Riceviamo e pubblichiamo, dai compagni e dalle compagne del CSA Vittoria di Milano, un contributo politico interessante per aprire una discussione politica tra la classe.
CREARE CONFLITTO – SVILUPPARE LOTTA DI CLASSE
Le righe che seguono dovevano originariamente essere la presentazione del nostro collettivo sul nuovo sito, ma sono diventate altro e chiediamo l’attenzione di chi vorrà leggere queste riflessioni perché nel loro sviluppo, crediamo non banale seppur estremamente sintetico, c’è una parte della storia politica e delle lotte più significative di questi anni in cui ognuno o ognuna di chi legge, come anche di tutti e tutte quante noi, potrà nel bene o nel male ritrovarsi.
L’invasività del mondo virtuale dei social network (Facebook e Twitter su tutti) cerca purtroppo di abituarci a privilegiare la battuta e il commento piuttosto che la riflessione, l’evento piuttosto che l’iniziativa politica, a sensibile danno e detrimento dell’approfondimento e della cultura politica talvolta anche all’interno della stessa “galassia” antagonista.
Questa progressiva diluizione e annacquamento dei contenuti tra un miliardo di “news” più o meno veritiere impedisce, al contrario di ciò che viene strombazzato ai quattro venti come moderna forma di libertà, la formazione di una vera coscienza critica dell’esistente che pare essere ridotto a un contenitore di fotografie, una dietro l’altra, anziché lo sviluppo di un percorso dialettico con e tra mille contraddizioni.
Siamo un collettivo politico nato verso la fine del 1994, composto da compagni che in quegli anni si erano appena avvicinati alla lotta politica insieme a qualche compagno e compagna con una più lunga storia di militanza, uniti dalla convinzione che la creazione e la gestione di uno spazio politico aperto alla socialità potesse essere concretamente un momento di incontro tra esperienze politiche, sensibilità e interessi più specifici e diversi, per sviluppare coscienza e comportamenti tali da combattere il capitalismo a tutto campo, innestandoli e vincolandoli come elementi sovrastrutturali alla contraddizione primaria del conflitto capitale-lavoro.
Uno strumento quindi e non un fine, come ci piaceva sottolineare, per contribuire nel nostro piccolo alla costruzione di un movimento di classe in grado di abbattere il modo di produzione capitalistico per l’affermazione di una società di liberi e di eguali senza più sfruttamento e divisione in classi contro ogni fascismo, razzismo, sessismo e omofobia. (Citiamo espressamente sessismo e omofobia perché da questo punto di vista, anche all’interno degli stessi movimenti antagonisti, siamo troppo spesso lontani anni luce dalla percezione corretta delle contraddizioni di genere.)
Abbiamo, per anni, riportato questa frase in ogni manifesto di indizione di concerti, rappresentazioni teatrali, presentazioni di libri o performance artistiche, come segno distintivo di un’identità ben lontana dalla trasformazione dei centri sociali in “concertifici”. Il tentativo è stato quello di dare gambe a una prospettiva politica più organicamente ed esplicitamente comunista di un collettivo politico, come abbiamo scelto di essere, e non solo di un collettivo di gestione di uno spazio sociale, basata quindi su un’analisi di classe fondata sulla dialettica marxista sempre in aggiornamento (o almeno ci abbiamo e ci stiamo sempre provando) e non su un ribellismo anche fortemente radicale, positivo in sé, ma con il limite strutturale di affermare e perseguire la riappropriazione di propri bisogni ma senza porli all’interno di un contesto di classe.
Quasi un ponte tra la radicalità rivoluzionaria che ha attraversato l’Italia dalla fine degli anni ’60 per tutti gli anni ’70 ed un (ex) presente fotografato quasi come “disagio giovanile” e/o l’espressione generica di bisogni insoddisfatti.
Visti quasi come una strana anomalia, anche nella cosiddetta area dei centri sociali per differenze di analisi e di approccio al reale, abbiamo partecipato attivamente fin dal ’95 ad ogni sciopero generale della parte di classe (purtroppo ancor oggi piccola) organizzata dal sindacalismo di base conflittuale, nel disinteresse di chi ancora riproponeva in maniera quasi corporativa il distacco se non la sterile contrapposizione tra l’operaio sociale e l’operaio massa. Con ciò accettando, senza metterlo in discussione, il dogma della “fine del lavoro” e della classe stessa e senza comprendere che i mille rivoli della produzione capitalista post-fordista andavano ricomposti sul terreno di una vertenzialità sociale più complessiva e di una proposta politica di trasformazione rivoluzionaria del presente, anziché esaltare le differenze di tipologia dello sfruttamento all’interno della stessa organizzazione capitalista del lavoro.
Abbiamo rifiutato il “giovanilismo” per non rincorrere mode puntando più ai contenuti e alle forme migliori per esprimerli, spesso senza raggiungere i risultati voluti e anche perdendo facile consenso, ma certamente abbiamo cercato di non fare passi indietro dal punto di vista ideologico pur cercando di porre all’interno di scenari il più ampi possibile senza alcun settarismo le nostre analisi e i tentativi di far crescere un movimento di classe.
Riprendendo la critica Marcusiana all’esistente siamo convinti che la borghesia, per annullarle, trova in sé la capacità di fagocitare spinte e pulsioni positive trasformandole in “mode” e riproponendole in chiave consumistica e meramente esistenziale per tentare di riciclarle, senza più struttura critica sostanziale, nel calderone delle compatibilità costringendo l’anticapitalismo a una sua forma identitaria minoritaria e strutturalmente marginale.
Gli anni dell’investimento sulla sperimentazione sociale, pur senza però mai perdere la “barra a dritta” dell’anticapitalismo e della solidarietà internazionalista, sono per fortuna passati (non per chi ha scelto o si è trovato ad essere solo un vuoto contenitore di iniziative), con un dispendio di forze e di energie che, se da una parte ha avvicinato molti soggetti poi ritornati a vita privata, oggi non rimpiangiamo in alcun modo.Se infatti, ribadiamo, è stato uno sforzo che non ha prodotto i risultati quantitativi e qualitativi che ci aspettavamo in termini di una prospettiva più complessiva, è comunque servito a contribuire alla definizione di una forte identità politica, alla crescita qualitativa interna del collettivo in un continuo sforzo di confronto per comprendere meglio la fase e le responsabilità soggettive da assumersi.
Quegli anni sono passati e i movimenti di lotta hanno subito o operato sostanziali trasformazioni di identità anche sotto i colpi di processi repressivi mirati sulle aree antagoniste più simili a una guerra a bassa intensità che a un livello di “normale” repressione dei movimenti d’opposizione. Una trasformazione palese: per alcuni in direzione istituzionale o para istituzionale nella sostanza se non nella forma, per altri, invece, la ricerca di scorciatoie “di piazza” e l’esaltazione del riot (modello banlieu francesi) ha tentato di coprire un vuoto di analisi e di strategia purtroppo evidente dal punto di vista della capacità di aggiornare e riparametrare gli strumenti ideologici alla situazione di scomposizione della classe e di crisi strutturale del modo di produzione capitalistico.
Nulla di nuovo sotto il sole. Seppur con forme e comportamenti diversi abbiamo assistito al riapparire di ragionamenti (più che analisi) che richiamano le teorie del socialismo utopistico prescientifico che, aggiornato all’oggi, ripropongono i meccanismi di contrapposizione tra poveri e ricchi, che interpreta la crisi dal punto di vista di una (impossibile) redistribuzione delle ricchezze che ha abbandonato la centralità del conflitto capitale e lavoro quale motore delle trasformazioni della storia.
Questa genericità teorica ha prodotto, oltre ad una sbandata ipermediatica, la creazione di diversi e specifici movimenti settoriali (con ovviamente anche elementi di forte positività per la partecipazione e la carica radicale), che rimanevano però movimenti d’opinione di protesta e di denuncia vacui e senza futuro, perché strutturalmente privi di una prospettiva di ricomposizione di classe e incapaci (o non in grado) di valorizzare una soggettività collettiva che riuscisse a dare risposte di classe all’oggettivo scossone strutturale che ha fatto e continua a far traballare il modo di produzione capitalistico.
Ovviamente in questa fase magmatica noi non siamo stati a guardare ma ci siamo messi in gioco e ci siamo stati in pieno. Fianco a fianco di tanti e tante compagni e compagne di strada di altri collettivi, sindacati di base e centri sociali, combattendo le nostre battaglie ideologiche e assumendoci politicamente sempre la responsabilità di ogni singola scelta fatta in accordo o in disaccordo con il resto della situazioni di “movimento”, lavorando però nel frattempo per favorire la nascita di un’altra prospettiva politica più coerentemente anticapitalista che rimettesse al centro il conflitto di classe e sociale nella sua complessità.
Conseguentemente ciò ci ha condotto al rifiuto di seguire i diversi “trend” comunicativi e scadenzistici quasi imposti dal nemico di classe e quasi diventati la riproposizione meccanica di un teatrino mediatico del conflitto in un quadro di sostanziale compatibilità politica da Genova 2001 in poi.
La rincorsa alla scadenza e la “gara” alla maggiore radicalità delle forme (non dei contenuti…) nei fatti però copriva un vuoto di prospettiva e l’assenza di un’autonomia di percorso della classe nella direzione di una trasformazione da classe in sé a classe per sé. Ciò anche in virtù della sostituzione dell’interpretazione della classe quale elemento concreto all’interno di rapporti di produzione con interessi inconciliabili col padronato, con ilconcetto di “movimento” e le sue mille interpretazioni (dal riformismo sociale, fino ad un oggettivo interclassismo con una costanza di interpretazioni più di tipo sociologico che di classe).
All’interno di questo quadro, un grosso peso ha avuto la divergenza politica sostanziale e radicale con l’idea di precarietà quasi assurta al concetto di “nuova classe” (e torniamo all’idea distorta della trasformazione dell’operaio massa in operaio sociale) e non come condizione strutturale della classe all’interno dell’organizzzione capitalistica post-fordista del lavoro. Fino alla degradanti proposte della “flexsecurity” o di altre misure tampone per il recupero di quote di reddito (come il “reddito di cittadinanza”, versione edulcorata e “innovativa” del salario di disoccupazione , proposte come “liberatorie dalle catene dello sfruttamento”, che da quasi naturali (in altre forme e modalità) elementi di rivendicazione social-sindacale, una volta introiettata la subordinazione alla nuova organizzazione del lavoro, diventava “la soluzione” al di fuori della contraddizione tra gli interessi inconciliabili tra le classi. Guarda caso oggi diventata cavallo di battaglia di quella forza interclassista e apologeta di un nuovo capitalismo rappresentata dal movimento 5 stelle.
Ovviamente, per esigenze di sintesi, questo nostro punto di vista risulta tagliato “a fette” e può sembrare essere un giudizio totalmente negativo di chi dal di fuori è stato solo a guardare, mentre cosi non è stato perché sono stati comunque anni di forte combattività in cui ci siamo messi in gioco in prima fila su ogni più piccola battaglia politica e sociale pagando sempre il prezzo repressivo delle scelte fatte e condivise con tutti gli altri settori di movimento.
Ma questa prospettiva non ci bastava. Al pari delle scorciatoie rappresentate dall’inseguire la scadenza per dare un segnale di sopravvivenza politica e tentare, senza esito, di uscire da una situazione di marginalità strutturale assolutamente identitaria e autoreferenziale. Ovvero per sopravvivere alla mancanza di una proposta politica comunista assumendo e adagiandosi al ruolo di pressione “radicale” nelle forme alla sinistra del centro sinistra, ancorati complessivamente nel recinto delle compatibilità al di là delle forme in cui si esprimeva e si esprime.
Ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo provato, rifondandoci, a cogliere le occasioni che lo scontro di classe ci forniva mettendoci umilmente a disposizione delle situazioni di conflitto che via via si venivano a determinare mettendo o rimettendo al centro la classe e i suoi bisogni.
Siamo ripartiti in assoluta solitudine con un primo picchetto spontaneo operaio del 2006, segnalatoci da un compagno ancora all’interno del sindacalismo confederale, a cui ne sono seguiti numerosi altri, insieme a combattivi lavoratori della logistica ancora non organizzati nel sindacalismo di base. Provammo allora a dare organicità a questo percorso aprendo uno sportello lavoro, tappezzando di manifesti e volantinando in una zona (CAMM di via Fantoli il cui acronimo sta per Consorzio Autostazioni Merci Milano che, dal 1964, raggruppa numerosi aziende di autotrasporto) ad alta densità di magazzini della logistica e di corrieri, e cominciando a valutare con più attenzione il ruolo dell’Italia all’interno del quadro della divisione del lavoro quantomeno a livello europeo.
Da quelle prime notti ed esperienze di lotta scaturì la condivisione e l’inizio di strada comune con i compagni dell’allora Slai Cobas, oggi SI Cobas. I rapporti si sono consolidati e sono cresciuti fino ad arrivare alla prima grande battaglia contro il padronato delle cooperative che fino a quel momento avevano rimpolpato le loro tasche con livelli di sfruttamento schiavistico di lavoratori per lo più immigrati.
I rapporti con quella parte del sindacalismo conflittuale sono venuti a maturazione con una collaborazione sempre più organica e questo primo grande momento di lotta, che ha rappresentato una scintilla poi propagatasi nell’area milanese come poi in tutto il resto d’Italia, è stata la vittoria del 2008 degli operai della logistica dei magazzini Bennet di Origgio dopo un lungo periodo di picchetti in cui riemergeva, per la prima volta dopo molti anni, la riappropriazione dello sciopero (e del picchetto) quale arma classica della classe operaia. Una vittoria che è stata per tutti (dai compagni del sindacato che conducevano le trattative, fino ad ogni compagno e compagna che a turno sono venuti a portare solidarietà) un bagno di umiltà (sebbene rivendichiamo con orgoglio l’importanza della nostra presenza organizzata per vincere quella “battaglia”) unita alla capacità di condividere tensione e lungimiranza, sperimentando e riparametrando sul campo, giorno per giorno davanti ai cancelli, le difficoltà di reggere uno scontro sindacale e politico per durare, come dicevamo, un giorno più del padrone.
Parliamo di scontro politico e di potere non a caso, perché la presenza di un sindacato combattivo, di compagni e compagne (esterni) davanti ai cancelli e la schiena dritta dei lavoratori che resistevano a ogni tipo di minaccia e ricatto, ha messo in discussione non solo e non tanto il singolo istituto contrattuale negato (il costo del ticket mensa, il giorno di malattia calcolato o meno o lo scatto di livello), bensì il potere fino allora assoluto dei padroni degli asset della logistica, dei consorzi e delle cooperative. Nonché i rapporti consolidati di questi con la “politica” istituzionale, i sindacati confederali, i media compiacenti, gli organi repressivi dello Stato, le bande mafiose e ogni strumento in mano al padronato per colpire e soggiogare i lavoratori immigrati.
Giusto come dato storico, dopo Origgio nacque, in seguito all’esperienza dello Slai Cobas, il nuovo sindacato conflittuale SI Cobas che, ancor oggi, rimane il punto di riferimento per ogni lavoratore della logistica e con il quale abbiamo condiviso e stiamo condividendo ormai quasi 10 anni di lotte e di progettualità politica.
A Origgio sono seguiti numerosi anni di lotte molto dure con livelli repressivi inauditi per essere davanti a cancelli di magazzini in lotta.
Vogliamo, per brevità, ricordare l’Ortomercato di Milano, le vittorie all’Ortofin di Liscate, ma anche le dure e difficili lotte diventate scontro immediato di “potere” con licenziamenti, pesanti cariche notturne, barricate e feriti alla logistica della Billa di Lacchiarella, alla repressione feroce con accerchiamento e cariche alla Gls Executive di Cerro al Lambro, ai magazzini del Gigante di Basiano con lavoratori arrestati e feriti (uno in coma) per arrivare all’Esselunga di Pioltello dove mesi di picchetti e scontri con crumiri e le forze dell’ordine capitalista hanno segnato una pagina eccezionale di lotta di classe (anche con la tara di errori di gestione), con un’eccezionale combattività dei lavoratori che, anche se sconfitti, da un punto di vista sindacale hanno lanciato un sasso che ha messo in moto onde di conflitto durature. Per quel periodo di lotte e picchetti 2011/2012 davanti ai cancelli di Pioltello siamo ancora tutti indagati, ma è certamente un momento di conflitto che la repressione non potrà cancellare con una possibile sentenza.
Questo lungo periodo di continua conflittualità operaia ci ha però messo anche davanti alla responsabilità di comprendere con sempre maggiore chiarezza e spessore di analisi ilpeso del settore della logistica all’interno di un ragionamento più complessivo sull’organizzazione e divisione capitalistica del lavoro su scala nazionale ed europea. Abbiamo quindi cercato di passare da una fase, che abbiamo definito criticamente e autocriticamente ma oggettivamente, di sperimentazione/inchiesta ed empirismo, a una fase nella quale, all’interno di un processo dialettico prassi-teoria-prassi, abbiamo provato a desumere le caratteristiche sostanziali di questo settore cosi importante della produzione tentando di definire le basi di un’analisi teorica sui processi produttivi e sul valore che oggi assumono logistica, trasporto e distribuzione delle merci (in definitiva la fase della circolazione fondamentale per la valorizzazione di quanto prodotto). Per chi volesse approfondire il primo documento di analisi che invitiamo a leggere è del 2012, e lo troverete sul nostro nuovo sito, seguito poi da altri di aggiornamento.
Ci fermiamo qui nella descrizione, perché ormai il settore della logistica è investito quasi quotidianamente da lotte determinate e radicali dei lavoratori organizzati nel SI Cobas che si è nel frattempo esteso ad altri settori produttivi con un peso oggettivo sempre più importante nel panorama sindacale e politico italiano.
Crediamo che oggi questo movimento sia tra le punte più avanzate dello scontro di classe in Italia e si sia anche trovato empiricamente a provare, con tutte le lacune e i limiti oggettivi e soggettivi oltre che strutturali e fisiologici, a sopperire alla carenza di indicazioni di prospettiva e a un vuoto politico/organizzativo di una “sinistra” comunista a oggi residuale, minoritaria, frammentata e sciolta in mille strutture territoriali, fazioni, partiti e partitini incapaci di darsi e dare una prospettiva politica, troppo autocentrati sulla propria sopravvivenza. Crediamo sia un dato oggettivo senza essere animati da alcuna volontà di polemica.
Siamo convinti che rinforzare concretamente, nel rispetto reciproco delle proprie specificità e autonomia di percorso, questo movimento politico sindacale sia una prospettiva che, nell’internità allo scontro di classe, possano dare un’indicazione chiara, a partire dai bisogni della classe, di ricomposizione sociale per costruire un fronte di classe in grado di incominciare a spostare e modificare i rapporti di forza dati.
Un’indicazione di lotta di classe, con la determinazione che abbiamo visto e sperimentato in questi anni, quale possibilità di trasformazione radicale (concetto ormai purtroppo abusato fino a eliminarne la carica di reale rottura) e rivoluzionaria del presente, in grado di aggregare e unire forze reali, movimenti di lotta, i più diversi settori di classe, all’interno di un progetto di percorso autonomo e di conflitto contro lo sfruttamento di classe e per l’abbattimento di questa società divisa in classi.
Un movimento che sperimenti rivendicazioni sociali per il recupero di pezzi di salarioindiretto a fianco della centralità di una classe scomposta e individualizzata in mille diversi e disparati settori produttivi che però sempre classe rimane, dando risposte politiche e vertenziali ai bisogni materiali che esprime il proletariato classico o nelle nuove forme che ha assunto con la scomposizione della grande fabbrica fordista.
Che ogni vittoria in fabbrica diventi una barricata anticapitalista!
Ein questa prospettiva abbiamo molta, moltissima strada da fare, ma il primo passo è lavorare per la costruzione di un ambito collettivo di confronto che ragioni, organizzi, programmi il conflitto nelle sue mille forme. Questo è un passo imprescindibile che poniamo all’attenzione dei compagni e delle compagne con i/le quali stiamo condividendo questa speranza e questo progetto anche guardando (ma non solo) i passi positivi di unità e condivisione che lo stesso sindacalismo conflittuale sta compiendo (corteo unitario del 1° maggio 2017, sciopero del 16 giugno…)
Abbiamo declinato queste lotte dal punto di vista della costruzione di un movimento politico sindacale che però per essere tale non può limitarsi a battaglie politiche “di principio” o prettamente sindacali anche se con eccezionali vertenze di rottura. Per essere tale, deve concretamente intervenire in altri settori del conflitto in una prospettiva di classe – si guardi ad esempio alle differenze di approccio alla questione immigrazione da una pur positiva e avanzata piattaforma di richiesta di diritti quale quello di circolazione, ad un approccio classista alla questione dell’esodo di milioni di proletari dai paesi più poveri – e deve e ripetiamo deve fare i conti con entrambe le gambe di questa prospettiva, pena il determinarsi di lotte anche avanzatissime che senza un alveo e una prospettiva politica più complessiva e condivisa si troveranno a delimitare un perimetro nel tempo difficilmente superabile.
L’allargamento, anche se eccezionale, della sfera d’influenza sindacale non può sopperire, in quanto tale, ad uno strumento “di servizio” collettivo che, per interpretare questa prospettiva di medio e lungo termine, raccolga forze sindacali effettivamente conflittuali, collettivi politici, organizzazioni e movimenti che organizzano il proletariato su questioni specifiche (casa, salario indiretto, ecc.), compagni e compagne disposti anche singolarmente a mettersi in gioco per un progetto comune, anche tra mille contraddizioni, di abbattimento dello stato borghese.Più terra terra quindi non una sommatoria di sigle, più o meno rilevanti, come coperta per coprire le diverse debolezze, ma uno strumento collettivo che quotidianamente si conformi ai diversi livelli del conflitto costruendo un agire comune e dando sostanza di analisi e pratica politica, sindacale e di vertenzialità sociale, a ciò che si è costruito e si vuole costruire.
Siamo assolutamente convinti che ogni lotta o vertenza sul lavoro, o sulla casa, o sulla riappropriazione di reddito in altre forme, siano un passaggio fondamentale e necessario ma non sufficiente per resistere e poi imporsi complessivamente al dominio di classe nelle forme di democrazia autoritaria che oggi, anche dal punto di vista statuale, sta assumendo.
La strada corretta crediamo sia questa e, a oggi, la consideriamo l’unico strumento reale e praticabile per far entrare un po’ di aria fresca e far piazza pulita degli inutili giochi di posizionamento di aree più o meno rilevanti, di arroccamenti sulla propria identità o sulla piccola e parzialissima bandierina perché tanto tutto si dimentica per l’incapacità di crescere sui propri errori e ……. tutto passa fino al prossimo errore.
Ci vuole però il coraggio di non fermarsi mai a fotografare il proprio frenetico attivismo o il presente magari di una lotta con un buon esito davanti o dentro a un magazzino o in una casa occupata, in una scuola o università, ma crediamo di fondamentale importanza l’essere consapevoli che se la borghesia sta conducendo una durissima lotta di classe contro il lavoro, il proletariato nazionale e mondiale ancora non riesce a scrollarsi di dosso anni di gestione soporifera e concertata della risposta ai propri bisogni, senza ancora comprendere come trovare la forza in sé e per sé per ribaltare i tavoli del potere e assumersi la responsabilità di una trasformazione della società.
Ma questo è per noi l’obiettivo dichiarato di lunga durata, senza l’esaltazione di scorciatoie istituzionali dove declamare la propria impotenza, senza l’idealismo borghese del fuoco di una giornata di gloria per poi tornarsene a casa, ma con la coscienza che tutto può dimostrarsi un fuoco di paglia o, peggio ancora, una autogratificazione inutile e dannosa senza la costruzione di un processo reale di trasformazione rivoluzionaria dell’esistente che possa contare su una effettiva e cosciente e organizzata mobilitazione di classe.
Come comunisti aspiriamo anche a forme di organizzazione più avanzate ma…un passo alla volta per l’unità dei comunisti e l’unità della classe.
Speriamo che queste riflessioni possano aprire un confronto di merito e di metodo, mentre da parte nostra, con il massimo di umiltà e con le nostre poche forze, non smetteremo di perseguire il più rigorosamente possibile questo progetto insieme ai compagni e alle compagne del SI Cobas, a ogni compagno e compagna, struttura sindacale o politica, territoriale o nazionale che si voglia assumere questa responsabilità.
I compagni e le compagne del Csa Vittoria
Milano giugno 2017
Il comunismo non è per noi uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti” (Marx Engels, Ideologia tedesca).Il comunismo non si configura come il necessario risultato, la meta finale del processo storico, ma come un “flusso” che si inscrive nelle “pieghe” del presente, sviluppando le energie di cui esso è carico.