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[ITALIA] La lotta dei licenziati FCA e del SI Cobas apre una breccia nel muro del reddito di sudditanza

La lotta dei licenziati FCA e del SI Cobas apre una breccia nel muro del reddito di sudditanza.

Alle chiacchiere sterili i proletari hanno sempre preferito i fatti!

L’iniziativa di lotta di Mimmo e Marco, saliti per quattro giorni e quattro notti sul campanile della chiesa del Carmine nel cuore delle festività pasquali e col supporto del SI Cobas e di numerose realtà solidali, ha dimostrato che col protagonismo diretto è possibile ottenere dei risultati concreti e immediati (per quanto parziali) per migliaia di lavoratori e disoccupati. 

Il risultato più grande di questa mobilitazione non sta tanto nei pur importanti impegni assunti dall’INPS col verbale del 23 aprile, quanto nella capacità di indicare una strada e una piattaforma di lotta concreta, spezzando il circolo vizioso della passività e della deleghe in bianco alle istituzioni e ai politicanti di turno, siano essi al governo o all’opposizione.

Per mesi e mesi siamo stati costretti ad assistere passivamente a un indegno spettacolo in cui i padroni e le variopinte fazioni dal pattume parlamentare hanno finto di scannarsi su quanto era bello o brutto, utile o inutile, virtuoso o dispendioso il reddito di cittadinanza del governo Salvini – Di Maio: un vero e proprio teatrino dell’assurdo, in cui l’apparente e astratta contrapposizione tra “redditisti” e “lavoristi” serviva a celare l’amara verità, cioè che le vere ragioni della disoccupazione, della precarietà e della miseria crescente sono da ricercare nella crisi del sistema capitalistico, e che quindi nessun partito parlamentare e nessun governo può mettere in campo alcuna misura efficace e duratura per far fronte alla disoccupazione, alla miseria e ai licenziamenti, senza mettere seriamente in discussione il sistema capitalista nel suo complesso.

Di fronte alla faccia tosta e all’impresentabilità di chi in decenni di governo ha operato in maniera scientifica il massacro di milioni di lavoratori e disoccupati, era prevedibile che una parte consistente di proletari guardasse con simpatia e speranza alla demagogia e alle promesse dei 5 Stelle (e della Lega): molto meno prevedibile era invece il codismo di ampi settori del sindacalismo di base e del cosiddetto “movimento”, convertiti nel giro di pochi mesi al “Di Maio – pensiero” pur di garantirsi la proverbiale “sponda politica” utile a preservare orticelli sempre più miseri e appassiti…

E allora guai a criticare il reddito di sudditanza, che “finalmente qualche spicciolo arriva anche nelle nostre tasche”, perchè “finalmente un pò di redistribuzione anche per i poveri meridionali” e a chi si permettesse di obiettiarne anche solo la parzialità e l’insufficienza della platea e degli importi ecco pronta la sempre valida cantilena “e allora il PD?”: il tutto spesso condito da massicce dosi di sovranismo declinato, a seconda dei casi (e delle convenienze di bottega), ora in chiave “anti-UE”, ora in chiave “meridionalista”.

Queste e altre simili amenità da un lato hanno certificato l’uscita di scena dalle lotte e dal conflitto di classe di un ceto politico che, al pari della triplice sindacale e della sinistra liberal-europeista complici per decenni delle politiche di austerity, non ha più nulla da dire e da offrire ai milioni di lavoratori, precari e disoccupati colpiti dalla crisi.

L’azione promossa dai licenziati del SI Cobas FCA e supportata dai disoccupati 7 novembre e da numerosi solidali, ha invece dimostrato che con la lotta e il protagonismo diretto è possibile, seppur parzialmente e in un quadro di rapporti di forza tutt’altro che favorevoli, cambiare le cose; hanno dimostrato che in maniera autonoma e con una linea di condotta coerentemente classista è possibile prendersi la scena e trattare con gli organi di governo centrale da pari a pari, senza alcun bisogno di scorciatoie politiciste e “sponde” istituzionali; hanno finalmente liberato il tema drammatico della disoccupazione e dei licenziamenti dalla cappa fetida di una retorica che poco o nulla ha a che vedere con le vite di milioni di sfruttati; ma soprattutto hanno unito in una battaglia comune settori diversi di proletari che ieri, con i governi di centrodestra e centrosinistra, erano stati scientificamente e sistematicamente divisi, frammentati e isolati l’uno dall’altro, e che oggi il governo giallo-verde tenta di scagliare gli uni contro gli altri, in una guerra fratricida generalizzata che ha nella propaganda razzista e securitaria di Salvini la sua concretizzazione più velenosa e reazionaria: una guerra che, oggi come ieri, vede i padroni come unici vincitori…

Reddito di cittadinanza: dal mito alla realtà!

I media in questi giorni hanno dato ampio risalto alla protesta dei licenziati FCA, spesso provando a rendere la nostra iniziativa funzionale a questa o quella parte politico-elettorale: era prevedibile che la gestione del primo scaglione di domande di accesso al reddito proprio alla vigilia delle elezioni europee rappresentasse una patata bollente sia per il governo che per l’opposizione.

Per questo, abbiamo chiarito fin dal primo momento, e con ancora maggior forza dopo le telefonate dei vertici Inps e le dichiarazioni stampa di Tridico, che i nostri compagni non erano certo saliti sul campanile per avere un piacere personale o una semplice “deroga ad personam”, quanto piuttosto per mettere in luce come l’intero impianto del decreto-legge fosse pieno di contraddizioni e di gravi iniquità, tali da escludere migliaia di licenziati e disoccupati dall’accesso a tale misura.

E abbiamo perseguito questa linea di indipendenza anche quando si è trattato di rispedire al mittente l’abbraccio mortale di un PD che pur di usare la nostra protesta per i propri miseri tornaconti elettorali, è arrivato al punto di scomodare nientemeno che il neosegretaro nazionale Zingaretti…

Il caso specifico (ma non unico) dei licenziati FCA, costretti dai giudici di Cassazione a restituire gli stipendi percepiti a seguito della sentenza di reintegro ma impossibilitati ad inoltrare la domanda di reddito all’INPS solo perchè quegli stessi stipendi rientrano ancora nel loro ISEE 2018, in realtà non è altro che la punta di un iceberg che solo chi è in malafede o semplicemente non ha letto il decreto, può far finta di non vedere.

I dati riportati proprio in questi giorni dall’ISTAT non fanno che confermare come l’impianto di questo Reddito di Cittadinanza, finisca per configurarsi come un’elemosina di Stato per pochi eletti: su 5 milioni di poveri presenti in Italia, le domande di reddito accettate sono sono state appena 472970. Di questi, 61670 (il 13,10%) riceveranno meno di 100 euro al mese e 135999 (il 28,8%) meno di 300 euro.

Dei rimanenti, in 137983 (il 29,20%) riceveranno tra 300 e 500 euro, e solo 198993 “fortunati” (il 42%) più di 500 euro: cifre a dir poco ridicole se si pensa che in una metropoli 500 euro non bastano neanche a pagare l’affitto di un monolocale, ma giudicate in queste ore persino “troppo alte” dal fronte padronale che attraverso l’OCSE ha dichiarato che 700-800 euro sarebbero “troppi rispetto ai salari medi operai in Italia”.

Un merito va indubbiamente dato al RdC di Di Maio: quello di aver costretto involontariamente i padroni ad ammettere che milioni di lavoratori oggi sopravvivono con salari da fame!

Tornando al tema dell’esiguità della platea, una tale scrematura è stata resa possibile attraverso una miriade di ostacoli burocratici, “soglie di sbarramento” e disincentivi all’accesso.

1) Il principale ostacolo è senz’altro rappresentato dall’utilizzo dell’ISEE, il quale, basandosi sul reddito degli anni precedenti e sullo stato di famiglia associato alla residenza, da un lato tende ad escludere le migliaia di lavoratori licenziati negli ultimi 12 mesi, dall’altro esclude tutti coloro che a seguito di licenziamento, scadenza di contratto a termine o perchè impossibilitati a prendere casa per via del basso salario, sono costretti a lasciare la casa e a “rifugiarsi” presso genitori o parenti, risultando dunque “benestanti” ai fini ISEE in quanto rientanti nel reddito dei loro coinquilini.

2) Di non minore impatto, soprattutto al Sud, è la norma, al contempo classista e poliziesca, che prevede sanzioni penali per chi fa domanda di reddito e lavora “al nero”. Questo dispositivo, che invece di colpire i padroni che sfruttano ed evadono, terrorizza e criminalizza chi per campare è costretto ad accettare quel che passa il convento, ha di fatto escluso in partenza dall’accesso al RdC centinaia di migliaia di proletari sfruttati e ricattati, i quali non possono certo permettersi il “lusso” di rinunciare a un salario appena dignitoso in cambio di qualche centinaio di euro al mese: se si considera l’entità degli importi mensili come ricavata dai dati ISTAT di cui sopra, è evidente che moltissimi lavoratori al nero preferiranno continuare a sgobbare per 12-14 ore al giorno senza alcun diritto in cambio di un salario di 1000 o più euro al mese. Dunque poco o nullo sarà l’impatto del RdC sul lavoro nero, alla faccia delle chiacchiere sulla “legalità” di cui si riempiono la bocca Di Maio e Salvini.

3) Particolarmente iniqua e razzista è poi l’esclusione dal RdC di tutti gli immigrati con regolare permesso di soggiorno ma ancora privi della cittadinanza, e che spesso lavorano in Italia da anni, sfruttati e malpagati, e che non possono accedere al trattamento se non risultano residenti da almeno 10 anni.

4) Mentre è ancora tutta da verificare l’opera mastodontica di “avviamento al lavoro” e il ruolo dei cosiddetti navigator, è evidente che l’obbligo di dover accettare offerte di lavoro anche a tempo determinato e a meno di 1000 euro al mese, e per giunta a una distanza che va dai 100 chilometri dal proprio comune nei primi 12 mesi e può arrivare anche a più di 1000 chilometri dopo 18 mesi, svela come lo scopo di questa misura sia quello di assicurare ai padroni una massa ingente di manodopera da sfruttare a buon mercato, dove, come e quando vuole il mercato. Senza dimenticare che, analogamente a quanto previsto con la NASPI nel Jobs Act di Renzi, il padrone che assumerà un percettore del RdC potrà accaparrarsi tutto l’importo individuale previsto per tutta la durata residua del trattamento.

A questi elementi, già di per se sufficienti a smascherare la vuota retorica di Di Maio e dei 5 Stelle sulla “fine della povertà”, va infine aggiunto un quesito tutt’altro che irrilevante: chi paga?

Se si considera che alle regalie di cui sopra a vantaggio dei padroni fanno da contraltare, l’imminente aumento dell’Iva, l’aumento (già avvenuto) delle accise sul carburante e gli ulteriori tagli alla spesa sociale, anche un bambino si renderà conto che questa misura, nella migliore delle ipotesi, non fa altro che travasare qualche centinaio di euro dalle tasche degli operai e del mondo del lavoro dipendente a quelle di una piccola e selezionatissima parte di disoccupati.

Intanto il PD, la destra berlusconiana e i rottami della sinistra parlamentare e sindacale invocano al posto del RdC “investimenti per creare lavoro”, che tradotto significa ancor più soldi per i padroni: come se i fiumi di denaro regalati in questi anni alle imprese dai precedenti governi di centrodestra e centrosinistra fossero finiti anche solo in minima parte nelle tasche dei lavoratori e non, come effettivamente è stato, ad alimentare la massa di profitti di padroni, banche e speculatori senza scrupoli.

Il senso dell’azione del campanile promossa dai licenziati FCA ha avuto come scopo quello di mettere a nudo e smascherare questa vera e propria fiera dell’ipocrisia e dello sciacallaggio sulla pelle dei proletari.

Mimmo e Marco potevano tranquillamente scendere dal campanile e “assicurarsi la pagnotta” dopo che Tridico, già nella serata di sabato, aveva garantito che l’Inps avrebbe provveduto ad aggirare l’ostacolo per i licenziati FCA, “ma solo per loro”: hanno invece scelto di proseguire la lotta, anteponendo gli interessi generali di migliaia di disoccupati e licenziati ai loro interessi particolari; hanno accolto a braccia aperte la solidarietà attiva di altri licenziati e del Movimento dei disoccupati 7 Novembre accorsi a sostenere il presidio.

Hanno seguito l’esempio dei loro fratelli di classe che da anni lottano in migliaia di magazzini della logistica e di tanti altri settori; hanno ancora una volta “buttato via la paura”, voltando le spalle a chi da anni sa solo ripetere che lottare è pericoloso e inutile, salvo poi racimolare solo sconfitte su sconfitte.

Come i facchini, hanno scelto di rischiare. E come capita spesso ai facchini, hanno vinto.

Quel che al termine del tavolo all’INPS di martedì non era chiaro ne alla stampa ne agli stessi due licenziati ancora sul campanile (al punto che Mimmo aveva già dichiarato fallito l’incontro preparandosi a proseguire la protesta a oltranza), nelle ore successive, e con la diffusione del verbale redatto dai vertici INPS, è apparso via via evidente per la sua portata.

Oltre alla già citata esenzione del vincolo-ISEE per tutti i licenziati costretti da una sentenza a restituire all’azienda gli stipendi percepiti nei mesi precedenti, il passaggio più importante, messo nero su bianco sul verbale, è la possibilità per i lavoratori licenziati nel corso degli ultimi mesi, di presentare, al posto dell’ISEE “standard” indicante i redditi dei due anni precedenti, l’ISEE precompilato, indicante la situazione reddituale attuale. 

Ciò darà la possibilità a migliaia di licenziati che non possono ottenere la NASPI o che l’hanno esaurita di ottenere immediatamente il reddito di cittadinanza, e per tantissimi licenziati la cui Naspi è oramai ridotta a poche centinaia di euro, di ottenere un integrazione fino all’importo massimo previsto dal RdC.

Si tratta di un allargamento della platea dei beneficiari di non poco conto. 

Una breccia importante nel muro che separa i beneficiari dagli esclusi dal RdC è stata dunque aperta, ma sarebbe un grave errore lasciarsi ai trionfalismi.

L’altro punto cardine della piattaforma che abbiamo presentato all’INPS è la richiesta di abolire il criterio dell’ISEE legato alla residenza.

a risposta a tale rivendicazione non poteva certo venire dall’INPS, poichè chiama in causa la necessità di una modifica sostanziale e profonda della legge sul RdC.

L’INPS si è impegnata a convocare un tavolo tecnico con i vertici INPS e il coinvolgimento (per ora indiretto) del Ministero nelle nostre richieste, ma sappiamo bene che questi impegni, per quanto importanti perché messi esplicitamente a verbale, resteranno lettera morta se non saranno supportati da un proseguo e da un allargamento della mobilitazione.

La lotta è solo all’inizio

Con l’occupazione del campanile abbiamo creato una breccia che può essere allargata solo con una mobilitazione di massa che coinvolga in primo luogo i diretti interessati.

La scelta di aprire la delegazione che ha incontrato l’INPS anche ad altre vertenze, al movimento dei disoccupati e a una delegazione di operai FCA di Melfi aderenti a USB, va proprio in questa direzione: la lotta per cambiare il Reddito di Citadinanza, ampliarne la platea, innalzarne gli importi e impedire che a trarne vantaggio siano solo i padroni, è una lotta nell’interesse di tutti i proletari.

Occorre costruire un movimento di massa e autorganizzato che invece di accettare la logica del redistribuire la miseria in parti uguali, e inizi a battersi per veri aumenti salariali a tutti i lavoratori senza distinzioni di categoria e di inquadramento, per un salario medio garantito a tutti i disoccupati e per la riduzione drastica dell’orario di lavoro.

Bisogna smetterla di balbettare di fronte a un governo razzista e reazionario che nel mentre elargisce la più classica (per quanto innovativa) mancia elettorale, prepara nuove stangate per far fronte alla crisi e che col Decreto Sicurezza ha già sferrato un attacco repressivo senza precedenti al diritto di sciopero e di iniziativa sindacale.

Sulla scia delle mobilitazioni nazionali degli ultimi mesi, come SI Cobas riteniamo sia giunta l’ora di mettere in discussione un sistema che, nel suo complesso e indipendentemente dai governi in carica, continua ad alimentare i profitti e la ricchezza di pochi parassiti e lascia le briciole a lavoratori e disoccupati.

A chi in questi mesi si è accontentato di 300, 500 o 700 euro “perché è sempre meglio di niente”, la protesta di Mimmo e Marco, così come quella dei lavoratori della logistica, hanno dimostrato che invece è possibile dire no alla mera sopravvivenza senza limitarsi alle petizioni di principio, ma indicando una strada concreta e percorribile.

Per questo motivo il 1 maggio il SI Cobas scenderà in piazza a Milano alla manifestazione anticapitalista e internazionalista. In questa prospettiva, sabato 18 maggio, chiamiamo tutte le forze sociali, sindacali e politiche che intendono unirsi in questa lotta, a partecipare ad un ASSEMBLEA NAZIONALE a Pomigliano indetta dai licenziati FCA sui temi che hanno animato l’iniziativa di lotta sul campanile.

25/04/2019

SI Cobas nazionale