse, per un’esasperazione delle disuguaglianze di classe.
Sappiamo bene, come sa bene l’estensore di questo articolo, che nell’”era Putin” (naturalmente questa formula è una semplificazione, lo prendiamo come nome collettivo) vi è stata una complessiva risalita dal disastro in cui la Russia era precipitata nel decennio yeltsiniano nel quale avevano imperversato in Russia multinazionali e spietati “consiglieri” occidentali nel tentativo, fallito, di metterla in ginocchio (il sogno tuttora vivo di personaggetti demonazisti tipo la von der Leyen). Ma questa indiscutibile risalita che ha restituito alla Russia capitalista il suo statuto di grande potenza mondiale, benché abbia senza dubbio migliorato le condizioni di vita di masse di proletari, non ha modificato i rapporti di fondo tra borghesia e proletariato, e neppure i rapporti di forza tra le due classi, se è vero – e senza dubbio alcuno lo è – che l’auto-organizzazione dei proletari viene nella Russia d’oggi sistematicamente contrastata dall’operato statale, oltre che dai padroni del vapore.
I nazionalisti “rosso”-bruni puntino pure tutte le loro fiches sulla Russia di Putin in quanto “oggettivamente anti-imperialista” (con argomenti e mire smaccatamente “grandi-russe”, ben esplicitati da un Medvedev che può esprimerli senza filtri diplomatici); noi puntiamo, invece, le nostre sui proletari e le proletarie della Russia, ancorché siano oggi silenti e magari favorevoli in maggioranza all’invasione dell’Ucraina, come la maggioranza dei proletari ucraini lo è, forse, alla guerra di Zelensky e della NATO. Per questo abbiamo dato voce, finora, a quei piccoli gruppi di compagni e di proletari (il Partito operaio rivoluzionario, la Lega della gioventù comunista rivoluzionaria (bolscevica) di Russia) che, per quanto ideologicamente lontani da noi, esprimendo un sentire di classe, si rifiutano di allinearsi allo sciovinismo imperante e di compartecipare al massacro in corso. Solo attraverso la faticosa riconquista dell’autonomia di classe nello scontro con la propria borghesia e le sue istituzioni statali il proletariato russo ritornerà ad essere la stella rossa nel cielo di fuoco della rivoluzione mondiale che fu un tempo. (Red.)
Proletari e borghesi nel capitalismo russo
Il presidente americano Biden giustifica l’impegno di decine di miliardi di dollari per armare l’Ucraina come difesa della democrazia contro l’autocrazia. Uno strano “sacrificio” di risorse per una tal nobile causa da parte della stessa potenza che ha sostenuto e sostiene dittatori in mezzo mondo (da Pinochet ai reali sauditi, anche se ora Bin Salman, fiutando il vento multipolare, gli sta girando le spalle…).
Noi non crediamo che Stati Uniti e alleati NATO siano in guerra con la Russia per ciò che li differenzia come sistemi politici, ma per ciò che li accomuna come sistemi sociali: il capitalismo. È nella natura del capitalismo, specie se fortemente concentrato e maturato in senso imperialista, la lotta per i “mercati” e le materie prime, dove per “mercato” si intende anche quello della forza lavoro, l’unica merce il cui acquisto genera più valore di quel che costa.
Gli Stati Uniti d’America sono da oltre un secolo il modello del “capitalismo puro” e selvaggio, il regno della “libertà” … di sfruttare il bisogno di lavorare altrui per arricchirsi – un modello al quale sempre più si stanno avvicinando anche i paesi europei con la precarizzazione dei rapporti di lavoro e lo smantellamento dello “stato sociale”, con il risultato di una crescente divaricazione tra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri.
Come si presenta sotto il profilo sociale la Russia, il cui governo sta sfidando le potenze occidentali in Ucraina? A oltre 30 anni dal crollo dell’URSS nella percezione comune permane l’idea che si tratti di una società in qualche modo diversa e comunque non così selvaggiamente capitalista come i paesi occidentali. Ma un’analisi condotta principalmente sulle stesse fonti ufficiali russe ci mostra una società divisa nelle stesse classi di sfruttatori e sfruttati, con ineguaglianze non meno forti che nei paesi capitalistici occidentali.
Nell’attuale guerra tra imperialismi NATO e imperialismo russo in Ucraina non c’è un “male minore” da scegliere, ma lo stesso male peggiore su entrambi i fronti, da combattere con l’unione dei proletari di tutti i paesi.
L’Annuario Statistico 2020 della Russia1 (dal quale sono tratti i dati quando non siano specificate altre fonti) dà una popolazione di 146,3 milioni di persone, con un calo naturale di oltre 300 mila (più morti che nati) in un anno. Trent’anni fa c’era un milione di abitanti in più. Anche qui come in Italia il tasso di fertilità, pur risalito da poco più di 1 figlio per donna nel 2000 a circa 1,5, determina un continuo declino demografico, che l’immigrazione colma solo in parte. E’ in parte l’effetto di una società fortemente urbanizzata (i tre quarti della popolazione vive in città, contro meno di 1 su 5 nel 1917; oltre la metà vive in centri con più di 100 mila abitanti), dove una parte della popolazione non ha un reddito sufficiente per metter su casa e far crescere dei figli, anche a seguito dello smantellamento di gran parte del vecchio welfare. Tuttavia le maggiori metropoli della Russia europea sono in crescita grazie a una migrazione interna da Siberia, Estremo oriente e regione del Volga, che quindi si vanno spopolando ulteriormente. Il divario città-campagna è infatti notevole, con una incidenza della povertà nelle campagne più che tripla che nelle città.
L’aspettativa di vita alla nascita, un indicatore sintetico del “benessere materiale”, che aveva raggiunto i 69 anni nel 1990 per poi scendere a 65 nel 2000, a seguito del crollo economico e del dilagare di disoccupazione e povertà, è risalita a 73,3 anni nel 2019 (4 anni meno che negli USA, 9 meno che in Italia). Ma per un uomo la speranza di vita è di 68 anni, dieci in meno che per una donna. Il divario tra uomini e donne è tra i più alti al mondo, e più che doppio rispetto all’Italia, un fatto in parte correlato al diffuso e storico alcolismo maschile.
Forte proletarizzazione, bassa la quota dei salari sul reddito nazionale
Gli occupati sono circa 72 milioni (donne 35 milioni, quasi alla pari con gli uomini), di cui 67 milioni, pari al 93%, sono lavoratori dipendenti, solo un 5% sono lavoratori autonomi, 1,5% imprenditori. Un livello di proletarizzazione, quindi, tra i più elevati del mondo, con numeri molto ristretti di strati intermedi e piccola borghesia (in Italia sono 3-4 volte più numerosi). Tuttavia ai lavoratori dipendenti va solo il 45,7% del reddito nazionale (quota in calo di 4 punti rispetto al 2010, quando era del 49,6%, secondo le statistiche ufficiali), cifra che include i trasferimenti ricevuti tramite lo stato sociale (sanità e benefici vari). Il restante 54,3% va in larghissima parte al milione di capitalisti2, e principalmente ai più grandi tra essi, i cosiddetti “oligarchi”, che ringraziano Putin le cui politiche gli hanno permesso di aumentare i profitti a scapito dei salari.
Questo primo dato grezzo ci dice molto della struttura sociale russa, fondata sullo sfruttamento del lavoro salariato quanto e ancor più, se possibile, delle società europee e nordamericana. I dati ILO sulla quota del PIL che va al “lavoro”, e che comprendono anche stime (opinabili) sulla remunerazione del lavoro dei lavoratori autonomi, dà Francia, Germania e Italia tra il 60% e il 63%, USA e GB al 57-58%, la Russia al 52%. In ogni caso in Russia la quota del prodotto totale che va al capitale risulta maggiore che nei paesi capitalisti occidentali, indice di un maggiore tasso di sfruttamento e di un minore potere contrattuale dei lavoratori. Da notare che il lavoro “informale”, ossia l’economia sommersa (evasione fiscale e contributiva) è stimato al 17% del totale, in forte crescita rispetto al 12% del 2010. Il putinismo ha favorito anche questi processi sociali, non diversamente da quanto avvenuto in Italia e Germania negli stessi anni con la liberalizzazione del mercato del lavoro.
Crollo dell’industria, crescita dei servizi
Dove lavorano i 72 milioni di occupati in Russia? Dal disfacimento dell’URSS nel 1991-92 e dalla liberalizzazione economica avviata già negli anni di Gorbaciov, l’area ha subito il violento impatto del mercato mondiale che ha messo fuori gioco buona parte dell’apparato industriale. I lavoratori dell’industria (in senso stretto, cioè l’industria manifatturiera) sono scesi da 1 su 3 a 1 su 7 occupati (dal 34 al 14%, all’incirca 10 milioni di occupati), con milioni di licenziati a seguito di chiusure e ristrutturazioni. Il ridimensionamento del peso dell’industria è un fenomeno che riguarda tutte le metropoli, ma in Russia è stato particolarmente drastico. A questi si aggiungono – a configurare le attività industriali in senso lato – i lavoratori delle costruzioni (6,4 milioni), dei trasporti (5,4 milioni) e delle reti di elettricità, gas e idriche (2,3 milioni). Nell’ultimo trentennio è enormemente cresciuto il peso dei servizi, salito a 41 milioni (58% del totale). In agricoltura restano meno di 4,8 milioni di lavoratori, il 6,7%, una percentuale più che dimezzata rispetto al 1991, quando i lavoratori agricoli erano il 14% del totale. Anche qui la Russia segue, con un ritardo di una o due generazioni, il trend delle altre metropoli capitalistiche. L’industrializzazione dell’agricoltura, fallita sotto il capitalismo di stato, viene ora portata avanti dal grande capitale privato, con l’uso di un numero ridotto di lavoratori salariati, facendo della Russia uno dei principali esportatori agricoli mondiali. Tra i maggiori gruppi agricoli (in ordine di estensione dei terreni di proprietà): Prodimex e Agrokultura di Igor Khudokormov: 790mila ettari, 15.000 dipendenti, fatturato 2016 di 755 milioni di dollari (cereali, soia), profitti per 15.1 milioni; Miratorg di Viktor e Alexander Linnik, 676.000 ettari, 30.000 dipendenti, 1,927 miliardi di dollari di fatturato (allevamento, mangimi, agroalimentare compresa distribuzione), 337,3 milioni di profitti nel 2016; Rusagro di Vadim Moshkovich(sede legale: Cipro), 675.000 ettari, 14.000 dipendenti, nel 2016 fatturato di 1,356miliardi di dollari (zucchero, suini, cereali, oleaginose/olio) con 95 milioni di profitti; Agrocomplex di Alexander Tkachev, 644.000 ettari, 24.000 dipendenti, 722.9 milioni di dollari di vendite con 48 milioni di profitti (legumi, cereali, barbabietole, oleaginose); Volgo-Don Agroinvest di Sergei e Alexei Kukura, 452.000 ettari, 2.400 dipendenti, 97.2 milioni di dollari fatturati, 10.6 milioni di profitti.3
Ci sono inoltre poco più di un milione di persone che lavorano nel settore estrattivo (dal carbone ai metalli al petrolio e gas), l’1,6% del totale dei lavoratori, le cui attività generano tuttavia un risultato operativo (utili lordi) superiore a quello di tutta l’industria manifatturiera, dove lavorano – come si è detto – quasi 10 milioni di persone. E’ l’elevata rendita (soprattutto nel settore petrolio e gas) che da un lato genera forti sovrapprofitti aziendali (di cui qualche briciola va a pagare salari doppi rispetto all’industria manifatturiera) e dall’altro costituisce la principale fonte di finanziamento dello Stato russo. A sua volta il settore immobiliare, con meno di due milioni di addetti, ha generato nel 2019 un surplus operativo pari a quello del commercio che occupa 13,5 milioni: anche in questo settore abbiamo un’alta rendita immobiliare e sovrapprofitti da attività speculative – come in tutto il mondo capitalista.
Forti differenziazioni salariali
A quanto ammontano i salari russi? Secondo l’ILO (Ufficio internazionale del lavoro) https://ilostat.ilo.org/topics/wages/ 4 EAR_4HRL_SEX_OCU_CUR_NB_A_EN – la retribuzione media oraria nel 2017 era di 222 rubli, pari a circa euro 6,855, rispetto ai 16 euro per ora lavorata (includendo il pagamento di 13^, 14^, ferie e permessi) dell’Italia e i quasi 20 euro della Germania. La retribuzione oraria delle donne è pari al 75% di quella degli uomini, un divario di genere nettamente superiore a quello rilevato in Europa e Stati Uniti. Vi sono anche forti differenze settoriali e territoriali. Il salario mensile medio è di 26 mila rubli nel tessile, 28 mila rubli nel turismo-ristorazione, 32 mila rubli in agricoltura, 37 mila rubli nell’istruzione, 44 mila nell’industria manifatturiera, 51 mila nei trasporti, 82 mila rubli nella petrolchimica, 104 mila rubli nella finanza e assicurazione, 135 mila rubli nell’estrazione di petrolio e gas. Un ventaglio intersettoriale di 1 a 5 e più, più accentuato che nelle altre metropoli, collegato come ovunque alla composizione organica del capitale (il capitale investito per addetto) nelle varie branche, e in parte dovuto, per il petrolio e gas, al fatto che l’estrazione avviene in gran parte in regioni sperdute e dal clima inospitale, dove nessuno andrebbe a vivere senza un forte incentivo materiale, e alla disponibilità di sovrapprofitti: si tratta di una “aristocrazia operaia” di confinati. Spicca il basso livello degli stipendi nel settore istruzione, in gran parte femminile, mediamente inferiori ai salari dell’industria manifatturiera.
Forti sono anche le differenze regionali di redditi e salari, che in parte si intersecano con quelle settoriali. La retribuzione media lorda mensile è a Mosca di 94 mila rubli, il doppio della media della Federazione Russa (47 mila, pari a circa 1.300 euro/mese, inclusi i contributi sociali e le imposte), mentre nella provincia di Ivanovo (che come Mosca fa parte del Distretto Centrale) è di soli 27 mila rubli. L’enorme estensione territoriale e le forti distanze riducono l’integrazione tra le diverse regioni (che nei mesi invernali sono spesso isolate le une dalle altre). Ancora più forti gli squilibri territoriali nel reddito pro capite, dati i diversi tassi di occupazione e strutture demografiche. Hanno un terzo, o meno, del reddito o del salario medio di Mosca la metà delle repubbliche e regioni del Volga e del Caucaso, con diverse regioni sotto i 20.000 rubli.
La popolazione al di sotto del minimo di sussistenza (il 12,3% su scala nazionale, il 7,3% a Mosca e il 6,5% a San Pietroburgo) sale al 34% nella repubblica di Tuva e al 30% in Inguscezia. La povertà supera il 20% in diverse altre regioni del Nord Caucaso (repubbliche Kabardino-Balkaria, Karachayevo-Circassia e Cecena), del Sud (Kalmykia), del Volga (Mari), della Siberia ed Estremo Oriente (Altay, Tuva, Khakassia, Buryatia, territorio trans-Baikal e Regione autonoma Ebraica, al confine con la Cina lungo l’Amur, dove tuttavia è rimasto poco più dell’1% di ebrei). Queste forti disparità sono non solo regionali, ma anche etniche, con le minoranze in condizioni svantaggiate rispetto alla popolazione russa. Le disparità sono ancora più stridenti rispetto alle ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale, divenute indipendenti e principale fonte di immigrazione in Russia (vedi riquadro).
Gli squilibri regionali si combinano con lo squilibrio città-campagna: il 25% della popolazione che vive in piccoli centri vede un tasso di povertà del 23% circa, più che triplo di quello delle aree urbane. Solo il 40% delle abitazioni rurali ha disponibilità di acqua calda e di un bagno o doccia.
Il prezzo della carne da cannone, e chi ne trae profitto
È soprattutto in queste regioni povere che vengono reclutati i militari mandati al massacro in Ucraina. Analogamente in Italia la maggior parte dei poliziotti, carabinieri e militari di carriera viene dal Sud, dove il reddito pro capite è circa la metà del Nord. In occasione della guerra il soldo dei militari russi è stato portato a 160.000 rubli, 2.700 dollari al cambio corrente, a cui un decreto di Putin di inizio novembre 2022 ha aggiunto una una tantum di 195.000 rubli (3.200 dollari) per chi era in servizio in Ucraina. La paga del soldato è quindi 3 volte e mezza il salario medio e oltre 6 volte quello delle regioni più povere. Analogo l’incentivo a rischiare la pelle pagato dal governo italiano ai militari (di professione) inviati in Iraq nel 2003 (circa 4 mila euro al mese, pari a oltre 5.600 euro attuali). Anche negli Stati Uniti la “carriera” militare è seguita in misura più che proporzionale dai giovani di famiglie povere, in particolare di colore (tranne che tra i Marines), ma la paga del soldato semplice in missione senza anzianità è paragonabile al salario di un operaio, non a un suo multiplo. Negli Stati Uniti il vantaggio per chi si arruola è soprattutto la possibilità di laurearsi senza pagare gli altissimi costi dell’università, con la speranza di salire la scala sociale, o la prospettiva di carriera militare. Anche l’esercito ucraino, per attrarre volontari, ha portato la paga dei militari a 100.000 hryvnia, pari a circa 2.500 dollari al mese. Rischiare la pelle (e far la pelle ad altri) per uscire dalla povertà…
Per contenere le proteste delle famiglie che piangono i loro figli e mariti caduti in Ucraina, la Russia aveva annunciato a inizio guerra un indennizzo pari a 7,4 milioni di rubli, un importo che al cambio corrente è inferiore a 100.000 euro, ma che in termini di potere d’acquisto potrebbe valere anche il doppio. La cifra è scesa a 5 milioni di rubli nel gennaio 2023. Gli invalidi di guerra ricevono 3 milioni di indennizzo. Secondo alcune fonti6 tuttavia lo stato non risarcisce le famiglie dei soldati considerati “dispersi”, e per questo motivo molti cadaveri sarebbero abbandonati, mentre ci sarebbe un indennizzo aggiuntivo delle regioni/repubbliche della Federazione Russa, di importo variabile. L’indennizzo pagato dall’Ucraina alle famiglie dei soldati deceduti in guerra è pari a 15 milioni di hryvnia, che al cambio corrente sarebbe pari a 375 mila euro. Il prezzo del patriottismo, che l’inflazione conseguente all’enorme deficit sta velocemente abbattendo, ma alto abbastanza per evitare che il dolore dei familiari si trasformi in rabbia anti-patriottica.
Su entrambi i versanti del fronte ucraino centinaia di migliaia di proletari sono mandati a massacrarsi per decidere quali capitalisti avranno il “diritto” di sfruttare i proletari ucraini: se gli oligarchi ucraini alleati (e subordinati) ai capitalisti occidentali, oppure gli oligarchi russi (dietro i quali si profila il capitale cinese). Questo il carattere di classe di questa guerra, che se fosse ben compreso dai proletari russi e ucraini, dovrebbe portare alla loro fraternizzazione e a rivolgere le armi contro i rispettivi governanti.
Le disparità territoriali e settoriali che abbiamo evidenziato in Russia hanno la loro radice nella divisione in classi e nella stratificazione di queste. Secondo le statistiche della contabilità nazionale Il 20% più ricco della popolazione (capitalisti, professionisti e manager) dispone del 47% dei redditi, il 20% più povero del 5,3%. Il reddito di chi si trova a metà strada (la mediana) nel 20% più ricco è 15,4 volte quello di chi si trova a metà strada nel 20% più povero! Negli Stati Uniti questo rapporto è stimato a 13,5 volte per il 20217. Una ineguaglianza sociale, quella della Russia, non inferiore a quella, stridente, degli Stati Uniti o dell’Italia.
Analisi più approfondite indicano una ineguaglianza sociale ancora più forte.
Quota di reddito del 10% più ricco: Russia, USA e Francia
In questo confronto tra stime condotte con metodi analoghi, il 10% più ricco ha circa il 45% di tutto il reddito, al pari che negli Stati Uniti. L’introduzione dellaflat tax del 13% su tutti i redditi nel 2001 (una delle prima “riforme” di Putin, ed una delle aliquote fiscali sul capitale tra le più basse del mondo) ha permesso ai capitalisti russi di pagare le stesse aliquote degli operai. La flat tax di Putin è un modello anche per la destra italiana.
Secondo le statistiche ufficiali russe, nel 2019 18,1 milioni di persone, pari al 12,3%, avevano un reddito inferiore al minimo di sussistenza, indicato in 10.890 rubli (€ 336 a parità di potere d’acquisto), un numero notevole anche se molto ridotto rispetto al 42% raggiunto nel 2000 a seguito del collasso dell’economia . Tra questi poveri, molti i pensionati, dato che il livello medio della pensione è pari al 29% del salario medio. L’indennità di disoccupazione è infima, tra circa 30 a 100 euro.
Il 10% più povero della popolazione russa vive con un reddito mensile inferiore a 10.000 rubli (308 euro) e il secondo decimo non arriva a 432 euro; il 50% più povero sta sotto i 27.000 rubli, pari a 833 euro, mentre il 4% più ricco ha più di 100.000 rubli, pari a 3.086 euro. Se passiamo alle diverse decine di oligarchi, i redditi si misurano in miliardi di rubli – come in Occidente. Secondo il citato studio di Filip Novokmet, Thomas Piketty, e Gabriel Zucman del 2017, dal quale abbiamo tratto i grafici di questo articolo, nei 25 anni seguiti al crollo dell’URSS (tra il 1989 e il 2016), dopo la precipitosa caduta nei primi 5 anni, il PIL per abitante adulto in Russia è aumentato del 41%, e il reddito medio si è un po’ ravvicinato a quello di Germania-Francia-Gran Bretagna, passando dal 60-65% al 70-75% in termini di potere d’acquisto (nello stesso periodo l’Italia ha invece perso terreno rispetto agli altri paesi europei). Tuttavia questa crescita della media nasconde un forte aumento delle ineguaglianze che ha portato un peggioramento per metà della popolazione: il 10% più ricco ha visto crescere i propri redditi del 171%, il 40% mediano del 15%, mentre il 50% meno ricco ha visto diminuire del 20% il proprio reddito medio! A parte le ville e gli yacht degli oligarchi russi (e ucraini, Putin e Zelensky inclusi) in Toscana e Sardegna. Le cronache del tremendo terremoto in Turchia hanno rivelato che ad Adana (sul Mediterraneo) il costo delle abitazioni era fortemente lievitato fino a divenire proibitivo per i lavoratori turchi, in seguito ai massicci acquisti di seconde case da parte dei borghesi russi.
Fig. 1 Distribuzione del reddito in Russia, 1905-2015
[Distribuzione del reddito nazionale prima delle imposte (prima di imposte e trasferimenti esclusi pensioni e indennità di disoccupazione) tra gli adulti. Le stime corrette combinano i dati delle indagini campionarie, fiscali, patrimoniali e della contabilità nazionale. […].8
Ridimensionamento del capitalismo di Stato
Le privatizzazioni hanno ridimensionato la presenza del capitale di stato: nel 1992 le imprese a capitale di stato occupavano il 69% degli addetti, nel 2000 il 47%, nel 2019 il 39% (principalmente nel settore bellico e altri settori strategici). Contrariamente alla vulgata tuttora corrente sul “socialismo reale”, alias capitalismo di Stato, la proprietà statale di un’impresa non ne muta il carattere sociale di impresa capitalistica, che acquista lavoro salariato per trarre profitto dalla sua attività lavorativa, appropriandosi del prodotto del lavoro e del plusvalore che realizza con la vendita. Lavoro salariato e capitale sono contrapposti, indipendentemente dal carattere privato o statale della proprietà. Certo le imprese statali/municipali possono essere condizionate da fattori politici, ma l’esperienza italiana dei grandi carrozzoni capital-statali IRI, ENI, ENEL, EFIM, FS e l’azionariato pubblico dell’80% delle banche fino ai primi anni ’90 si è risolta con il taglio di centinaia di migliaia di posti di lavoro, e nel caso di IRI ed EFIM nello smembramento e nella privatizzazione delle aziende appartenenti a questi conglomerati. Esperienze che dimostrano come anche sotto il capitale di Stato la condizione dei lavoratori rimaneva di subalternità e sfruttamento, anche se fino agli anni ‘80 i bancari e i dipendenti ENEL potevano definirsi “aristocrazie salariali” (con salari anche doppi rispetto a lavoratori con le stesse funzioni nel privato) per le condizioni di monopolio in cui si trovavano le aziende (quello dell’aristocrazia operaia è un fenomeno già osservato da Engels in Gran Bretagna nella seconda parte dell’800, e da Lenin all’inizio del ‘900 quale base per la corruzione dei settori più organizzati della classe lavoratrice e dei loro sindacati) . Oggi gran parte di quei privilegi sono scomparsi, non tanto per il passaggio al privato, quanto per la rottura delle condizioni di monopolio (anche se ENI, che opera da azienda privata, conserva una cospicua rendita petrolifera, con briciole che possono cadere nelle tasche dei dipendenti più qualificati, e dei dirigenti).
Questo vale anche per la Russia, con le forti differenze settoriali dei salari già viste a favore dei settori con rendite e del settore finanziario. L’alto livello dei salari a Mosca fa pensare che le retribuzioni negli enti centrali della Pubblica Amministrazione siano particolarmente elevate per garantire adesione al sistema.
Certo il crollo dell’URSS ha segnato, oltre che la disgregazione dell’Unione, anche la fine del sistema che veniva definito “socialista”, ma che a nostro parere era in realtà una forma di capitalismo di Stato, per cui la privatizzazione e mercatizzazione hanno comportato una rottura nel rapporto tra i “capitali individuali”, tra le aziende, che si sono liberate della tutela statale, e possono disporre direttamente di tutti i profitti che realizzano (una volta pagata la flat tax del 13% introdotta da Putin), mentre vi è stata continuità nel rapporto lavoro salariato/capitale, nella subalternità del primo al secondo.
L’arretratezza della Russia dell’Ottobre (e lo sconquasso della guerra) non permisero il salto al comunismo, che significa abolizione del lavoro salariato e del denaro, abolizione del capitale quale entità contrapposta alla forza lavoro e dell’azienda quale unità di produzione indipendente, e produzione direttamente sociale, non mediata dal denaro.
Lo Stato assunse la proprietà di gran parte dei mezzi di produzione, ma i lavoratori rimasero lavoratori salariati, costretti a vendere la forza lavoro al capitale statale. Nei primi anni dopo la rivoluzione lo Stato russo fu tenuto sotto controllo dal partito rivoluzionario, che intendeva servirsene per promuovere la rivoluzione proletaria in Europa e nel mondo, per arrivare a sopprimere la schiavitù salariata. Ma esaurita l’ondata rivoluzionaria in Germania e Italia, con la controrivoluzione staliniana (che massacrò gran parte dei protagonisti dell’Ottobre) lo Stato sovietico divenne lo Stato del Capitale, centralizzò in capo alla Banca centrale il plusvalore estratto dai lavoratori, per “guidare” l’accumulazione secondo un “piano” che pose al primo posto la Difesa (la produzione di armi), all’ultimo i consumi dei proletari. Non è qui il luogo per tracciare una storia dei piani quinquennali e della partecipazione dell’URSS alla Seconda guerra mondiale imperialista, prima come alleata della Germania per la spartizione della Polonia (e l’inglobamento degli Stati Baltici), poi come alleata di USA e Gran Bretagna contro gli invasori tedeschi, così come del quarantennio successivo di “guerra fredda”, che si concluse con l’implosione dell’URSS. I dati odierni indicano che dopo 70 anni di capitalismo di Stato e altri 30 di capitalismo (in parte) “di mercato” gli squilibri territoriali, etnici e soprattutto sociali sono rimasti (così come sono rimasti negli Stati Uniti e in Italia), questi ultimi amplificati dal passaggio alla proprietà privata dei mezzi di produzione.
È da notare che la dissoluzione dell’URSS, con il passaggio dal centralismo statalista al mercato (già avviato a fine anni ‘80 da Gorbacev con la Perestroika) e il processo di privatizzazione sono avvenuti senza scossoni sociali, senza la necessità di una controrivoluzione né resistenze di massa dei lavoratori: salariati erano, salariati sono rimasti; è solo cambiata la forma giuridica del padrone: prima a capitale statale/municipale, poi in parte privato. La controrivoluzione, con l’estromissione dal potere statale della classe lavoratrice, era avvenuta tra la fine degli anni ’20 e gli anni ’30 con l’annientamento dei protagonisti della Rivoluzione d’Ottobre nelle purghe staliniane.
Nel processo di privatizzazione è stata molto usata la forma apparentemente democratica e partecipativa della distribuzione di azioni ai dipendenti, i quali, dato il crollo del potere d’acquisto dei salari, hanno dovuto rivenderle agli aspiranti capitalisti privati i quali, grazie alle connessioni politiche, hanno usufruito del credito necessario per rastrellare le azioni e diventare veri e propri padroni delle imprese privatizzate, anche con un apposito meccanismo di “prestiti (a Stato ed enti locali indebitati) contro azioni”, che ha permesso l’ascesa di molti “oligarchi”.
“Borghesi e proletari”: si torna all’abc del Manifesto di Marx, e alla necessità della rivoluzione sociale anti-capitalista, che accomuna i lavoratori russi con quelli europei, americani, cinesi…
La classe operaia russa ha espresso importanti lotte negli anni ’90 a difesa del salario decimato dall’iperinflazione (i prezzi si moltiplicarono di quasi 5.000 volte tra il 1990 e il 1996). Negli ultimi 20 anni la progressiva stabilizzazione economica e la risalita dei salari reali, insieme a un’accresciuta repressione di ogni forma di opposizione, hanno portato alla riduzione degli scioperi. Con l’”operazione militare speciale”, alias invasione dell’Ucraina, per il proletariato russo c’è in gioco ben più del livello dei salari. C’è in gioco, come nel 1914-1917, la scelta tra divenire carne da cannone per l’imperialismo russo e i suoi oligarchi, in nome di quella stessa “Grande madre Russia” che Putin vorrebbe restaurare, e l’indipendenza di classe, l’internazionalismo proletario, l’opposizione alla guerra e la fraternizzazione con i proletari ucraini, il fare come nel 1917…
Fig. 2 Crescita reale cumulativa del reddito per percentile in Russia, 1989-2016
Distribuzione del reddito nazionale al lordo delle imposte e dei trasferimenti, escluse le pensioni e l’indennità di d, tra gli adulti ripartiti in parti uguali (reddito delle coppie sposate diviso per due). Le stime corrette combinano indagini, dati fiscali, patrimoniali e di contabilità nazionale.9
P10 rappresenta il livello di reddito che divide il 10% più povero della popolazione dal restante 90%; tra il 1989 e il 2016 questo reddito è dimezzato; P50 rappresenta il reddito che divide il 50% più povero dal 50% più ricco. Nel periodo 1989-2016 è rimasto fermo; P99 è il reddito sopra il quale si colloca l’1% più ricco della popolazione: nel periodo 1989-2016 è aumentato del 150%, mentre la soglia di reddito dello 0,1% più ricco è aumentata di ben 4 volte.
Fig. 3 – Quota di reddito del 10% più ricco: Russia, USA e Francia
Distribuzione del reddito prima delle imposte e dei trasferimenti (escluse pensioni e indennità di disoccupazione); redditi di coppie divisi per due.
Fig. 4 Concentrazione della ricchezza in Russia, 1995-2015
Alcune caratteristiche proprie dell’imperialismo russo
Abbiamo definito la guerra in corso in Ucraina una guerra inter-imperialista, cioè tra due blocchi imperialisti, quello NATO a guida USA, e la Russia (con il tiepido appoggio cinese). Non tutti a sinistra, neppure tra coloro che si sono schierati con l’Ucraina e chiedono ai paesi imperialisti occidentali l’invio di più armi, definiscono la Russia un paese imperialista. Alcuni, rifacendosi come a un dogma ai “cinque contrassegni” dell’imperialismo identificati da Lenin, sostengono che la Russia non li presenta tutti, e che quindi non può essere definita un paese imperialista. C’è anche chi sostiene la Russia di oggi sia una “semi-colonia” dell’imperialismo, identificato con gli USA (allo stesso modo anche l’Italia è stata definita “semi-colonia”: l’imperialismo italiano diventa in questo modo una potenziale forza… antimperialista). Tra i caratteri mancanti per qualificare la Russia come imperialista sarebbe il fatto che esporta prevalentemente materie prime (agricole, petrolio e gas) mentre importa macchine, e che ha una bassa esportazione di capitali. È ben curioso il fatto che Lenin non esitasse a definire imperialista la Russia del 1916, quando era enormemente più arretrata da un punto di vista industriale e finanziario (dipendeva dalla finanza francese e inglese), mentre oggi si utilizza strumentalmente lo stesso Lenin per negare il carattere imperialista della Russia di Putin… Per altri ancora, la discriminante sarebbe il ruolo dello Stato nell’economia, ossia la ancora forte presenza del capitale di Stato in Russia. La Russia, pur capitalista, avrebbe ereditato storicamente il ruolo di “nemico pubblico numero uno del mondo imperialista”, insieme alla Cina, in quanto lo statalismo avrebbe permesso ad entrambe di “resistere all’imperialismo” e di divenire “una spina nel [suo] fianco”10. Il problema sarebbe quindi Putin e il suo entourage, che hanno scatenato una guerra insensata, ma il sistema Russia avrebbe in sé, oggettivamente, un carattere in qualche modo progressivo e “anti-imperialista”.
Quanto al capitalismo di Stato russo, si veda sopra. Possiamo osservare, in aggiunta, che anche le punte avanzate, strategiche, dell’imperialismo italiano sono ancora a capitale statale (dai tempi del fascismo): l’ENI, primo gruppo industriale italiano, con una grande presenza internazionale in tutti i continenti e grande influenza sulla politica estera italiana, ha lo Stato (il Tesoro, tramite la Cassa Depositi e Prestiti) quale azionista di controllo; l’ENEL, secondo grande gruppo non finanziario italiano, pure con forte presenza internazionale, è controllato dal Tesoro; lo stesso vale per Ferrovie dello Stato-Trenitalia, come anche per il maggiore produttore di armi italiano, Leonardo. Solo nel campo finanziario (Generali, Banca Intesa, Unicredit) prevale ora l’azionariato privato. Il maggior gruppo industriale privato, FIAT, è inglobato con Stellantis in un complesso a trazione francese con forte componente USA, per cui la sua influenza politica sull’Italia è mediata dal suo carattere multinazionale (anche se Exor della famiglia Agnelli, primo azionista di Stellantis, controlla tra l’altro La Stampa, Repubblica, Secolo XIX). Possiamo quindi dire che i motori industriali dell’imperialismo italiano, quelli che maggiormente spingono il governo ad una proiezione economica, politica e militare all’estero sono tutt’ora gruppi a capitale di Stato. Sennonché lo Stato italiano non ci sembra certo una “spina nel fianco” dell’imperialismo, bensì un predone imperialista, anche se di medio rango, nell’arena mondiale, un fattore di guerra nel passato come nel presente. Non diverso è il discorso per il capitale di Stato e lo Stato russi.
Certo, la Russia di oggi è una media potenza economica (per PIL, al cambio corrente, è nona, tra Canada e Italia, dopo Gran Bretagna e Francia, mentre nel calcolo a parità di potere d’acquisto è sesta, tra Germania e Indonesia, davanti a Gran Bretagna e Francia), ma gioca nel girone delle potenze imperialiste. È vero: esporta prevalentemente materie prime, petrolio e gas, ma si appropria per intero, tramite le sue major petrolifere e lo Stato, di una massa rilevante di rendita petrolifera, ossia di plusvalore prodotto dai proletari di mezzo mondo (il settore idrocarburi con l’1,6% della forza lavoro produce il 20% del PIL russo: un 18% circa è per l’appunto rendita). Ed è anche il secondo esportatore mondiale di armi, con un’industria aerospaziale di prim’ordine (dietro la quale non può non esserci una ricerca ed una tecnologia di prim’ordine), dispone di quello che è considerato il secondo esercito al mondo, con il più grande arsenale nucleare, ed è tra i paesi maggiori esportatori di centrali nucleari. Non esattamente i caratteri della semi-colonia costretta ad uno scambio ineguale11.
[A proposito del PIL, spesso accettato acriticamente come misura oggettiva della forza complessiva delle singole economie nazionali, un non marxista dotato di acuta intelligenza critica quale è senza dubbio Emmanuel Todd ha saputo relativizzarne il significato con osservazioni di chiaro contenuto materialista di cui certi sedicenti marxisti sono incapaci: “La guerra diventa un test dell’economia politica, è il grande rivelatore. Il PIL della Russia e della Bielorussia rappresenta il 3,3% del PIL occidentale (Stati Uniti, Anglosfera, Europa, Giappone, Corea del Sud), praticamente nulla. Ci si chiede come questo PIL insignificante possa affrontare e continuare a produrre missili. Il motivo è che il PIL è una misura fittizia della produzione. Se ritiriamo dal PIL americano metà delle sue spese sanitarie sovrafatturate, poi la ‘ricchezza prodotta’ dall’attività dei suoi avvocati, dalle carceri più affollate del mondo, poi da un’intera economia dei servizi scarsamente definiti tra cui la ‘produzione’ dei suoi 15-20.000 economisti con uno stipendio medio annuo di 120.000 dollari, ci rendiamo conto che una parte importante di questo PIL è solo vapore acqueo. La guerra ci riporta all’economia reale, rende possibile capire quale sia la vera ricchezza delle nazioni, la capacità produttiva e quindi la capacità di guerra. Se torniamo alle variabili materiali, vediamo l’economia russa. Nel 2014 abbiamo messo in atto le prime importanti sanzioni contro la Russia, ma essa da allora ha aumentato la sua produzione di grano, che passa da 40 a 90 milioni di tonnellate nel 2020. Mentre, grazie al neoliberismo, la produzione americana di grano, tra il 1980 e il 2020, è passata da 80 a 40 milioni di tonnellate. La Russia è anche diventata il primo esportatore di centrali nucleari. Nel 2007 gli americani hanno spiegato che il loro avversario strategico era in un tale stato di decadimento nucleare che presto gli Stati Uniti avrebbero avuto una capacità di primo colpo atomico su una Russia che non avrebbe potuto rispondere. Oggi i russi sono in superiorità nucleare con i loro missili ipersonici. La Russia ha quindi un’autentica capacità di adattamento. (…)” – così nell’intervista a Le Figaro del 12 gennaio scorso, intitolata “La terza guerra mondiale è già cominciata”, nella quale faceva rilevare tra l’altro il notevole svantaggio degli Stati Uniti sulla Russia in termini di studi di ingegneria, centrando in questo modo “il dilemma fondamentale dell’economia americana: può affrontare la concorrenza cinese solo importando forza lavoro qualificata cinese” e indiana, una risorsa che “non è sicura e già diminuisce”. Per parte nostra facciamo osservare che uno dei più lucidi strateghi dell’imperialismo statunitense, Kissinger, raccomandò a suo tempo ai capitalisti e governanti yankee: delocalizziamo tutto quel che volete, ma diamo assoluta priorità ai due fattori strategici di ultima istanza: la produzione agricola e la produzione bellica, mantenendo rigorosamente qui queste produzioni. Numeri reali alla mano, forse la Russia dell’ultimo ventennio è stata più avveduta degli Stati Uniti. – nota della redazione del Pungolo rosso]
I due aspetti: specializzazione nella produzione di armi e nell’industria spaziale, debolezza nella produzione di macchine (un quarto di quella italiana) e quindi dipendenza dall’import di mezzi di produzione esteri sono correlati, risultato di decenni di pianificazione in cui il grosso del plusvalore è stato reinvestito nella produzione bellica e spaziale, a scapito dei beni di consumo e della stessa produzione di macchine. La Russia non appare un forte esportatore di capitali (circa 400 miliardi di dollari investiti a fine 2021, secondo UNCTAD, meno dell’Italia e circa un quarto di Francia, Gran Bretagna e Svizzera); ma i dati sono molto probabilmente sottostimati perché buona parte delle esportazioni di capitali dei suoi capitalisti avviene in maniera “non ufficiale”, tramite società offshore e in direzione dei paradisi fiscali (Cipro in testa, dove nel 2020 soggetti russi avrebbero investito ben 190 miliardi, una mini-nazione che paradossalmente risulta avere la stessa quantità di investimenti esteri della Russia). Dalle statistiche del Fondo Monetario Internazionale risulta comunque una posizione attiva della Russia per 483 miliardi di dollari negli investimenti esteri, anche se gli investimenti diretti esteri in Russia a fine 2021 (610 miliardi di dollari) superavano gli investimenti diretti russi all’estero (487 miliardi). Con le sanzioni e i disinvestimenti delle multinazionali in Russia c’è da aspettarsi che questi conti abbiano subito cambiamenti significativi nel corso del 2022. In ogni caso, non vi è una dipendenza a senso unico.
[In un saggio lungo, ricco di dati, ma molto contraddittorio (e del tutto scentrato sulla questione agricola), pubblicato in due puntate su “Revolutionary Democracy” nel settembre 2020 e nell’aprile 2021, il nostalgico dell’URSS Rafael Martinez polemizza con il neo-liberismo putiniano osservando come siano del tutto insufficienti, e mal direzionati, gli investimenti interni, a fronte invece di considerevoli investimenti esteri (nel 2008 la Russia è stata il primo investitore nei ‘paesi emergenti’). E nota come nel decennio 2009-2019 l’apparato statale abbia consentito impunemente una massiccia fuga di capitali all’estero superiore a quella del triste periodo yeltsiniano, stimabile in 50 miliardi di dollari l’anno in media a fronte dei 20 miliardi degli anni ’90 (sono finiti tutti in ville e yatch? Improbabile assai.). In questo stesso periodo il numero di milionari in dollari di cittadinanza russa è letteralmente esploso da 12.000 a 246.000, e la centralizzazione del capitale nelle mani delle grandi imprese a scapito delle piccole-medie imprese ha fatto grandi passi in avanti. Almeno 30 grandi imprese russe, monopoliste o oligopoliste nel mercato nazionale, sono diventate a tutti gli effetti società transnazionali (oltre la Gazprom, Evras, Lukoil, Mechel, TMK, Severstal, etc.), e purtroppo, secondo Martinez, “la maggior parte dei profitti realizzati attraverso le esportazioni sono investiti all’estero anziché all’interno. Particolari sforzi di investimento sono fatti in mercati neri paesi in via di sviluppo e a medio reddito. Detto questo, sembra che uno degli obiettivi finali sia partecipare ai mercati finanziari dei paesi sviluppati”. Del resto la Russia è arrivata a detenere più di 100 miliardi di buoni del tesoro statunitensi, e i suoi miliardari non sono certamente assenti dalle borse occidentali. Interessante è anche un’osservazione politica di Martinez secondo cui Putin “alletta la popolazione russa ripristinando consapevolmente parte del simbolismo sovietico come mezzo per nascondere l’essenza neo-liberista delle sue politiche economiche”. – Nota della redazione del Pungolo rosso].
Infine, la presenza militare russa all’estero, con basi militari in Armenia, Bielorussia, Abkhasia e Sud Ossezia (Georgia), Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan, Transnistria (Moldova), Siria, e una significativa presenza di truppe in Libia, Mali, Repubblica Centrafricana, e di “consiglieri militari” in Vietnam, Eritrea, Madagascar, Venezuela e accordi di condivisione di basi con Egitto, Sudan. Una proiezione militare che evidentemente non regge il confronto con la superpotenza americana, ma è superiore a quella degli altri imperialismi, forse alla pari solo con la Gran Bretagna e la Francia, e che al “vicino estero” ex URSS aggiunge una più recente penetrazione in Africa. Una presenza, quest’ultima, volta a contendere l’influenza alle vecchie potenze coloniali, tra cui Francia e Italia, e a mettere le mani su importanti risorse minerarie quali uranio e bauxite, oltre agli idrocarburi, non certo a sostenere lotte di indipendenza nazionale contro il neocolonialismo. La Cina, che ha molti più strumenti di penetrazione economica (finanziamento e costruzione di infrastrutture, fabbriche, oltre ai beni di consumo) può vedere la penetrazione militare russa come apertura di territori alla propria penetrazione, contro le resistenze opposte dalle potenze (neo)coloniali europee.
GLI IMMIGRATI ASIATICI
Si stima che vi siano in Russia circa 6 milioni di immigrati, in grande maggioranza provenienti dalle repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale: Uzbekistan, Tajikistan, Kirgizistan, con una notevole oscillazione stagionale, mentre è diminuita l’immigrazione da Cina, Vietnam, Nord Corea e Serbia (nel 2007 si sarebbe raggiunto il picco di 7 milioni di immigrati). Fino al 2014 c’erano anche 1,5 milioni di ucraini, poi in gran parte defluiti verso la UE. A questa immigrazione dall’esterno si aggiunge una migrazione interna di circa altri 4 milioni, agevolata dal passaggio alla copertura sanitaria nazionale (da provinciale), mentre gli immigrati “stranieri” devono pagare tutto.
L’immigrazione, come in Italia, va a coprire un crescente deficit di forza lavoro dovuto al costante declino demografico (a metà anni ’20 si saranno persi circa 10 milioni di forze lavoro rispetto al 2007), e i posti di lavoro più umili e pesanti: dalle badanti (quasi tutte in nero) all’edilizia (con circa il 50% di lavoro nero), le guardie e i trasporti, regolari, ma che con orari di lavoro più lunghi dei russi. Nel 2010 è stata introdotta la patenty, come tassa sui lavoratori domestici stranieri, che si presume siano in nero, inizialmente pari a 1.100-1.200 rubli al mese (nel 2014 ne sono state emesse 2,4 milioni). In seguito la patenty è stata resa obbligatoria per tutti gli stranieri assunti da imprese, e a Mosca era pari a 4.500 rubli (circa 70 dollari) al mese. A questa si aggiunge una tassa di ingresso di 16-18 mila rubli.
La pratica diffusa di non registrare gli affitti rende spesso difficile la regolarizzazione, essendo la disponibilità di un alloggio un prerequisito. Vi è un forte disciplinamento dell’immigrazione: alla seconda infrazione, anche solo amministrativa (come l’attraversare col rosso), l’immigrato non può più rientrare in Russia. Come si può immaginare, ciò costituisce una fonte di arricchimento e corruzione per chi ha potere sugli immigrati. Il 70% delle multe per irregolarità dell’immigrazione è pagato in nero ai poliziotti12. Non vi sono regole precise per ottenere il permesso di residenza di lungo periodo (con l’immaginabile arbitrarietà delle decisioni). In sua mancanza, il periodo massimo di permanenza legale in Russia è di un anno. Molti in realtà restano clandestinamente, ma devono spesso accettare condizioni schiavistiche. Dall’enorme divaricazione dei dati ufficiali sul numero di immigrati (al 2019 sarebbero 4,9 milioni secondo il Servizio Statistico russo, 32,6 milioni secondo i Servizi di Sicurezza!) traspare comunque un forte numero di immigrati irregolari che, privi di protezioni legali, sono esposti al super-sfruttamento da parte di profittatori e caporali. Tutto il mondo capitalista è paese. Nel 2005 una sanatoria in 9 regioni ha fatto emergere solo 7 mila irregolari.
Tra il gennaio e il settembre 2021 sono entrati in Russia 2 milioni di tajiki, di cui 1,6 milioni in cerca di lavoro, pari a un quarto delle forze lavoro tagike. Le rimesse degli emigrati tagiki nel 2019 sono state pari a 2,6miliardi di dollari, pari al 28% del PIL del Tajikistan e a 3 volte il suo export. Dall’Uzbekistan sono immigrati in Russia nello stesso periodo 3,3 milioni di persone, ma su una popolazione molto maggiore. Dati che indicano la fortissima dipendenza di queste repubbliche dall’emigrazione in Russia, e il loro ruolo di fornitrici di manodopera stagionale alla Russia. Se pensiamo che per 70 anni Uzbekistan e Tajikistan sono state repubbliche dell’URSS, ci rendiamo conto degli enormi squilibri che il “socialismo reale” non ha sanato rispetto alla “prigione di popoli” zarista. Secondo l’International Labour Office, il salario medio in Tajikistan è di 13 dollari al mese, contro i 200 dollari che i suoi emigranti guadagnano in Russia.
Secondo una indagine dell’ILO del 2004, meno di 1 immigrato su 4 aveva un permesso di lavoro, meno di 1 su 5 aveva un contratto di lavoro scritto e 3 su 4 ricevevano il salario in nero, in contanti. Inoltre: il 62% era costretto a effettuare straordinari non pagati, il 44% denunciava ritmi/carichi di lavoro troppo intensi, il 39% ritardi nel pagamento del salario, il 38% era costretto a svolgere lavori non concordati, il 22% delle donne era costretto a prestazioni sessuali, il 21% era sottoposto a forme di violenza, il 20% a forme di restrizione negli spostamenti, e oltre il 20% aveva il passaporto ritirato dal padrone. Solo il 37% ha affermato di essere libero di lasciare il padrone.
Condizioni queste che rivelano una società fortemente corrotta dal capitalismo, con le sue escrescenze di mafie e caporali, dove il razzismo imperiale grande russo, fustigato da Lenin ma mai sopito sotto Stalin e successori, e rilanciato da Putin, crea un ambiente ideologico e psicologico, oltre che legale e politico, funzionale allo sfruttamento senza freni e all’umiliazione di milioni di immigrati – come nelle campagne del Sud e in laboratori, magazzini e ristoranti del Nord in Italia, come nelle monarchie razziste del Golfo. Razzismo e xenofobia sono diffusi in Russia, fomentati dalle ideologie nazionaliste e imperiali promosse dall’entourage putiniano, anche tra i pubblici ufficiali, non di rado legati alla criminalità.
Note
1 https://eng.rosstat.gov.ru/Publications/document/74811; ora è disponibile anche l’edizione 2021: https://gks.ru/bgd/regl/b21_13/Main.htm
2 I lavoratori in proprio non hanno presumibilmente redditi pro capite molto superiori ai lavoratori dipendenti, quindi intorno al 3% del PIL.
3 https://www.largescaleagriculture.com/home/news-details/top-10-russias-largest-agricultural-landholders-2018/
4 https://www.ilo.org/ilostat-files/Documents/Excel/INDICATOR/EAR_4HRL_SEX_OCU_CUR_NB_A_EN.xlsx
5 Calcolo a parità di potere d’acquisto, con un rapporto di 32,4 rubli per 1 euro nel 2017
6 Ad es.: «Новая газета Европа» изучила почти 10 тысяч постов в ВК о пропавших российских военных В среднем солдаты пропадают через 60 дней после отправки на фронт. Некоторых ищут месяцами — Meduza; https://www.irishtimes.com/world/europe/2022/07/27/no-body-means-no-money-ukrainian-official-accuses-russians-of-abandoning-dead-soldiers/; https://www.ukrinform.net/rubric-ato/3479187-russian-army-files-most-of-its-kias-as-missing-not-to-pay-families-compensation.html
7 Il rapporto tra il reddito del 90° percentile e quello del 10° percentile scende negli USA a 8,9 al netto delle imposte, e a 6,1 se calcolato su base equivalente (tenendo conto del numero di componenti delle famiglie).
8 Filip Novokmet, Thomas Piketty, Gabriel Zucman, From Soviets to Oligarchs: Inequality and Property in Russia 1905-2016, luglio 2017.
9 Ibidem
10 Si legge questo in Lutte de classe, n. 225, luglio-agosto 2022, il giornale dell’organizzazione trotskista Lutte Ouvrière.
11 Vedi Punti di forza e debolezze dell’imperialismo russo, Pagine marxiste #51 https://www.combat-coc.org/punti-di-forza-e-debolezze-dellimperialismo-russo/
12 Studio dell’ILO sull’immigrazione in Russia.