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[INTERNAZIONALISMO] Il crack dell’Amerika (I)

Pubblichiamo qui sotto la prima parte del contributo “Il crack dell’Amerika (I)” ricevuto dalla redazione de Il Pungolo Rosso e già disponibile sul loro sito (per la seconda parte, clicca qui).

Questa crisi sanitaria e sociale, che sta provocando i primi scioperi spontanei nelle fabbriche dopo decenni, e diviene ora anche crisi economica e finanziaria, mette alla prova i sistemi capitalistici, in Italia e nel mondo intero, e scuote le coscienze in settori della nostra classe cui si chiede di lavorare comunque, anche in assenza delle condizioni di sicurezza che vengono invece imposte al resto della popolazione.

Per la prima volta da decenni assistiamo a scioperi spontanei nelle fabbriche.

Anche nella lotta per ambienti di lavoro sicuri e adeguati dispositivi di protezione individuale, e nelle difficoltà di coloro che sono lasciati a casa con un futuro incerto, deve crescere la coscienza della necessità di lottare per superare questa società divisa in classi.

Contro le ideologie da “unità nazionale” tra sfruttati e sfruttatori.

Il virus globalizzato mette inoltre in chiaro l’inconsistenza delle prospettive di autonomie locali/localistiche, e delle scorciatoie “sovraniste”.

L’unica strada è quella internazionalista, dell’unione tra i proletari di tutto il mondo.

S.I. Cobas


Il crack dell’Amerika (I)

La nostra America, l’altra America, l’America dei proletari e delle proletarie di tutti i colori, è in rivolta. Mentre in 25 città degli Stati Uniti è stato necessario dichiarare il coprifuoco per cercare di stroncare le proteste di massa contro l’omicidio di George Floyd ad opera della locale polizia; mentre Trump è costretto a mobilitare l’esercito, non bastando a mantenere l’ordine la guardia nazionale; è sotto gli occhi del mondo intero che in Amerika il razzismo di stato e la violenza di stato contro gli afro-americani  sono tutt’ora una realtà permanente. La pentola a pressione statunitense rischia di scoppiare, scrivono sconcertati e intimoriti gli osservatori del palazzo.

Ma non si tratta solo della “questione razziale”. Gli Stati Uniti che hanno tuttora la pretesa di dettare legge in tutto il globo e, tramite Musk, perfino su Marte, sono oggi il paese che ha il massimo numero di morti da Covid-19 (più di 100.000) e il tasso di disoccupazione più alto in Occidente per effetto della crisi con 40 milioni di disoccupati. Sebbene qualche attardato continui a dipingerli alla stregua degli dei onnipotenti (addirittura capaci di far muovere a comando i movimenti di massa, specie se medio-orientali), gli Stati Uniti non hanno mai avuto nel mondo un indice di gradimento così basso, un’incapacità così profonda di essere quella “guida delle nazioni” (capitalistiche) che sono stati per quasi un secolo. E non è una banale questione di singoli: di Trump tanto per capirci. Trump è stato ed è il nome individuale di una crisi profonda degli Stati Uniti, del capitalismo statunitense, di una spaccatura profonda della sua società, un effetto e non certo la causa di tutto, come nella stucchevole narrazione degli Obama-boys.

Su questa crisi, che è un segno primario di una crisi per davvero storica del capitalismo globale, e apre (o spalanca?) le porte alla crescita dell’influenza del capitalismo cinese nel mondo, come anche ad una storica resa dei conti universale con il sistema capitalistico, avremo modo di venire con una riflessione di ordine assai più ampio. Qui ci limitiamo a dare uno sguardo alla situazione economico-sociale che sottosta all’ebollizione di questi giorni e di queste ore, servendoci di un aiuto inaspettato, il libro da poco uscito di un giornalista del Corriere della sera.

Non ci saremmo mai aspettati che, proprio nel mezzo del disastro sanitario da Covid-19, un giornalista del Corriere della sera descrivesse, con ricchezza di dati di fatto, il crack degli Stati Uniti d’America. Ma è accaduto. Il declino degli States non lo scopriamo ora. Lo scrutiamo e vediamo da molto tempo con soddisfazione. Non da anti-americani, bensì da internazionalisti rivoluzionari per i quali il blocco Wall Street/Pentagono/Casa Bianca resta il perno n. 1 del capitalismo globale, e il suo indebolimento è una grande notizia per l’intero campo degli sfruttati e degli oppressi nel mondo. Il giornalista del Corriere, Massimo Gaggi, va da sé, appartiene a tutt’altro campo. Proprio per questo il suo Crack America. La verità sulla crisi degli Stati Uniti, non va passato sotto silenzio. E qui lo presentiamo, interpolando qua e là nostre aggiunte e considerazioni.

Il sistema sanitario

La partenza, inevitabile, è dal sistema sanitario, “costruito sull’idea che la salute sia una responsabilità individuale dei cittadini”, né un bene comune, né un diritto. Fatto di “cittadelle ospedaliere isolate e indipendenti” le une dalle altre, è del tutto estraneo al concetto di medicina preventiva e ad ogni forma di pianificazione della tutela della salute sociale. Gli ospedali sono spesso quotati in borsa come qualsiasi altra azienda, con le prestazioni e le analisi decise in base ai contratti di assicurazione stipulati, a seconda che siano previste o meno. Il dominio incontrastato di assicurazioni e Big Pharma, i giganti dell’industria farmaceutica, ha generato negli States la forma più estrema di mercificazione della salute. I malati cronici e i più poveri (due condizioni che spesso si sovrappongono) sono pressoché abbandonati a sé stessi, come relitti alla deriva. Non hanno le carte di credito adeguate: peggio per loro. Ma anche per i malati non certo indigenti, il prezzo delle cure (a New York un controllo di pochi minuti per una puntura d’insetto può costare 750 dollari) e dei medicinali è tra i più alti al mondo – incluso il prezzo dell’insulina, farmaco essenzialissimo in una nazione che, è primato mondiale, ha 30 milioni di diabetici e 80 di pre-diabetici (in totale, un terzo della popolazione totale). Sanofi, Eli Lilly, Novo Nordisk, i grandi produttori di insulina, sono stati più volte denunciati da gruppi di pazienti per aver fatto crescere il prezzo di questo farmaco salvavita fino al 150% in 5 anni, costringendo i malati più poveri ad auto-ridursi i dosaggi o a ricorrere ai pronto soccorso per un’iniezione ogni tanto.

Nonostante i prezzi dei farmaci, impazza l’abuso dei medicinali per tamponare il diffuso disagio di vivere e per resistere ai ritmi di lavoro infernali. Tra i tragici effetti di questo abuso c’è “una vera strage [47.000 morti l’anno, senza calcolare i suicidi] provocata dall’enorme, incontrollata diffusione degli anti-dolorifici a base di oppio”. Nel paese della Johnson&Johnson e della Purdue Pharma, nel 2018 hanno abusato di oppioidi 10 milioni di statunitensi, di cui 9 per anti-dolorifici e 1 per uso di eroina. Il paradosso, alla fin fine solo apparente, è che il paese “all’avanguardia nei farmaci”, il paese che destina alle cure mediche quasi il 20% del suo prodotto interno lordo, è anche quello che “non solo lascia alcune decine di milioni di cittadini totalmente privi di copertura medica, ma spesso impone a chi già paga costose assicurazioni, tariffe mozzafiato per cure salvavita”. Ed è anche uno dei pochi paesi al mondo in cui la durata media della vita, specie dei maschi bianchi di ex-ceto medio, si va riducendo da anni. È il capitalismo nella sua incarnazione più pura: la dittatura del profitto sulla vita. Non a caso la metà delle dichiarazioni di fallimento individuali (negli Usa possono fallire, infatti, anche i singoli individui) è legata all’esborso di spese sanitarie improvvise.

Quello dell’assistenza sanitaria è “il più grosso fallimento del sistema economico americano”, sostiene Gaggi. Che non se ne dà pace, soprattutto perché vede “messo con le spalle al muro un ex ceto medio già molto impoverito”, e teme per la stabilità delle istituzioni statali. Difficile, però, vedervi una mera anomalia statunitense, se è vero che il paese in testa all’efficienza nelle cure mediche, secondo l’inefficiente OMS, sarebbe l’Italia – l’Italia dell’efficientissimo sistema lombardo, il più decisamente avviato nella stessa direzione della medicina centrata sugli ospedali (senza nessuna forma di prevenzione delle malattie, e tanto meno degli infortuni sul lavoro) e degli ospedaliaziende, e ora è riuscito a piazzare il proprio uomo al vertice di Confindustria per procedere con ancor maggiore velocità sulla via amerikana. Ma torniamo agli States per ricordare come vi imperi, oltre i colossi di Big Pharma, un arcipelago di voraci assicurazioni, dietro le quali ci sono i fondi pensione interessati a mantenere lo status quo, nemici giurati di ogni ipotesi di estensione della tutela sanitaria gratuita. Del resto lo stesso santone dei ‘progressisti’ di tutto il mondo Obama, si è detto contrario al piano Warren-Sanders di un Medicare for All (il Medicare è il sistema di assistenza federale gratuito per gli over-65 introdotto da Johnson nel 1966). Le lobbies farmaceutiche/assicurative/ospedaliere non perdonano. Ecco perché ai più emarginati il massimo che possa capitare è di avere un po’ di momentaneo sollievo dalla “solidarietà digitale di anonimi benefattori”. Talvolta si tratta di persone comuni di buon cuore, realmente anonime, che ti aiutano a fronteggiare la malattia; tal’altra, quando c’è in un qualche modo da lucrare dall’esibizione della propria “generosità”, si tratta di “benefattori” nient’affatto anonimi, incredibilmente simili ad avvoltoi, i cui prototipi universali sono la coppia Bill e Melinda Gates – “benefattori” che beneficiano sé stessi, anzitutto, dal momento che negli Usa è in vigore una legislazione di enorme favore per le donazioni.

Il regno del cibo-spazzatura

Il disastro del sistema sanitario statunitense ha tra i suoi retroterra sociali anche una alimentazione della grande massa dei salariati molto nociva per la salute – la Fast Food Nation raccontata vent’anni fa da Eric Schlosser. Già allora un quarto della popolazione statunitense faceva visita quotidianamente ad un fast food e spendeva per questo tipo di cibo-veleno più che per l’istruzione, i personal computer, le automobili, per non parlare degli altri “consumi culturali”. Giustamente Schlosser legava la travolgente crescita di McDonald’s (e simili) all’inesorabile calo del potere d’acquisto dei salari avvenuto dopo il 1973, da un lato, alla necessità di decine di milioni di donne di entrare nel mercato del lavoro, dall’altro. In modo altrettanto opportuno paragonava l’incontenibile diffusione dei McDonald’s alla diffusione di “un virus elettronico che si auto-replica”. Colossali quantità di zuccheri e di grassi, ed anche di sale e di aromi, hanno generato ormai nei decenni una vera e propria dipendenza, sicché non sorprende che oggi quasi il 40% dei cittadini statunitensi adulti (è il 22% nelle forze armate), e quasi il 20% dei bambini, sia obeso. L’epidemia di diabete coinvolge ormai anche i bambini in età infantile, mentre un decesso ogni cinque è legato all’obesità, “un killer feroce quasi quanto il fumo”. Questo uso/abuso di junk food fa aumentare le malattie cardiovascolari e il cancro. E come ci si può immaginare, è particolarmente diffuso negli stati a forte popolazione afro-americana, Mississipi, West Virginia, Alabama. Dopotutto, è il cibo degli strati sociali più poveri – per quanto nel buffonesco recitativo di Trump sia vantato come il suo cibo preferito. Gaggi ha cura di presentarci anche la “Spectre del cibo”, l’International Life Sciences Institute (un nome impegnativo), fondato 40 anni fa da un ex-manager della Coca-Cola, ora forte di 16 sedi dislocate in tutto il mondo, in grado di condizionare le scelte alimentari di grandi paesi come India, Brasile, Cina. Un istituto che attualmente ha dietro di sé, come finanziatrice, la triade delle transnazionali dell’alimentazione, dell’agroindustria e della farmaceutica – siamo al sicuro, quindi.

È l’abituale modo antagonistico di procedere del capitale: abbatte con ogni mezzo i costi di produzione del cibo (e così diminuisce i costi di riproduzione della forza-lavoro), ma nello stesso tempo, producendo obesità e malattie, riduce alla lunga la produttività del lavoro e fa crescere a dismisura i costi della sanità (anche quelli della riproduzione della forza-lavoro, perciò). Facendo dell’attività di cura della salute una sontuosa fonte di profitti per mettere riparo al precedente “inconveniente”, esclude da essa decine di milioni di persone moltiplicando in questo modo i rischi di vere e proprie emergenze sanitarie su vasta scala, come quella in corso, che si ripercuotono pesantemente anche sul meccanismo della accumulazione di profitti.

L’emergenza ambientale

Un altro retroterra del disastro del sistema sanitario yankee è l’emergenza ambientale negata. Troppo facile spendere il nome del negazionista Trump. La cosa ha ben altra profondità storica, materiale e ideologica: “Trump non è un governante impazzito, afferma Gaggi, che impone una svolta perversa contro la volontà di un intero Paese. È piuttosto l’interprete di uno stato d’animo molto diffuso, in particolare, tra i conservatori e nel sistema imprenditoriale: meglio non frenare le imprese con vincoli ambientali”. In realtà, qualcosina di diverso da un semplice stato d’animo di cui, da parte sua, ha tenuto conto Obama quando diede il via libera al devastante fracking. Solo di recente gli Stati Uniti sono stati superati, pare, dalla Cina quanto a contributo a inquinare e riscaldare il pianeta. Né è molto credibile la promessa degli Al Gore e di altri paladini del Green New Deal dalla fedina sociale immacolata quali i discendenti dei Rockfeller, di avere un piano per voltare davvero pagina – su questo punto centra il bersaglio Michael Moore col suo ultimo lavoro, The Planet of Humans, da vedere, sebbene, per i suoi limiti ideologici, non possa indicare un’alternativa anti-capitalista. Gli Stati Uniti pullulano di aree devastate dall’inquinamento di fiumi e laghi, e di falde acquifere e aria avvelenate. La ricerca dei metalli e degli impianti necessari alla “rivoluzione verde” ci ha messo del suo.

Non domandatevi se anche l’inquinamento è razzialmente connotato. Alla domanda ha già risposto molti anni fa Michael Novick in White Lies, White Power: lo è. I depositi di rifiuti e le industrie altamente inquinanti “sono dislocati in misura sproporzionata nelle comunità di colore”, abitate da neri, latinos o nativi, o nelle loro vicinanze. Un’indagine sui giovani neri e sud-americani della zona sud di Los Angeles mostrava già trent’anni fa che questi giovani erano candidati a soffrire di enfisemi polmonari e di cancro già intorno ai trent’anni. E la situazione non potrà che peggiorare, avendo la Cina chiuso la porta al riciclaggio dei rifiuti provenienti dagli Stati Uniti.

L’uscita degli States di Trump da ogni ipotesi di accordo sul clima è in linea retta con questa lunga storia di inquinamento strutturale illimitato. E ha il pregio, almeno su questo, di non mistificare, o mistificare meno di Obama. Anche in questo campo è evidente il crack dell’Amerika, costretta dal suo declino a ricercare furiosamente in casa le fonti della propria autonomia energetica, laddove fino a ieri (o quasi) poteva considerare l’intero globo come la sua propria casa. E con questa furiosa ricerca, costi quel che costi, accentua il proprio degrado ambientale, che ha dei costi sanitari, e di egemonia culturale (aspetto di massima importanza nell’instaurazione e nel perdurare del dominio yankee sul mondo), crescenti. Il cane si morde la coda.

Le vecchie infrastrutture a pezzi

Le istantanee che Gaggi scatta ai sistemi infrastrutturali statunitensi sfiorano quasi la denigrazione, se non capissimo quanto dispiaccia all’autore farle. La rete ferroviaria è antiquata; altrettanto antiquati e lenti i treni, con scontri e deragliamenti abbastanza frequenti, data la carenza di investimenti nella sicurezza, i binari sconnessi e gli scarsi controlli elettronici. Estrema pure l’arretratezza delle reti di trasporto urbane a iniziare dalla metro di New York, “il sistema nervoso” della megalopoli “pieno di pezzi da museo”, con il sistema di segnali ancora analogico ed elettromeccanico, e carrozze costruite anche più di mezzo secolo fa, un autentico “museo di archeologia industriale”. Solo per portare a termine l’adeguamento elettronico della rete del metro di New York servirebbero, pare, 111 miliardi di dollari, impossibili da reperire in una città che è già stata più volte sull’orlo del default. Si prosegue con una galleria di ponti che cadono a pezzi, acquedotti che disperdono buona parte dell’acqua che convogliano, o – come a Flint – trasportano acqua contaminata dal piombo (in totale 20-30 milioni di statunitensi abitano in zone con falde acquifere inquinate, alcuni milioni di cittadini senza servizi idrici), “reti elettriche fatte di pali di legno”, molte centrali a carbone antiquate. Benché si sentano fortemente minacciati nel G5 dagli spettacolari progressi cinesi, gli Stati Uniti sono all’avanguardia nel mondo, è evidente, nella rete di internet. Ma il “debito tecnico” nei confronti dei loro più agguerriti concorrenti nel campo delle infrastrutture tradizionali, infrastrutture che hanno tuttora il loro peso nella circolazione delle merci e della forza-lavoro, è crescente, e stimato in qualcosa come 3.600 miliardi di dollari. In un contesto di vera e propria penuria di acqua in alcuni stati e città, la California per prima, avanzano, ed è un classico, i profittatori della privatizzazione della fornitura d’acqua.

Continua – e vedremo, naturalmente, anche il rapporto tra questi elementi del crack e i perduranti punti di forza degli States…

Pungolo Rosso