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Il totem della produttività

accordo produttività

21 novembre 2012, CISL UIL UGL Confindustria (e altre associazioni padronali) sottoscrivono l’accordo: “Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia” (accordo produttività). L’obiettivo viene raggiunto sotto la spinta del governo Monti/Napolitano nel totale silenzio di tutti quelli (lavoratori) contro cui è stato definito questo accordo.
Sola voce fuori dal coro (??) la CGIL che  non ha firmato più per ragioni di opportunismo che per reale opposizione ai contenuti. Non per niente solo nel 2011 erano stati tra i sostenitori entusiasti dell’accordo su rappresentanza sindacale-contrattazione, premessa necessaria di quello attuale.
Gli brucia in realtà l’estromissione della FIOM dai tavoli contrattuali (come già da Pomigliano ecc) a causa dell’ostracismo dei loro sodali di sempre. Dopo anni di contrapposizione a qualsiasi forma di organizzazione sindacale di base, autorganizzata, estranea all’apparato Fiom, ora subiscono sconcertati gli effetti delle loro scelte passate, e a farne le spese sono gli operai Fiom, non certo l’apparato sindacale.

Questo accordo si affianca ai provvedimenti già attuati dal governo in carica (riforma pensioni, riforma mercato del lavoro, attacco al welfare) condividendone a pieno titolo il carattere di tessera essenziale del disegno politico/ideologico in via di realizzazione .

Nell’ultimo anno si sono fatti passi da gigante in direzione del compimento di un organico piano neoliberista in questo paese (come in tutta Europa e nel resto del mondo).  Forse, mai come questa volta, questo è avvenuto in modo determinato, consapevole, scientifico.

Un bell’esempio daccordo produttivitài quella che abbiamo avuto già modo di definire una lotta di classe a rovescio, in cui la classe dominante attacca pesantemente la classe subalterna, senza che questa, nel suo complesso, dia il minimo segnale reale di difesa dei propri interessi e della propria condizione.

Ci sarebbe molto da riflettere su questo dato socio/politico sia per quanto riguarda le cause che per i possibili interventi di contrasto di questa deriva.

Qui c’è solo da dichiarare la nostra incredulità di fronte alla passività manifestata da milioni di lavoratori, inerti di fronte alla crisi capitalista in atto ed ai costi che stanno pagando.

Incredulità che si rafforza ancor più davanti alla evidente e completa subalternità al pensiero dominante di questi lavoratori che li porta al punto da far proprie sia le ragioni “ufficiali” dell’attuale crisi (il debito pubblico, il welfare, l’eccesso di diritti dei lavoratori), che le presunte soluzioni (perdita di diritti e lavoro, privatizzazioni, liberalizzazioni, mano libera alle imprese).

Che smacco per il povero Karl, costretto a rigirarsi nella tomba del suo cimitero londinese alla vista degli esiti storici delle sue previsioni sul ruolo rivoluzionario della classe operaia nei paesi ad alto tasso di industrializzazione!

Altro che proletariato come agente rivoluzionario della costruzione del regno della libertà, qui siamo in presenza di un conglomerato amorfo di individui perfettamente integrati nel sistema borghese-capitalistico, di cui condividono (consapevoli o meno fa lo stesso) ogni aspetto o principio.

Un’accozzaglia informe che neppure lontanamente si può considerare prossima a divenire classe per sè, non essendolo più, apparentemente,  neppure in sè.

Non classe operaia-lavoratrice-proletariato, ma consumatori “consumati”, costretti a perpetuare il ciclo di produzione e consumo dello spreco, felicemente estraniati nella loro condizione di totale subalternità al sistema.

Padroni e governi hanno visto che è facile vincere, e questo gli piace molto. Incassati senza colpo ferire pensioni e art. 18; annunciati come prossimi (ma già acquisiti in sostanza), servizio sanitario pubblico e istruzione, ora è il momento dei CCNL, della normativa di legge sul lavoro, del salario, delle condizioni e dei tempi di lavoro di milioni di lavoratori.

Su questi ultimi argomenti infatti interviene l’accordo.

Il tema della produttività, uno dei totem da abbattere insieme a stato sociale, rigidità della forza lavoro, e controllo pubblico su attività e servizi di interesse collettivo, è uno dei cavalli di battaglia del fronte padronale e dei suoi portavoce.

Partiamo dalla elementare  (e superficiale) considerazione che più l’operaio lavora, sia in termini di durata della prestazione, ma soprattutto, in termini di resa produttiva, più il padrone ne trae profitto.

Questo assunto viene travisato nel senso di attribuire all’aumento della produttività un significato che va ben oltre il beneficio maggiore (profitto) a favore del padrone.

Facendolo diventare elemento determinante per favorire la competitività delle imprese sui mercati globali, assume un ruolo decisivo per il benessere di tutta la popolazione, al punto da condizionarne il destino.

Relativamente all’Italia si citano dati internazionali per cui i lavoratori italiani sarebbero collocati vicini a quelli del Ghana intorno alla 120 posizione, e questo dato diventa di fondamentale supporto per il cavallo di battaglia che dicevamo.

Tutti a dire che bisogna lavorare di più, ridurre le pause, eliminare le assenza, aumentare i ritmi, disciplinare (?) gli scioperi .

Marchionne ha impersonato in modo chiaro questa impostazione sin dall’accordo per Pomigliano, poi esteso a tutti gli altri stabilimenti FIAT.

Basta calcolare anche il minimo movimento corporeo dell’operaio che assembla le auto, eliminando quelli superflui, e siamo già a buon punto. Se poi si sposta la pausa mensa a fine turno facciamo un altro passo avanti. Se non paghiamo le assenza per malattia breve, e se contemporaneamente impediamo agli operai di scioperare, allora siamo quasi all’obiettivo pieno. La Fabbrica Italia può quasi competere con la Fabbrica Polonia o Serbia.

Peccato però che, per restare sul terreno della concorrenza internazionale dal punto di vista padronale, vi siano decine di paesi che dispongono di circa 1 miliardo e mezzo di operai costretti a lavorare anche per meno di 1$ all’ora, e che le auto le sappiano oramai fare tutti, anche meglio di Marchionne!

Sempre per restare in un ottica che non ci appartiene (almeno in prima battuta), è il caso di dire che la collocazione degli operai italiani in quelle posizioni di retroguardia non è relativa al dato quantitativo della produzione ma a quello del valore aggiunto per ora di lavoro?

Un conto è appunto fare auto (o altre merci) di scarsa qualità, al più basso costo possibile (fatto salvo il profitto), un altro proporre ai mercati prodotti con alti tassi di valore aggiunto, frutto di investimenti, ricerca, specializzazione.
Ma di questo naturalmente non si parla o si finge di non capire; è molto più semplice puntare sulla riduzione del costo del lavoro. Meglio spremere il più possibile l’operaio; meglio levargli diritti e tutele; imporgli straordinari, ritmi insostenibili, e farlo lavorare sotto il ricatto della delocalizzazione e della miseria, con una prospettiva di un pensionamento rinviato sine die, se ci  arriverà.
Di seguito i punti principali dell’accordo (il testo integrale: Testo accordo produttività 2012).

+ Il CCNL perde il suo ruolo di garante dei livelli retributivi dato che una parte della retribuzione viene delegata alla trattativa aziendale e subordinata al raggiungimento di obiettivi di produttività.
+ Viene delegata alla trattativa tra le parti anche la deroga sulla normativa di temi fondamentali del lavoro: orari, straordinari, organizzazione, mansioni (demansionamento), controllo a distanza dei lavoratori.
+ Vengono introdotti strumenti di “welfare aziendale” che tradotto significa fondi privati per assistenza sanitaria, pensionistica ecc.
+ Viene ribadita l’importanza della diffusione della cultura di impresa e la necessità di condivisione da parte dei lavoratori.

Si tratta di un evidente nuovo, duro attacco frontale ai lavoratori. Le ragioni dell’impresa fanno aggio su tutto, vite umane comprese.
Tutto deve girare intorno al profitto dei padroni perchè solo in questo modo tutti, operai compresi, ne beneficeranno.
Il resto lo faranno i mercati e il capitale che autonomamente e spontaneamente si collocherà là dove sarà necessario.

Si tratta di una riproposizione più che mai virulenta dell’ideologia neoliberista nella sua concreta applicazione.

Un disegno totalizzante in corso d’opera, possibile solo in presenza di una generale condivisione dei principi e degli obiettivi della classe dominante.

La crisi in atto sta assolvendo alla sua duplice funzione, da una parte di devastante eliminazione di merci dai mercati, mentre sul piano politico consente una recrudescenza dell’attacco alla condizione della classe lavoratrice.

Il ciclo si dovrebbe apprestare a riprodursi, ma gli stessi padroni hanno il timore che questo non possa avvenire in tempi brevi.

Si pongono pertanto il problema di fronteggiare l’eventuale reazione popolare, che – abbiamo già detto – pur tarda a venire.

La crudezza delle azioni repressive (vedi il comportamento delle polizie nelle ultime manifestazioni studentesche, come negli scioperi degli operai della logistica) è  il chiaro segnale di questa necessità e timore.

C’è chi sostiene che dalla scomparsa del blocco sovietico in poi non vi sia più alcuna possibilità neppure ipotetica di contrapporsi al sistema capitalistico della crescita illimitata e delle democrazie liberali, divenuti oramai la condizione naturale di tutta l’umanità.

Gli stessi sostengono anche l’avvenuta dissoluzione delle classi, scomparse col realizzarsi del capitalismo avanzato e della sua          ideologia pervasiva.

Ma è proprio così? Non c’è più speranza per miliardi di esseri umani, nè per l’immediato nè per un futuro, di liberarsi da una condizione di oggettiva schiavitù?

Possono sperare il miliardo e mezzo di nuovi operai nei paesi emergenti (già emersi) che nutrono con la loro forza-lavoro il capitalismo delocalizzato, di  poter lavorare in condizioni umane e vivere conseguentemente? O dovranno rimanere con 1 $ l’ora per tutta la loro vita?

Possono i 500 milioni di operai dell’occidente industrializzato sognare di sfuggire al ricatto costituito dall’esistenza di questo miliardo e mezzo di operai che tolgono loro lavoro, livello di benessere, prospettive di vita?

Potranno, tutti, essere prima o poi liberi, ma in modo reale, cioè non secondo l’accezione borghese di libertà formale, che sottende la schiavitù del lavoro e la loro condizione di classe?

Noi pensiamo di sì, e crediamo sia necessario e possibile battersi per questo obiettivo.

Negli ultimi anni, mentre la working class italiana, instupidita dall’aver perso la propria consapevolezza, vivacchia cercando di sfuggire alla crisi, o pietisce applicazioni di brandelli di welfare andando sui tetti o sulle torri, facendosi del male, un nuovo soggetto sociale, potenzialmente politico, si è presentato nel deprimente panorama nostrano: si tratta dei lavoratori immigrati occupati nella logistica.

Lavoratori, generalmente in regola, provenienti in gran parte dal nord Africa, ma anche da paesi asiatici (Pakistan, Sri Lanka), che sono il vero e proprio motore della movimentazione delle merci in questo paese.

Senza di loro in questo momento non vi sarebbero neppure le derrate alimentari sugli scaffali dei supermercati, nè i mobili nei centri Ikea, nè arriverebbero nelle case degli italiani i pacchi che tutti riceviamo.

La loro condizione formale sul piano contrattuale è quella di soci lavoratori di cooperative.

La loro condizione reale è quella di proletari secondo la definizione classica.

Retribuzioni di pochi euro l’ora, condizioni di lavoro (carichi, orari, sicurezza) pessime, sfruttamento palpabile, maltrattamenti da parte di caporali, negazioni di diritti anche sul piano retributivo, ricatti e minacce, rappresentano gli elementi che definiscono il loro stato.

Si aggiunga il razzismo cui sono soggetti e la concorrenza spietata causata dalla massa di altri immigrati pronti a prendere il loro posto in qualsiasi momento, e il quadro è compiuto.
La condizione di immigrati, legati ad un permesso facilmente revocabile, al rischio di espulsione e/o di detenzione nei CIE,  lascerebbe  intendere  una  necessaria  ed  inevitabile  sottomissione  al volere padronale;  ha invece prevalso la loro condizione materiale che ha generato la volontà di mutare il loro stato e LOTTARE.

Sono centinaia oramai le cooperative che hanno visto questi proletari mettere in discussione la loro condizione di sfruttamento e, organizzandosi nel nostro sindacato, aprire un conflitto esplicito e spesso molto duro, col padrone, sia esso la cooperativa, il consorzio e/o il committente stesso (Bennet, Gls, Esselunga, TNT, SDA, Gigante, DHL, IKEA, COOP).

Sono decine e decine gli scioperi, i presidi, i picchetti, i blocchi delle merci, le manifestazioni cittadine, le iniziative politiche pubbliche, le vertenze basilari su buste paga, DPI, orari e turnazioni, le cause legali, effettuati in questi anni.

Sono noti alla cronaca gli scontri aperti con le polizie, sempre schierate coi padroni, in difesa di interessi spesso appartenenti a zone molto grige, in cui operano personaggi e gruppi in odore di malavita organizzata.

Sono note le relazioni conflittuali con le istituzioni e i loro rappresentanti – sia politici che sindacali – anch’essi schierati contro questi proletari, a favore dei committenti e, a cascata, dei propri interessi, che siano di partito o di giunta comunale, provinciale, regionale, o altro.

Cosa hanno di diverso questi proletari dai lavoratori italiani timorosi e inermi davanti agli attacchi quotidiani di padroni e governi? Molto e poco.

Molto, perchè la loro condizione materiale lavorativa difficilmente trova riscontro in ambito diverso da quello delle cooperative logistiche; non è infatti un caso che in questo settore siano presenti nella quasi totalità solo immigrati.  

Molto, anche perchè il loro status di immigrati extracomunitari, con tutto quel che questo comporta, li rende oggettivamente diversi dai “normali” operai italiani.

Ma pure poco, molto poco, se si guarda la situazione oltre il contingente, con un respiro più ampio, in grado di cogliere gli elementi sostanziali e strutturali.

Cosa può cambiare tra un operaio da 1000/1200 €/mese  e costoro dal punto di vista della dipendenza della loro esistenza dal loro lavoro subordinato? Niente.

Cosa cambia per la condizione collettiva di tutti loro, potranno gli italiani dirsi altro che operai schiavi della loro condizione di classe? O il benessere a cui sono giunti in qualche modo li libera veramente da questi vincoli?
I diritti acquisiti nel corso dei decenni sono per essi garantiti, o sono già stati erosi, e ancor più oggi, sotto scacco?

Possono dirsi garantiti dallo stato che dicono rappresenti tutti i cittadini del paese alla pari, mentre naturalmente si tratta di un istituzione necessaria per difendere gli interessi della classe dominante contro la subalterna?
Che dire della giustizia? E’ veramente per loro uguale?

Che dire delle leggi? Sono effettivamente a tutela dell’interesse collettivo o invece di una parte ben precisa?

Che dire della scuola, della sanità, dei trasporti, ecc, sono uguali per tutti?
No, No, No……

C’è quindi uno stretto legame tra gli operai italiani e questi proletari costituito dalla loro appartenenza alla stessa comunità di destino. La differenza è che questi immigrati ne stanno prendendo coscienza mentre gli italiani fanno il possibile per dimenticarsene e convincersi del contrario.

Si può cercare in ogni modo di convincersi di non appartenere a questa classe, di essere diversi, più benestanti, più istruiti (?), di avere più opportunità, di avere più beni, più merci, di essere più liberi; a un certo punto si pensa di esserci riusciti, ma basta una crisi come l’attuale per far cadere tutte queste convinzioni.

Basta una cassa integrazione, una mobilità, una delocalizzazione, un fallimento o altro,  per far immediatamente piombare questi aspiranti membri del ceto medio nella loro posizione di classe effettiva: quella del proletariato in un sistema di capitalismo avanzato.

Non c’è modo di scappare, ora meno di sempre. Gli stessi ceti medi piccoli borghesi stanno sperimentando il terrore della loro proletarizzazione, e gli operai pensano di salvarsi? Illusi.

Non ci sono alternative, o si acquisisce la consapevolezza della propria appartenenza di classe e quindi si giunge alla determinazione della necessità della lotta contro il nemico per la difesa dei propri interessi e per il rovesciamento del sistema capitalistico, o siamo tutti condannati per l’eternità in questa condizione di subalternità economica, politica, culturale, morale.

Il comunismo non è morto col crollo del muro semplicemente perchè oltre quel muro c’era tutto tranne che il comunismo. La storia del novecento ha mostrato il sostanziale fallimento dei tentativi di realizzazione di una società comunista.

Lo sappiamo, non siamo stupidi, sappiamo anche però che l’analisi marxista sul funzionamento del sistema capitalistico, sulla divisione in classi della società, sui diversi e contrapposti interessi  tra queste classi, sulla condizione della classe lavoratrice non è stata smentita in alcun modo.

Oggi, questa crisi devastante, mostra la fragilità e la follia del sistema capitalistico, in cui miliardi di uomini possono vivere solo se riescono a vendere la loro forza lavoro, altrimenti sono out, finiti.

Non saranno le alchimie finanziarie, gli stratagemmi padronali per la massimizzazione del profitto a impedire che miliardi di proletari nel mondo possano unirsi e battersi per una vita, una società, un mondo migliore, più libero e più giusto.

Questa è la nostra prospettiva e la nostra strada.

Milano,  10 dicembre 2012 – Sindacato Intercategoriale Cobas          scarica: Accordo produttività 2012