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Morire di lavoro

Calabria, i «fantasmi» della Marlane chiedono giustizia. Piangono due volte. Di dolore e di rabbia. Perché i loro congiunti valgono meno di un niente. Da vivi e da morti. A volte la giustizia oltre che ingiusta sa essere anche crudele. Per istruire il processo alla Thyssen Krupp ed arrivare a sentenza son trascorsi appena tre anni a Torino. Per incardinare quello sulla Marlane-Marzotto, la fabbrica dei veleni di Praia a Mare, sul Tirreno cosentino, è passata una dozzina d’anni, tra richieste di archiviazione scampate e una sfilza di rimpiazzi nella magistratura inquirente e giudicante di Paola. Poi, finalmente, il 19 aprile 2011 si è aperto il dibattimento. Con grandi attese, mai così mal riposte. Sul banco degli imputati una pletora di dirigenti, personaggi eccellenti, colletti bianchi, l’intero vertice della fabbrica tessile, tra cui l’ex presidente, il conte Pietro Marzotto. I reati addebitati sono di quelli pesanti: omicidio colposo plurimo, lesioni colpose, disastro ambientale. Una tragica storia di lutti e veleni: sessanta operai attualmente ammalati di cancro, quaranta già deceduti per l’uso di coloranti azoici nella fase di produzione. E, ancora, altre vittime, ammorbate dall’amianto presente sui freni dei telai. Da ultime, ma non per ultime, decine di tonnellate di rifiuti industriali mai smaltite, e seppellite impunemente nell’area circostante. Ma, dal 19 aprile di un anno fa, il processo non ha, in effetti, mai avuto inizio. Cavilli da scaltri legulei, udienze interlocutorie, rinvii pretestuosi chiesti e (disinvoltamente) ottenuti, giochi da prestigiatori d’aula incredibilmente avallati dalla magistratura giudicante. Perché l’obiettivo malcelato è uno solo: la prescrizione.
Un traguardo che gli imputati vedono a portata di mano, per farla franca ancora una volta. Gente blasonata, pezzi grossi del mondo industriale, volti noti e meno noti del gotha finanziario: da Antonio Favrin, attuale vicepresidente di Confindustria Veneto e presidente dell’Unione Industriali di Venezia, a Silvano Storer, dirigente di marchi di peso quali Benetton, Nordica, Quacker-Chiari &Forti, da Jean De Jaegher, consigliere di Eurotex, Hugo Boss, Zucchi, a Lorenzo Bosetti, vicepresidente di Lanerossi. E, poi, ovviamente il conte Pietro Marzotto, da Valdagno, tuttora a capo di un impero economico con tremila operai e un fatturato miliardario. Dentro il tribunale c’è chi cerca l’impunità, fuori dall’aula chi reclama giustizia e mastica rabbia. Sono i familiari delle vittime e gli operai ammalati. Rinforzati da un movimento sociale che promette battaglia: «Il processo deve iniziare, deve calendarizzarsi, per far emergere in un pubblico dibattimento ciò che realmente è accaduto in quella fabbrica. La smettano i 13 imputati di rincorrere spudoratamente la prescrizione e si facciano processare. Hanno mezzi e soldi per potersi difendere, lo facciano con onore senza scappare. Si chiama democrazia. Non sopporteremo altri rinvii» avvertono gli attivisti del network di partiti, sindacati ed associazioni (Sì Cobas, Osservatorio nazionale amianto, Rdt “Franco Nisticò”, Movimento ambientalista del Tirreno, Coessenza, Sinistra Critica, Pdci, Rifondazione). Un appello per un processo giusto e non falsato pubblicato dal manifesto ha già raccolto un migliaio di firme in poche settimane.
Oggi, in occasione dell’ennesima udienza, si vestiranno tutti di bianco, indosseranno un lenzuolo a mo’ di fantasmi. Per ricordare le vittime di un lavoro che uccide e il dramma di chi, ammalato, vive in silenzio la propria sofferenza. L’appuntamento è alle 9 davanti al Palazzo di Giustizia di Paola. C’è un ministro della Repubblica che è solito versare lacrime di coccodrillo per le politiche sul lavoro di cui ha la piena responsabilità. Se venisse a Paola forse piangerebbe davvero. Perché di lavoro si muore, e da queste parti in tanti son morti. Un elenco del dolore su cui, però, qualcuno vorrebbe calasse l’oblio. Silvio Messinetti da il manifesto del 29 marzo 2012