E’ di questi giorni la morte di Nelson Mandela. Mentre il coro unanime dei commentatori internazionali celebra la figura del leader dell’ANC ci si guarda bene dal porre al centro della discussione la realtà sociale ed economica del paese e dei proletari che vi vivono.
Episodi macroscopici ed eclatanti come la strage dei minatori di Marikana (2012) ad opera della polizia del democratico Sudafrica, hanno resistito non più di una giornata sui media di tutto il mondo.
La realtà quindi, ancora e sempre, non è quella che passa attraverso gli strumenti di persuasione e diffusione del pensiero dominante.
Riportiamo un articolo del prof. Pietro Basso dell’università Ca’ Foscari di Venezia pubblicato nel 2013 nel volume: Marikana to the World, Marikana. A Moment in Time, Johannesburg, Geko, pp. 118-141 (ISBN 978620562393), che offre notevoli spunti di analisi e riflessione sui reali rapporti economici, politici, e di classe, in atto in quel paese.
(Pubblichiamo il testo per gentile concessione dell’autore, al quale vanno i nostri ringraziamenti).
8 dicembre 2013 – Sindacato Intercategoriale Cobas.
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Da Marikana al mondo.
Marikana è due cose, due mondi, due storie in una. E’ il bestiale eccidio dei minatori; è la vibrante lotta dei minatori. Il primo viene da lontano, da un passato che non vuol morire. La seconda porterà lontano, ad un futuro di liberazione che nessuna mitraglia potrà cancellare. Esaminiamo queste due facce, questi due aspetti, uno dopo l’altro, uno contro l’altro per identificare i due antitetici messaggi che i fatti di Marikana hanno lanciato al mondo.
1. L’eccidio dei minatori di Marikana dice anzitutto al mondo intero che se il vecchio apartheid bianco è morto, c’è ora in Sud Africa un nuovo apartheid bianco-nero, e dietro e sopra di esso c’è un nuovo colonialismo. Gli scopi e, per l’essenziale, i metodi di questo nuovo colonialismo non sono diversi da quelli del vecchio colonialismo. La diversità è tutta e solo nelle forme, e nel fatto che il nuovo colonialismo ha assoldato e integrato a sé una classe dirigente di uomini politici, amministratori e sfruttatori neri disposti, senza vergogna, a servirlo da bravi soci in affari. E’ una storia antica che si rinnova nell’ambizione (vana) di guadagnare l’eternità.
Il Sud Africa è da secoli un laboratorio della più brutale espropriazione dei produttori diretti e del più feroce super-sfruttamento del lavoro, africano e asiatico, da parte del capitale bianco – uno dei più importanti laboratori del genere, nel mondo. Cominciò la Dutch East Indian Company in the Cape with the dispossession of the local inhabitants, of their land and their cattle, con la loro decimation e reduction to servitude, e con l’importazione di Malay people reduced to slavery. Proseguirono l’opera i Dutch settlers soggiogando gli Xhosa e assorbendoli nella settler economy as a servile class. L’arrivo dei colonialisti britannici inaugurò l’aggressione alle popolazioni Zulu nel Natal e avviò l’importazione di indentured Indian labourers dall’Asia, da spremere fino all’osso nei sugar fields. Dopo la scoperta dei diamanti e delle miniere di oro (1867-1872) gli impresari colonizzatori, posti davanti alle resistenze dei popoli africani ad accettare salari di fame, fecero ricorso ai coolies cinesi e ai lavoratori neri importati dalle colonie portoghesi in Africa. Ed è proprio nelle miniere di diamanti e di oro che si è venuto strutturando nel tempo un sistema, violento ed insieme sofisticato, di sfruttamento differenziale del lavoro fondato su basi nazionali, razziali ed etniche. Da un lato una forza-lavoro qualificata bianca portata dall’Europa, dall’altro una manovalanza africana (e asiatica) pagata con salari 10-15-20 volte inferiori a quelli bianchi, reclutata e suddivisa con cura al fine di mantenere accese al suo interno l’ostilità tra i lavoratori africani e i lavoratori asiatici e un’intensa inter-tribal rivalry tra i lavoratori neri. Per assicurarsi una enorme e permanente sovrabbondanza di schiavi sotto-salariati neri da mettere in spasmodica concorrenza tra loro, la Chamber of Mines e la Witwatersrand Native Labour Association pretesero la pass law e le Reserves. E da queste hanno potuto attingere per decenni moltitudini di lavoratori locali da impiegare per brevi periodi e da rispedire poi, dopo averli torchiati a sangue, nelle loro “homeland”, ridotte dai padroni delle miniere a vere e proprie discariche dell’economia sud-africana.
Ne è nato così un autentico paradiso per il capitalismo coloniale, per l’imperialismo occidentale tutto, olandese, britannico, tedesco, statunitense, italiano, svizzero, francese, australiano, israeliano, e, si capisce, per gli sfruttatori boeri. Un paradiso capitalista (non precapitalista, come pretendono alcuni), costruito secondo i dettami della bruta “razionalità” del profitto, supportati dalla (presunta) “irrazionalità” del razzismo segregazionista. Il termine con cui questo sistema, essenziale per l’accumulazione capitalistica sia a scala locale che mondiale, è stato designato, apartheid, può trarre in inganno: perché il suo tratto essenziale non è tanto la rigida separazione fisica tra bianchi e neri, possibile ed utile solo fino ad un certo punto, quanto la rigida e molteplice gerarchizzazione della forza-lavoro dentro le miniere, le imprese industriali, e le aziende agricole dei proprietari bianchi. Una gerarchizzazione tra soprastanti e sottostanti che non ha diviso e divide solo i bianchi dai neri, ma ha diviso e divide anche i coloured dai neri, i neri autoctoni dai neri immigrati, i neri autoctoni appartenenti a una data “etnia” o regione da quelli appartenenti alle altre “etnie” e regioni, i neri emigranti dalle Reserves dai neri residenti nelle città. Altrettanto fondamentale per il buon funzionamento del meccanismo è stato (ed è) che esso possa attingere le braccia sempre fresche di cui abbisogna da uno smisurato esercito di riserva di poveri e poverissimi, costretti a vendersi per poco più di nulla, non bastando a sfamarli una misera agricoltura di autoconsumo.
Il fine ultimo di tale scientifico sistema di sfruttamento è quello di tradurre in realtà il sogno antico, e moderno, dei capitalisti colonialisti di ieri e di oggi: disporre di una inesauribile quantità di forza-lavoro a bassissimo costo e zero diritti; una forza-lavoro da ricambiare di continuo in un ininterrotto ciclo breve di super-sfruttamento “usa e getta”, capace di garantire montagne di extra-profitti a chi è libero di torchiarla in un clima di terrore. Già, perché non si può dimenticare che solo attraverso un enorme apparato poliziesco, carcerario e giudiziario, con tanto di eccidi di scioperanti (perfino, se è il caso, di lavoratori bianchi “privilegiati” imbevuti di razzismo, come avvenne nello sciopero “generale” bianco del 1922), arresti di massa, detenzioni senza sentenza, proscrizioni, bagni penali, torture, celle della morte e quant’altro; solo attraverso un simile onnipresente stato di polizia, è stato possibile tenere in piedi questo “perfezionato universo concentrazionario”.
Il tramonto dell’apartheid storico con l’avvento al governo dell’ANC e la caduta formale del colour bar (nel 2003) non hanno mandato in archivio né il dispotismo terroristico sui luoghi di lavoro, né le discriminazioni ai danni dei lavoratori neri. Hanno solo ammantato i vecchi metodi coloniali con un di più di ipocrisia, allargato ad uno strato di lavoro qualificato nero il trattamento privilegiato riservato in passato rigorosamente ai bianchi, e modificato in misura altrettanto modesta le leggi in materia di conflitti di lavoro, badando bene a proteggere le imprese dagli scioperi “illegali”, e cioè dagli scioperi più efficaci……………….
L’articolo completo in formato pdf da scaricare: Pietro Basso: Da Marikana al mondo