Cobas

[FINCANTIERI] Un progetto padronale lungo 20 anni è andato in porto. E questo pone nuovi compiti di lotta e di organizzazione.

Con l’acquisto dei Chantiers de l’Atlantique di Saint-Nazaire (in Francia) e gli accordi con la China State Building Corporation per la costruzione in Cina di navi da crociera per il mercato cinese, Bono&Co. hanno portato a termine con successo un piano di sviluppo della Fincantieri di lungo corso, che ha rafforzato l’azienda facendone una vera impresa transnazionale nel settore cantieristico, civile e militare, anzi “il principale costruttore navale occidentale”. Bisogna prenderne atto. Le direzioni di Fiom-Fim-Uilm lo fanno per applaudire calorosamente il boss, spargere tra i lavoratori altro veleno aziendalista e formulare richieste ultra-nazionaliste (i cantieri italiani e il lavoro di qualità italiano prima di tutto!). Anche noi ne prendiamo atto. Ma convinti come siamo che Fincantieri è andata avanti solo perché è riuscita a ricacciare indietro la condizione e l’organizzazione operaia nei suoi cantieri, lo facciamo per proporre ad altri compagni e lavoratori, in Italia e fuori dall’Italia, il lavoro da svolgere insieme per la ripresa e l’internazionalizzazione dell’organizzazione e della lotta operaia contro il padrone-Fincantieri, divenuto più arrogante che mai, e contro l’internazionale del capitale, di cui è parte.

Il progetto iniziale dell’azienda, formulato negli anni di crisi, era in realtà molto diverso da quello che, strada facendo, è venuto fuori. Ma l’orientamento iniziale di accettare il ridimensionamento dell’azienda, con la chiusura di due o addirittura tre cantieri in Italia, ha poi lasciato il posto alla politica del “presidio” di tutte le richieste provenienti dal mercato, sicché Fincantieri, con l’aiuto determinante dello stato, ha preferito tagliare alcune migliaia di posti di lavoro, mantenendo però, per ora, attivi tutti i suoi siti produttivi in Italia. Questa scelta strategica – “presidiare” tutti i segmenti della produzione navalmeccanica, dalle navi extra-lusso ai sommergibili – ha portato anche, in seguito, all’acquisizione, con alterna fortuna, di cantieri e produzioni in tutti i continenti, esclusa per ora solo l’Africa. Anche l’acquisto dei grandi cantieri francesi di Saint-Nazaire rientra in questa strategia.

La politica industriale di Fincantieri è mutata nel momento in cui il gruppo ha intuito che il comparto della cantieristica, dato per maturo o addirittura decotto, aveva invece importanti prospettive produttive, anche come indotto. E ha compreso che, per cogliere al meglio le opportunità alla scala mondiale, era decisivo costruire rapporti privilegiati con due paesi della massima importanza come la Cina e gli Stati Uniti, e puntare sullo sviluppo del comparto militare in Italia e all’estero. Esattamente quello che Bono&Co. sono riusciti a fare negli ultimi cinque-sei anni. Ma procediamo con ordine.

Taglio, in due tempi, dei dipendenti diretti, ed esplosione degli appalti

Dagli anni ’90 fino ai primi anni 2000 la richiesta di navi da crociera e traghetti (in minor misura di navi militari) è aumentata enormemente. Ed è appunto in questo periodo che Fincantieri ha deciso di entrare nella produzione di navi da crociera, diventandone il primo produttore nel mondo. Dopo il lungo periodo di boom, ci sono stati diversi anni di crisi o di scarso lavoro. In quegli anni il management dell’azienda ha effettuato una prima operazione di riduzione dei dipendenti diretti, d’accordo con le dirigenze di Fim-Fiom-Uilm. È iniziato allora lo scontro tra le dirigenze sindacali disposte alla collaborazione con l’azienda – la maggioranza delle Rsu e le strutture sindacali esterne ai cantieri – e i pochi compagni che si sono opposti a queste politiche. Questi compagni (delegati e non, appartenenti alla sinistra della FIOM) erano purtroppo quasi tutti concentrati nel sito di Marghera. Vedevano nell’accordo per tagliare i posti di lavoro il primo passo, da parte delle dirigenze sindacali, della loro progressiva sottomissione all’ideologia dell’aziendalismo.

Prendiamo, come esempio, il cantiere di Marghera: il sindacato aveva sottoscritto un accordo in base al quale il cantiere doveva attestarsi a 1.550 lavoratori diretti. La cifra non era stata formulata a caso: significava che qualsiasi produzione fatta in cantiere sarebbe stata suddivisa quasi al 50% tra lavoratori diretti e lavoratori degli appalti. Sul piano pratico ciò avrebbe consentito di intervenire da una posizione di maggiore forza, fianco a fianco con loro, sulle condizioni di lavoro e di salute dei lavoratori delle ditte di appalto, favorendo la loro attivizzazione e sindacalizzazione. In quel periodo erano ancora presenti all’interno dei siti produttivi alcune ditte di appalto sindacalizzate. Nell’accordo aziendale che venne stipulato all’inizio degli anni 2000, invece, anche la Fiom accettò di togliere il tetto di riferimento per le maestranze dirette. Ciò determinò nell’arco di alcuni anni l’accesso in produzione di centinaia di lavoratori degli appalti in più. Risultato: oggi a Marghera ci sono 1.020 dipendenti diretti (di cui 547 operai) e, a seconda dei periodi, da 1.000 a 3.000 lavoratori degli appalti. Questa politica, con numeri a volte ancora più importanti, è stata estesa a tutti i cantieri del gruppo. In questo modo, nell’arco di alcuni anni, Fincantieri ha tagliato una quota dei suoi lavoratori diretti, sostituendoli con lavoratori degli appalti.

Un secondo momento di riduzione dei dipendenti diretti si è realizzato con il ricorso alla cassa integrazione guadagni dal 2010 al 2014, a cui l’azienda ha affiancato il percorso di fuoriuscita di centinaia di lavoratori grazie alla “mobilità volontaria” – nel 2009 Fincantieri aveva in Italia 10.530 dipendenti diretti, a fine 2013 li aveva ridotti a 7.735 (ora sono circa 7.900). Questa seconda operazione ha permesso a Fincantieri di essere una delle poche aziende che ha ristrutturato senza creare apparentemente tensioni sociali. L’azienda, così facendo, ha ottenuto la riduzione dei costi di produzione (i lavoratori degli appalti, si sa, hanno salari inferiori a quelli dei dipendenti diretti), l’aumento, nel tempo, della intensità e produttività del lavoro, e dei profitti, tramite l’allungamento degli orari di lavoro (sei giorni la settimana è il minimo per quasi tutti i lavoratori delle ditte in appalto), e – cosa non meno importante – la riduzione delle rivendicazioni politiche e sindacali collettive attraverso il taglio del nucleo operaio più stabile e sindacalizzato.

In più, con il progressivo taglio dei dipendenti diretti, nella quasi totalità lavoratori italiani, l’azienda è riuscita a spezzare il legame profondo, e sentito, tra i lavoratori dei cantieri e le città in cui i cantieri sorgono, che era stato per decenni di grande importanza per le lotte. Con l’entrata in massa nei cantieri di centinaia e migliaia di lavoratori immigrati provenienti dall’est Europa, sloveni, croati, rumeni, russi, dal Bangladesh, dal Portogallo, dall’America latina, e sempre più anche dal Mezzogiorno, questo legame si è andato via via riducendo al minimo. La partecipazione alle sorti dei singoli cantieri non è più sentita come un fattore che richiama immediatamente alla solidarietà tra i lavoratori dei cantieri e la popolazione lavoratrice delle città dei cantieri (Monfalcone, Marghera, Ancona, Palermo, Genova, Castellammare di Stabia). Anzi in qualche caso, come a Monfalcone, ha portato settori della popolazione influenzati dalla squallida demagogia leghista a porsi contro il cantiere, “che ci sommerge di stranieri” (da novembre 2016 governa Monfalcone una giunta della Lega). Certo, fortunatamente molte nazionalità di lavoratori immigrati stanno mettendo radici nelle città dei cantieri, e già si vede la loro seconda generazione. Sono quasi tutti inseriti, però, nelle ditte di appalto, e vivono in una condizione di precarietà perché le ditte, in caso di crisi, spostano il lavoro in altri paesi, o spesso chiudono per fallimento in quanto hanno ragione d’esistere esclusivamente con le commesse di Fincantieri.

Acquisizioni all’estero e grandi aiuti di stato

Mentre portavano a termine questa grande modifica della composizione operaia e dell’organizzazione del lavoro nei cantieri italiani, Bono&Co. mettevano a punto, grazie al miglioramento della profittabilità in Italia, una ambiziosa strategia di sviluppo all’estero. Che ha preso corpo e velocità, progressivamente, negli ultimissimi anni, con l’acquisizione di imprese europee che volevano entrare nel mercato crocieristico, con l’acquisto (a dicembre 2012) dei rami della coreana Stx specializzati nell’offshore (navi a supporto delle piattaforme petrolifere) con cantieri in Romania, Vietnam, Brasile, e la recente acquisizione dei Chantiers de l’Atlantique. La ripresa della politica di riarmo in Europa, e soprattutto in paesi come Arabia Saudita, Qatar, Australia, etc., ha portato nuove e lucrosissime commesse militari, con ulteriori mega-trattative in corso per 20-25 miliardi di euro.

Inoltre Fincantieri ha saputo sfruttare al meglio il proprio rapporto privilegiato con il cartello degli armatori statunitensi guidato da Carnival, riuscendo ad entrare, suo tramite, nel mercato futuro della croceristica di lusso cinese, svincolandosi dall’avere il cartello statunitense come solo committente. Quest’unione biunivoca aveva garantito a Fincantieri una continuità lavorativa negli anni, essendo la Carnival il primo committente per Fincantieri, ma aveva creato grandi problemi come il dover acquisire navi in tempi sempre più brevi, a costi fissi o addirittura, a causa delle continue modifiche progettuali che per accordo non venivano pagate, inferiori, che non permettevano al gruppo di assicurarsi una sufficiente quantità di profitti dalla costruzione delle navi da crociera – che restava comunque la sua prima specializzazione. Attraverso gli accordi conclusi con la China State Shipbuilding Corporation (tra il novembre 2014 e la primavera 2017) ed altre intese negli stessi Stati Uniti, la Fincantieri si è rafforzata anche nei confronti del super-committente Carnival, dal momento che nel suo attuale “portafoglio-ordini” di 24 miliardi di euro (che raddoppierà se andranno in porto altre grosse commesse militari), l’impresa statunitense ha sempre una parte importante, ma decisamente minore di un tempo.

Fincantieri ha potuto spingersi così fortemente e aggressivamente verso il mercato mondiale, impiantandosi in 4 continenti, con il 59% dei suoi 19.200 dipendenti a fine 2016 dislocati all’estero (conteggiando anche Saint-Nazaire sfiorano i 22.000) e l’84% dei suoi profitti realizzati all’estero, grazie ad un duplice aiuto: il sostegno incondizionato dello stato, e la collaborazione sempre più attiva delle dirigenze sindacali.

Fincantieri ha molto beneficiato, infatti, oltre che di una grande quantità di fondi per la cassa integrazione, delle leggi prodotte dai governi Berlusconi, dai governi di “centro-sinistra”, dai cosiddetti “governi tecnici” e dal governo Renzi, che hanno spinto tutti nella stessa direzione: aumento della produttività e maggiore libertà per le imprese di disporre dei lavoratori, con un radicale cambiamento nel diritto del lavoro e nella interpretazione delle norme sul lavoro. L’azione forse più importante portata avanti da questi governi in combutta con le associazioni padronali è stato l’attacco frontale, la demonizzazione delle strutture e dell’attività sindacale in quanto tali, che ha prodotto una crescente disorganizzazione dei lavoratori e della classe lavoratrice. Un’azione finalizzata a dimostrare l’inutilità dell’organizzazione e della lotta, “tanto tutto è già prestabilito”; anzi la pericolosità della lotta, “perché se l’azienda va male a causa degli scioperi, a perderci sono per primi i lavoratori”. Questi governi hanno anche, progressivamente, gettato in un fosso la concertazione (già sterilizzata da anni nella realtà), abolendo via via i tavoli di discussione con i sindacati. Questa azione è stata replicata a livello aziendale. Le aziende, inclusa Fincantieri, si sono sentite spalleggiate in pieno dai governi nella loro politica di attacco ai lavoratori fatta di decisioni unilaterali, che si è formalizzata, grazie all’impotenza e alla corresponsabilità di Cgil-Cisl-Uil, negli ultimi pessimi contratti nazionali ed integrativi dei grandi gruppi.

L’ultra-aziendalismo di Fim e Uilm

Questo è stato possibile, dentro gli stabilimenti Fincantieri (e non solo), grazie alla definitiva abiura da parte di Fiom-Fim-Uilm (in linea con le tre centrali sindacali) di una politica che puntasse a una qualche forma di difesa attiva del valore della forza-lavoro e di ‘redistribuzione’.

Abbiamo messo insieme Fiom-Fim-Uilm, ma sulla Fiom va fatto, per oggettività, un ragionamento specifico. Per dieci anni la Fiom è stata estromessa dai tavoli delle trattative in quanto contraria ai contratti nazionali peggiorativi, e ha cercato di porre in qualche modo rimedio a ciò con la politica delle lotte pre-contrattuali, puntando ad ottenere a livello aziendale quello che non si voleva discutere a livello nazionale. Questa azione ha prodotto per qualche anno dei tangibili risultati per gli operai e gli impiegati delle aziende esportatrici in maggiore salute. E per diversi anni anche la Fincantieri è stata un terreno di lotte aziendali aspre, con Fim e Uilm sempre sistematicamente contrapposte alle piattaforme e alle azioni di lotta della Fiom – salvo la partecipazione agli scioperi di una parte dei loro iscritti.

Ma questa iniziativa della Fiom è andata progressivamente indebolendosi, fino ad esaurirsi del tutto. Per diverse ragioni. Gli accordi separati a livello nazionale sono stati sempre più favorevoli alle imprese, soprattutto per l’atteggiamento ultra-aziendalista della Fim e la sua avversione totale alla Fiom ed alle sue rivendicazioni, anche se e quando appoggiate dalla maggioranza dei lavoratori. Nel tempo, la tenuta del quadro sindacale di base sui luoghi di lavoro è diventata sempre più complicata, non solo per le divisioni politiche e ideologiche tra i delegati, ma anche perché Fim e Uilm si sono legate al padronato con una vera e propria attiva complicità (com’era negli intenti del ministro Sacconi ai tempi del primo governo Berlusconi). Da parte sua la Fiom, pur continuando a presentarsi come sindacato conflittuale, non ha dato alle sue iniziative una reale continuità e grinta, accettando progressivamente di ridurre al minimo, ed infine a zero, le iniziative di lotta a livello nazionale che sono quelle decisive per impedire lo sfilacciamento e la disorganizzazione della forza operaia. Una politica di aggressione alla classe operaia (e all’intero campo del lavoro salariato) che è nazionale e internazionale, non può essere contrastata efficacemente a livello delle singole aziende o dei singoli gruppi industriali.

La situazione è evoluta in modo ancora più favorevole al padronato con l’entrata in campo della politica e della pratica della Fiat (FCA) varata da Marchionne. Che ha colpito le strutture sindacali della Fiom, è uscito da Confindustria e ha imposto un accordo aziendale su misura, licenziando e marginalizzando brutalmente i lavoratori e delegati più combattivi, e riuscendo, attraverso questa azione di divisione dei lavoratori, a far fallire gli scioperi di protesta. Questa linea di condotta è stata seguita anche dalla Fincantieri, seppure in modo meno violento, e ha mostrato che era maturo il momento di cancellare, in un modo o nell’altro, la diversità sindacale incarnata dalla Fiom. Diversità, teniamo a precisare, che non ci fa vedere la Fiom come un sindacato di classe, quale non è mai stato, così come non lo è stata la Cgil – qualunque cosa vogliano raccontare a sé stessi e ai propri iscritti sulla Cgil di Di Vittorio gli stalinisti nostalgici che guidano Usb. Parliamo di diversità in riferimento all’attitudine conflittuale che indubbiamente la Fiom ha conservato, in parte, anche dopo la famigerata “svolta dell’Eur” del 1978. È questa la diversità che Marchionne ha colpito, e che è poi progressivamente scomparsa anche per decisione dei dirigenti Fiom, che – alla fine – sono stati riammessi alle “trattative” proprio in conseguenza di questa scomparsa. Solo che, nel momento in cui sono stati riammessi, c’era una contrattazione di nuovo tipo: quella in cui a presentare piattaforme rivendicative sono i capitalisti, non le rappresentanze dei lavoratori. Vediamo in seguito come e quando la Fiom, anche in Fincantieri, ha cessato di svolgere una attività conflittuale. Prima va esaminato come si è mossa in proprio, cioè senza ricorrere al coinvolgimento dei sindacati, la Fincantieri.

Un’abile “politica del personale”, al 100% anti-operaia

Muovendosi nella stessa direzione di Fiat-FCA, solo in modo più soft e graduale, la Fincantieri è riuscita nell’arco di alcuni anni a segnare dei punti importanti a suo favore. Ci è riuscita costruendo in tutti i cantieri una propria struttura ‘allargata’, una sorta di spina dorsale che parte dalla alta dirigenza e arriva fino all’ultimo impiegato passando per quegli operai che sono stati promossi a mansioni migliori – negli ultimi 3 anni oltre 200 operai sono diventati sovrintendenti. Questo, al momento, ha creato nei cantieri un gruppo relativamente esteso, controllato direttamente dall’azienda, di soggetti che costituiscono, nei fatti, un gruppo a sé, e creano un solido diaframma che si frappone ai rapporti tra i dipendenti diretti e i lavoratori degli appalti, e all’unità tra i diversi cantieri del gruppo. Di questo gruppo a sé fa parte anche qualche centinaio di capi-cantiere delle ditte di appalto assunti come dipendenti diretti con contratti estremamente favorevoli e inquadramenti molto alti, superminimi dai 300 ai 500 euro al mese, la possibilità di gestirsi autonomamente le ore lavorative, e soprattutto, per molti di loro, di continuare a gestire gli interessi delle ditte di origine.

Fincantieri ha anche profittato delle politiche del padronato, sostenute dai vari governi, di detassazione del salario aziendale rendendolo più interessante per le aziende e forzando i lavoratori ad accettare l’aumento dello straordinario. Ha beneficiato, poi, del taglio del cuneo fiscale e della detassazione degli investimenti. Il governo e la stampa padronale, assieme agli intellettuali anche di sinistra, quotidianamente bombardano i lavoratori con la necessità di aumentare la produttività e la “qualità del lavoro” (?), di non vedere più nel posto fisso un mezzo per organizzare la propria vita sociale e affettiva, e diventare flessibili, disponibili a qualsiasi lavoro, accettando momenti di super lavoro alternati a momenti di disoccupazione. Di accettare, in sostanza, la riduzione del valore della loro forza-lavoro e rendersi conto che sono solo ingranaggi atti a far ottenere ai padroni il profitto che essi hanno preventivato. Senza disturbare il manovratore.

Questa martellante propaganda anti-operaia ha spianato un’autostrada a contratti collettivi di lavoro a perdere delle diverse categorie produttive, tramite l’accettazione di deroghe alle leggi e alle norme sugli orari di lavoro, la restituzione di giorni di ferie e di permesso, la riduzione dei salari (o aumenti risibili), la restrizioni delle norme per l’assistenza ai parenti, etc. In più, il taglio feroce degli “ammortizzatori sociali” (CIG, CIGS, mobilità, contratti di solidarietà) ha reso sempre più ridotto il tempo di “tutela” dei lavoratori espulsi dai processi produttivi. Quest’azione ha imposto ai lavoratori, come riflesso sociale voluto, di non essere ostili alla “propria” impresa se non si vuol essere tra i primi a subire le ristrutturazioni o i ricollocamenti in altre sedi. La legge sui voucher, assieme alle miriadi di contratti sempre più flessibili, è l’ultimo passaggio delle politiche di precarizzazione che una larghissima parte dei lavoratori è stata in questi decenni costretta a subire.

L’abolizione dell’articolo 18 operata dal governo Renzi, in una realtà produttiva come quella italiana fatta da micro e piccole aziende e con una delocalizzazione molto spinta, è stato il regalo finale più importante perché permette, assieme alla politica delle esternalizzazioni e delle cessioni di rami d’azienda, di rendere interamente ricattabile l’intero campo del lavoro salariato. E consente di legare sempre più il lavoratore alle sorti dell’azienda passando ad un mercato del lavoro, in prospettiva, senza alcuna tutela di diritto per la gran parte degli operai e dei salariati.

La Fincantieri ha capitalizzato l’effetto sui lavoratori di questa valanga di provvedimenti anti-operai e di propaganda anti-operaia. L’ha fatto puntando ad avere contratti per i dipendenti diretti che allunghino l’orario di lavoro, introducendo la settimana di 40 ore per 6 giorni lavorativi, l’orario plurisettimanale, una netta riduzionte dei salari, e un salario sempre più legato ai margini di redditività che la stessa azienda si dà, unilateralmente, come obiettivo. In più, prima di iniziare l’attacco sul 6×6, la Fincantieri aveva disdetto gli accordi aziendali, facendo perdere alle maestranze dai 1.500 ai 3.000 euro all’anno. Queste ed altre norme sulla flessibilità degli orari permettono alla direzione, salvo avviso non vincolante alle r.s.u., di cambiare a propria totale discrezione gli orari di lavoro dei dipendenti.

La lotta contro il 6×6

La resistenza operaia a questa ininterrotta aggressione ventennale sui livelli di occupazione, sulle condizioni di lavoro, sui salari, sugli orari, sull’agibilità politica e sindacale è stata, nell’insieme, debole, insufficiente, ma c’è stata.

Scioperi, manifestazioni e vere lotte contro queste modifiche all’organizzazione del lavoro si sono avute in diversi cantieri. Di contro, la mortifera prassi sindacale di non portare avanti le lotte in modo collettivo e unitario, in nome “dell’accordo e del riconoscimento come struttura sindacale responsabile e trattante”, ha portato ad accettare, cantiere per cantiere, queste nuove condizioni peggiorative, e a farle approvare dai lavoratori al momento del voto. Va ricordato che quando a Castellammare di Stabia l’azienda concentrò tutta la sua forza per far passare gli accordi conosciuti come accordi del 6×6 (siamo all’inizio del 2013), gli accordi di massima erano già stati definiti in precedenza con le strutture sindacali nazionali. Non a caso fu scelto quel cantiere, che veniva da anni di cassa integrazione. Eppure quando si andò al voto, la vittoria del sì non fu schiacciante (il no ottenne il 32%). Anche la dirigenza della Fiom aveva accettato la resa, e costrinse la rappresentanza aziendale Fiom a spaccarsi in favorevoli e contrari. La vicenda Fincantieri era di diretta pertinenza del segretario nazionale Landini, che manovrava un suo pupazzetto di nome Pagano (ora in carriera sindacale all’interno di Finmeccanica). La stessa sorte toccò successivamente a Sestri, dove in più ci fu l’aggravante che un’organizzazione come Lotta (?) Comunista (?) non fece nulla di concreto per opporsi: né lotta, né – tanto meno – comunista.

I compagni di Marghera, assieme ai compagni del “Cuneo rosso” e del Pcl che avevano abbracciato questa lotta vedendone, giustamente, un momento importante di resistenza dei lavoratori all’attacco dell’azienda, agirono per bloccare l’accordo di Castellammare perché da quella realtà l’accordo sarebbe stato esteso a tutti i cantieri. Come poi è regolarmente accaduto, tramite accordi siglati a Sestri, Palermo, Monfalcone, Ancona e, infine, Marghera. A Marghera l’Rsu che diresse la lotta contro l’introduzione del 6×6 nel giugno-agosto 2013 era una minoranza all’interno della minoranza Fiom, a cui si erano sottomessi anche i delegati di Fim e Uilm senza però mai partecipare alle lotte stesse. In quella occasione i segretari provinciale e regionale Fiom e lo stesso Landini, in un incontro a Padova, spinsero per non iniziare la lotta. E quando la lotta partì, il segretario nazionale della Fiom non diede nessun supporto alla decisione, né fece assolutamente nulla per rimettere in discussione gli accordi firmati in precedenza.

Nonostante i nostri sforzi e i primi contatti diretti, assai difficili, con gli altri cantieri, la Fincantieri riuscì a mantenere divisi i cantieri, ricattando i lavoratori, compiendo trasferimenti coatti di delegati e lavoratori combattivi, licenziando lavoratori (anche se quasi sempre perdendo le cause e dovendoli riassorbire), denunciando i lavoratori partecipanti ai picchetti di sciopero. In questa occasione la Fincantieri, per la prima volta, ha schierato anche la sua polizia privata e chiesto l’intervento della questura per obbligare i lavoratori, soprattutto degli appalti, a non aderire agli scioperi, e per tentare di sbaragliare il picchetto dei delegati e lavoratori del cantiere. Non ottenendo quanto sperato, a Marghera i dirigenti del cantiere dovettero impegnarsi di persona ad accompagnare al lavoro, sotto il controllo della celere, i capi cantiere e le maestranze di alcune ditte. Le organizzazioni sindacali d’altro canto, sempre divise, hanno dovuto seguire la volontà di lotta dei lavoratori ma solo fino a quando questi sono riusciti, per un tempo limitato, a imporre un’azione diretta ed energica.

La Fiom si allinea a Fim-Uilm

Per quanto riguarda la dirigenza Fiom, essa ha, nei fatti, abbracciato l’orizzonte aziendalista dell’impresa accettando lo scontro, prima reale e poi soltanto figurato, cantiere per cantiere, anziché organizzare un’azione comune che mettesse assieme simultaneamente tutti i cantieri e le esigenze dei lavoratori diretti con quelle degli operai delle ditte d’appalto. Già in passato, quando avevamo provato a fare azioni comuni continuative tra i diversi cantieri, c’erano stati problemi. Anzitutto per il solco sempre maggiore tra lavoratori Fincantieri e degli appalti (basta dire che fino a quando è esistito, il premio di produzione era erogato solo ai lavoratori diretti, benché la gran parte della costruzione e dell’arredo delle navi è opera dei lavoratori degli appalti), e per le forti divisioni tra le Rsu dei vari siti produttivi. In particolar modo le Rsu e le strutture sindacali della Liguria hanno sempre messo un freno a qualsiasi volontà di iniziativa di lotta comune. Quando è iniziata la lotta contro il 6×6, la Fiom (per non parlare delle altre strutture sindacali), non essendo contraria alla politica basata sulla flessibilità del lavoro e sulla competitività dell’azienda, non ha voluto nemmeno impostare una azione unitaria di tutti i cantieri per bloccare sul nascere la riorganizzazione della Fincantieri. Intendiamoci: non sarebbe stato facile, perché in questi decenni la paura, la passività e la sfiducia hanno messo radici tra i lavoratori, e ha messo radici anche la mentalità aziendalista – che non è un’esclusiva dei bonzi sindacali. Però vi è stata la rinuncia totale anche solo a prospettare agli operai la necessità e i vantaggi di una lotta unitaria. (Di conseguenza i nostri sforzi a Marghera e il blocco totale del cantiere per tre giorni a fine luglio 2013 hanno potuto produrre nulla più di un dignitoso compromesso provvisorio, che in seguito l’azienda è riuscita a stracciare.)

Non c’è perciò da sorprendersi se in occasione dell’acquisizione dei Chantiers de l’Atlantique la dirigenza Fiom ha emesso un comunicato ultra-nazionalista e aziendalista in cui descrive l’acquisizione di Stx France come un fattore di successo. Successo per chi? per le maestranze? perché miglioreranno le condizioni di lavoro in Francia? perché finalmente tutti i lavoratori della cantieristica, quelli diretti e quelli degli appalti (tantissimi anche a Saint-Nazaire), avranno pari salario e pari coperture normative? Ovviamente no. Eppure la Fiom si sente in obbligo, parlando ai suoi iscritti e simpatizzanti, di sostenere che i successi aziendali faranno bene ai lavoratori e alle loro prospettive di vita.

Dimentica che il successo aziendale è stato pagato in Italia con licenziamenti, ristrutturazioni, perdita di salario, operai uccisi dagli infortuni e dalle malattie contratte nei cantieri (37 morti per amianto nel solo cantiere di Palermo), misure di repressione contro i lavoratori più attivi. La presa di posizione Fiom del 7 aprile arriva addirittura a esaltare il management, quello stesso management, ben impersonato da Bono, che quotidianamente denigra i lavoratori che sarebbero in Italia, a suo dire, dei fannulloni dalla produttività irrisoria. Allo stesso tempo la Fiom, in ginocchio ormai davanti a questo mammasantissima, chiede a un’azienda internazionalizzata, a una multinazionale, di investire… dove? In Italia, ovviamente, così da proteggere il lavoro “italiano”, ovvero di continuare la politica che l’azienda non ha avuto bisogno di concordare con la Fiom: mantenere qui il know how in ricerca sviluppo, la progettazione, l’innovazione e la manifattura. I dirigenti Fiom dimenticano, anche se lo sanno perfettamente, che in Italia la nave è fatta al 70% dagli operai degli appalti, e che pezzi di nave arrivano dai cantieri della Romania, dove, stando ai “vecchi sani principi” del sindacalismo di classe, il sindacato dei paesi più potenti dovrebbe entrare in campo con la massima decisione per sostenere i lavoratori costretti in condizioni semi-schiavistiche. Ma un’azione di questo tipo è quanto di più lontano possibile dalla mente dei dirigenti sindacali, e non sarà mai fatta, per non disturbare il manovratore-capitale in quanto il dumping all’interno del gruppo crea produttività e permette flessibilità ed abbattimento dei costi per la Fincantieri. Ecco un altro aspetto, un altro effetto della deriva del nazional-produttivismo di marca sindacale: che gli operai della Romania e degli appalti (gli operai del Sud del mondo) si ammazzino pure di fatica, chi se ne frega!

Con l’ultimo contratto nazionale il padronato si è regalato una diminuzione del salario, dovendo omologare esclusivamente l’inflazione programmata ed escludendo perfino il costo delle materie prime energetiche importate. Così facendo, per la prima volta, le organizzazioni sindacali hanno accettato, sottoscrivendola, la riduzione netta dei salari. In questi accordi, per la prima volta anche nel settore metalmeccanico, si accetta la possibilità di derogare alle norme di miglior favore presenti nei contratti e l’applicazione delle norme di legge, quasi sempre peggiorative rispetto ai contratti nazionali ed aziendali. Per farla breve: si sottoscrive il primato totale delle necessità aziendali sul lavoro vivo.

L’ultimo, pessimo, accordo aziendale

Fincantieri, poi, ha portato a casa un contratto aziendale (giugno 2016), bocciato dalla maggioranza degli operai ma passato a stretta maggioranza grazie all’intervento massiccio delle strutture aziendali e al voto delle sedi di quadri e tecnici, con il supporto determinante di Fim-Fiom-Uilm. In questo caso la massa dei lavoratori ha riconosciuto in questi accordi un netto peggioramento. Ciò è avvenuto in tutte le realtà, sia quelle dove forte è stata la presenza della propaganda contraria, sia, cosa ancora più importante, nelle realtà in cui non era presente un’opposizione organizzata. Anche cantieri nei quali esisteva esclusivamente la Fiom, hanno votato in modo opposto alle indicazioni dei delegati. La stessa dinamica si è verificata con l’ultimo contratto collettivo nazionale. Ciò segnala una crescente distanza, se non una vera e propria frattura, da approfondire, tra le esigenze e le aspettative dei lavoratori e gli interessi opposti e separati delle strutture dirigenti del sindacato.

L’ultimo contratto aziendale integrativo è stato molto importante per l’azienda per due motivi: uno di ordine politico, l’altro di ordine organizzativo e produttivo.

Con esso Fincantieri ottiene la piena accettazione da parte del sindacato della logica della profittabilità e della redditività. Passa la logica di aumenti di salario (incerti nella misura) solo a fronte di un aumento (certo) del lavoro erogato. E soprattutto questo, come altri accordi nelle grandi aziende, segna un punto di svolta sulla natura del sindacato. Finalmente, e senza troppo imbarazzo, il sindacato, in particolare la Fiom (che nella propaganda televisiva fa ancora la parte di chi alza la voce), fa cadere la maschera del sindacato di lotta. Nei direttivi sindacali questo piano inclinato della politica sindacale viene reso più esplicito. Per la Fiom, questo (dei ccnl e dei contratti aziendali “di restituzione”) è un passaggio nodale, come quello del 1993: come l’accettazione della politica dei redditi cambiò la politica del sindacato, così ora i delegati sono chiamati a cambiare il loro ruolo, a confrontarsi e a saper leggere e “gestire” i bilanci aziendali. Indicativo di questo cambiamento è l’intervento del segretario Fiom di Venezia: “La crisi del periodo dei contratti separati e del periodo Bonanni [prima il lavoro e poi i diritti – chi non sottoscrive gli accordi, come la Fiom, deve essere estromessa dalla concertazione] ha indebolito i lavoratori. In dieci anni noi lavoratori, con questi contratti [al ribasso], siamo riusciti a tornare a essere firmatari e riconosciuti come interlocutori affidabili. Ora dobbiamo capire che tipo di contrattazione facciamo e dobbiamo riguardarci all’interno, perché molti di noi si sono formati nel periodo delle lotte, dei picchetti della solidarietà con altre aziende e nella lotta dei precontratti…”. Lotte, picchetti di solidarietà, precontratti? Roba di altri tempi da archiviare definitivamente. Il che significa: ostruzionismo contro la parte più combattiva dei delegati e dei lavoratori. Il nuovo corso sindacale mette di fatto al bando la lotta, e si preoccupa solo di rivendicare che la professionalità rimanga in Italia e all’interno della Fincantieri ‘storica’. Richiamo vuoto, visto che Fincantieri copre ormai quasi tutti i continenti, fatto con il solo scopo di ottenere legittimazione e acquistare credibilità agli occhi dei dirigenti vincenti. Richiamo che, però, accetta e accentua la concorrenza tra i lavoratori.

Gli ulteriori passi di Fincantieri

Dopo tutti questi passaggi favorevoli, la Fincantieri tocca con mano il suo sogno di costruire il polo europeo della cantieristica sotto il proprio controllo. Quest’operazione avviene con l’acquisizione dei cantieri francesi che permette al colosso di Trieste di avere di fatto il monopolio della cantieristica in Europa, di essere il leader nelle costruzioni crocieristiche e il quarto gruppo mondiale di produzione di navi. Macron e gli alleati italiani di Macron (Aponte di Msc) permettendo – dato che al momento sono attivi in azioni di disturbo.

Quali ulteriori passi prevede il piano industriale che è nella testa di un gruppo dirigente come questo?

Da più di venti anni l’azione di Fincantieri è tesa a spostare sempre più le sue maestranze dirette verso i servizi, lasciando quote sempre più ampie del vero lavoro produttivo ai lavoratori degli appalti. Servizi, logistica, sovrintendenza, dovrebbero essere concentrate direttamente in tutto e per tutto nelle mani di Fincantieri. Del resto, nelle discussioni, la dirigenza professa il suo amore per il modello tedesco. In realtà il modello tedesco prevede anche le esternalizzazioni e le cessioni di ramo d’azienda. La Fincantieri non ha mai esplicitato chiaramente questa possibilità, ma neppure l’ha mai negata.

Oggi l’azienda ha 20-21 siti produttivi nel mondo. La logica adottata è quella di presidiare vari settori ritenuti importanti: la crocieristica con l’acquisizione dei cantieri francesi, i cantieri in Romania e Brasile per l’off-shore, i traghetti nel Sud Italia, i refitting (le riparazioni) e il militare in Liguria ed ora anche in Francia. La realtà è andata in modo diverso. A causa delle politiche internazionali sull’estrazione del greggio, l’attività per la produzione di navi off-shore è caduta, e Fincantieri ha potuto cominciare la politica di spezzettamento delle grandi commesse. In Romania si costruiscono oggi intere parti di scafo che poi vengono assemblate a Marghera. Così facendo si riducono i tempi di lavorazione e si abbattono i costi di produzione. Fincantieri ha vitale necessità di innalzare i propri margini di profitto e diventare un’azienda nella quale investire (da luglio 2014 è quotata in borsa). Oltre ad adoperarsi per peggiorare, di fatto, le condizioni di lavoro, tramite appalti e subappalti, tramite l’allungamento dell’orario di lavoro, l’intensità delle lavorazioni, i premi aziendali sempre più legati alla reddittività complessiva aziendale e al welfare aziendale, Fincantieri spinge forsennatamente per realizzare l’interconnessione tra cantieri. Questa intenzione è stata manifestata in modo esplicito. Fino a che ogni cantiere avrà il suo carico di lavoro, difficilmente potremo vedere in modo chiaro gli effetti di questa azione, ma la possibilità di gestire le singole commesse sulla falsariga dei nuovi modelli di auto è stata più volte manifestata dal management. Per ricevere una commessa, il cantiere con le capacità logistiche più adatte dovrà essere più produttivo e profittevole degli altri.

Fincantieri guarda con il massimo interesse anche e soprattutto alle commesse che garantiscono un extra-profitto come quelle militari, dove Italia e Francia si dividono la torta all’incirca allo stesso livello tra fregate, sommergibili e pattugliatori. Queste commesse per il rifacimento di una parte del naviglio militare italiano e per la costruzione di mezzi navali per altri paesi divengono vitali, da una parte per il profitto o extra-profitto sicuro, e dall’altra per la creazione di un polo militare per il quale s’intravede la possibilità di un enorme sviluppo, vista la politica di riarmo che sta iniziando in tutto il mondo, non ultimo in Europa. Fincantieri non è in grado di costruire e progettare sistemi d’arma, al momento, di questo si occupa Finmeccanica-Leonardo; ma è ormai un attore di primo piano nel sistema di produzione industriale-militare europeo, con le caratteristiche di una lobby anche politica, presente, ad esempio, in Trilateral Italia. Non a caso il suo attuale presidente, Massolo, è un ex-ambasciatore che ha coperto incarichi di grande peso ai vertici dell’amministrazione statale (anche nei servizi) e come consigliere di vari governi.

In questo processo le condizioni di lavoro sono destinate a farsi, secondo noi, sempre più incerte e pesanti. L’accordo su Saint Nazaire prevede 200 assunzioni. Ed è possibile che ci siano. Ma comunque sia, è certa l’affermazione di una politica aziendale mirata ad aumentare spietatamente il profitto per portarsi a un MOL (margine operativo lordo, l’utile prima di interessi, imposte, deprezzamento e ammortamenti) il più possibile vicino al 10%, e a dividere e mettere in concorrenza i lavoratori all’interno dei cantieri e tra cantieri.

E noi?

Noi compagne/i del Comitato di sostegno siamo consapevoli che il padrone-Fincantieri si è rafforzato in un contesto generale che vede tuttora, quasi ovunque in Europa almeno, il capitale all’attacco su tutti i fronti e la classe lavoratrice in una ritirata molto disordinata. Per noi, quindi, le difficoltà aumentano, per il contesto generale e per quello specifico. Nei cantieri italiani, incluso quello di Marghera, c’è al momento calma piatta, anche se, di quando in quando, nascono limitate azioni di protesta. È successo a Marghera (a novembre 2016) contro una catena di infortuni avvenuti in pochi giorni; a Palermo (a febbraio-marzo scorso) contro lo spostamento della mensa a fine turno; a Monfalcone il 7 marzo per la morte di un operaio bosniaco di 41 anni della Abl, con sciopero e corteo in città di alcune centinaia di operai. La prospettiva di anni di lavoro ‘garantito’ in un quadro di crescente insicurezza del lavoro, costituisce un potente sedativo in un corpo della classe lavoratrice già di per sé non proprio scattante. Ma, come si è detto, il padrone-Fincantieri potrà continuare a procedere in avanti solo a condizione di sospingere all’indietro i lavoratori. Questa l’insopprimibile contraddizione su cui fare leva. E le questioni vitali per l’intera classe lavoratrice, le misure di “austerità”, il peso del debito pubblico e del fiscal compact, il futuro delle giovani generazioni proletarie, gli effetti devastanti del Jobs Act, il razzismo, la crescita di militarismo e repressione, i disastri ambientali, etc., non si lasciano certo chiudere fuori dai cancelli degli stabilimenti. Anzi, è evidente, la prosecuzione del nostro intervento potrà avere sbocchi positivi nel senso della internazionalizzazione della organizzazione e della lotta operaia contro il padrone Fincantieri solo sulla base del costante riferimento a queste tematiche generali e agli sviluppi più ampi dello scontro di classe.

Negli scorsi anni ci siamo confrontati con un compito più limitato di questo, provando a più riprese, con insistenza ma senza grande fortuna, a stabilire rapporti di collaborazione a scala nazionale con delegati e compagni attivi all’interno e all’esterno dei cantieri di Castellammare di Stabia, Ancona, Monfalcone (dove abbiamo fatto alcuni volantinaggi), Palermo. Il nostro Comitato è stato a sua volta contattato da Riva Trigoso, da Castellammare e dai compagni di Lutte Ouvrière, che sono presenti e attivi nei Chantiers de l’Atlantique. Abbiamo incontrato tre grossi ostacoli alla istituzione di stabili rapporti di collaborazione: 1)la chiusura aziendalista, particolarmente forte a Monfalcone, un cantiere che non si è mai sentito a rischio, dove la Rsu Fiom si è data da fare esclusivamente su tematiche salariali e ha contestato sì Landini, ma da destra, e nei cantieri liguri, dove Lotta comunista ha fatto passare una logica di separazione dagli altri cantieri ed è organicamente contro quasiasi iniziativa che suoni di critica alle strutture sindacali; 2)la scarsa convinzione dei compagni di organizzazioni della sinistra extra-parlamentare, che pure sono critici nei confronti della Fiom, a procedere nella direzione da noi tracciata, per la loro indisponibilità a infrangere la disciplina sindacale; 3)la pochezza delle nostre forze.

Altrettante difficoltà, prima tra tutte l’attuale apatia politica dei lavoratori, abbiamo incontrato nel portare al cantiere le grandi questioni politiche generali e nel sollecitare la solidarietà con le lotte di altri settori di classe, in specie nei confronti dei facchini della logistica organizzati con il SI-Cobas, sistematico bersaglio della repressione statale e padronale. Ma non vediamo ragione di cambiare registro. Intendiamo continuare testardamente la nostra attività politica, per quanto l’efficacia immediata di essa sia oggi quanto mai ridotta, e fare ogni sforzo possibile per portarla all’altezza della nuova situazione che abbiamo fin qui esaminato.

Il nostro scopo è collegare i delegati e i lavoratori con una qualche coscienza politica per mettere assieme le realtà dei vari cantieri almeno a livello europeo, e tessere un quadro di azione collettiva che punti a due obiettivi tra loro collegati: 1)l’uguale trattamento normativo, salariale, di sicurezza dei dipendenti diretti di Fincantieri – pensiamo ai lavoratori romeni, che in un loro blog ci raccontavano che i cantieri di Tulcea, designati da Bono&Co. per la produzione “low cost”, vengono da loro chiamati “l’inferno”; 2)la fine di condizioni di lavoro semi-schiavistiche negli appalti e il superamento del sistema degli appalti, con la assunzione diretta degli operai degli appalti da parte di Fincantieri.

Vista l’accettazione e il supporto alle politiche aziendaliste e nazionaliste di Fiom-Fim-Uilm, questa azione non può nascere che dall’iniziativa indipendente dei compagni e dei lavoratori più coscienti. Nel settore dell’automobile abbiamo visto come i delegati di piccoli sindacati polacchi sono stati attaccati e oltraggiati dalle “nostre” strutture sindacali. Sia i delegati polacchi che quelli serbi, che cercavano contatti per arginare lo strapotere di Fiat-FCA nei loro paesi, quando hanno chiesto appoggio alla Fiom, sono stati accusati, per tutta risposta, di aver accettato, loro, condizioni da dumping indebolendo di fatto un fronte internazionale anti-Marchionne che qui nessuno ha mai pensato di costruire.

Fincantieri continua a dire di avere davanti anni e anni di lavoro. È anche vero che pensano che tra dieci anni la produzione di naviglio da crociera in Cina rappresenterà da solo il 50% del mercato mondiale. Arrivare in Cina è per noi, all’oggi, impensabile. Sarebbe però delinquenziale rispetto alla classe operaia non provare a mettere in comunicazione tra loro almeno tutti i cantieri europei, a poche ore di distanza gli uni dagli altri. Le prospettive che danno per assicurati dieci o addirittura vent’anni di lavoro, ci dicono che abbiamo tempo, se vogliamo, per tessere rapporti e iniziative politiche comuni nel senso dell’unione transnazionale dei dipendenti Fincantieri, e per tessere rapporti con i lavoratori degli appalti che sono sempre più il vero motore della produzione e, speriamo, della ripresa delle rivendicazioni operaie e sociali.

Questa azione dovrebbe svolgersi in due direzioni vitali, intrecciate l’una all’altra.

Innanzi tutto un’azione politica da mettere in campo attraverso il confronto con le forze che si muovono su linee classiste. Sarà necessario ricercare in Europa e in America latina i compagni che intendono dare battaglia al padronato e ai propri governi, intervenendo con continuità e assiduità tra i lavoratori dei cantieri, sia sulle condizioni di lavoro sia sui temi sociali e politici più generali. Con una sola discriminante da porre per iniziare da subito un dialogo approfondito: essere contro l’aziendalismo e il proprio nazionalismo, in una visione di unione ed unità internazionale e internazionalista dei lavoratori.

Per quanto riguarda la questione sindacale in senso stretto, vale quanto detto finora. Sappiamo che esistono in vari cantieri nuclei di resistenza, probabilmente molto piccoli. Sarebbe necessario riuscire a realizzare un confronto e un collegamento tra essi, per mettere in risalto i tratti comuni e le differenze tra le condizioni di lavoro nei vari siti, e far conoscere le rivendicazioni. Per gettare le basi della ripresa di un’azione e di una organizzazione classista, sarebbe vitale avere compagni in ogni sito produttivo che intervengano con continuità e forza sulle condizioni di lavoro, i salari, la salute dei lavoratori. In Romania, Brasile, etc. sarebbe fondamentale iniziare una politica rivendicativa e normativa che abbia l’obiettivo di omogeneizzare “verso l’alto” la situazione di tutti i cantieri. Né il sindacato internazionale, la CES, né l’insieme dei vari sindacati nazionali e nazionalisti presenti nella cantieristica faranno mai nulla di tutto questo. Dobbiamo essere noi a tessere legami politico-organizzativi e pratici, consapevoli che dovremo anche fare i conti con l’indolenza dei lavoratori di paesi come Italia, Francia, nord Europa, e con il probabile fatalismo di quelli romeni. Poiché questa necessità non riguarda di certo solo i lavoratori del gruppo Fincantieri, sarà essenziale rapportarsi ai circuiti di collegamento degli organismi del sindacalismo militante già esistenti a livello internazionale.

La ripresa delle rivendicazioni di massa del proletariato deve ripartire da un’azione che metta in discussione i peggioramenti che sono stati accettati fino ad oggi attraverso un’opera di pulizia delle menti dai veleni neo-liberisti e di chiarificazione tra i compagni e i lavoratori più attivi.

A questo siamo chiamati se vogliamo svolgere un ruolo da avanguardia di classe. L’abbiamo visto più volte: accade spesso che nei momenti di tensione e di lotta, una buona parte del proletariato che vuol dare battaglia veda in compagni con una certa carta d’identità il suo punto di riferimento. Oggi la situazione è molto complicata. Il futuro prossimo non ci dà l’impressione di prepararci una strada in discesa. Ma la via è unica e va percorsa. Verificare se esiste la possibilità di creare legami significativi e di azione comune è il primo passo per non essere travolti dalle politiche nazional-scioviniste e razziste in salsa produttivista e aziendalista.

Marghera, 30 giugno 2017

Comitato di sostegno ai lavoratori Fincantieri

comitatosostegno@gmail.com