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[BANGLADESH] Tra crisi mondiale e licenziamenti di Stato, protestano i lavoratori: scendono in lotta le operaie e gli operai tessili della iuta

In Bangladesh, tra i settori economici che a seguito della crisi sanitaria vengono maggiormente colpiti ci sono il tessile-abbigliamento e quello della iuta. 

Quest’ultimo, che era stato per gran parte nazionalizzato con l’indipendenza del paese nel 1972 e che rappresentava una quota importante dell’export e della produzione nazionale,  dopo un decennio cominciò, dagli anni Ottanta ad entrare in crisi, superato dal settore del tessile (anche per l’introduzione  delle nuove fibre artificiali) e dell’abbigliamento pronto, sostenuto quest’ultimo dalle commesse dei grandi marchi internazionali.

La crisi Covid-19 ha dato l’occasione al governo di dichiarare la necessità della chiusura di 27 stabilimenti di sua proprietà, e il licenziamento di decine di migliaia di addetti, regolari e di irregolari legati al settore.

Questi nuovi disoccupati fanno parte del 13% di nuovi disoccupati complessivi prodotti dalla crisi Covid.

In un paese fortemente popolato e povero come il Bangladesh la disoccupazione significa indebitamento insostenibile e che condizionerà la vita delle famiglie per molti anni a venire, perdita di un tetto e la fame nera.

Se si aggiunge il rientro nei villaggi, come è accaduto, significa la diffusione del virus nelle campagne dove fino a un mese fa non aveva imperversato.

Il settore iuta necessita di una ristrutturazione per rimanere sul mercato, che appare in ripresa negli ultimi anni, anche grazie alle campagne ecologiste.

I capitali per farlo lo metteranno i gruppi privati, a cui lo stato sta aprendo la porta. Intanto i lavoratori della iuta non hanno chinato la testa, hanno reagito, si difendono.

Protestano contro i licenziamenti e rivendicano il pagamento di salari e pensioni arretrati da diverse settimane. 

E necessitano anche di una solidarietà concreta e immediata, come alcune organizzazioni sindacali e umanitarie stanno facendo.

Questo si chiama fattiva solidarietà di classe.

La crisi sanitaria e sociale, che sta provocando i primi scioperi spontanei nelle fabbriche dopo decenni, e diviene ora anche crisi economica e finanziaria, mette alla prova i sistemi capitalistici, in Italia e nel mondo intero, e scuote le coscienze in settori della nostra classe cui si chiede di lavorare comunque, anche in assenza delle condizioni di sicurezza che vengono invece imposte al resto della popolazione.

Per la prima volta da decenni assistiamo a scioperi spontanei nelle fabbriche.

Anche nella lotta per ambienti di lavoro sicuri e adeguati dispositivi di protezione individuale, e nelle difficoltà di coloro che sono lasciati a casa con un futuro incerto, deve crescere la coscienza della necessità di lottare per superare questa società divisa in classi.

Contro le ideologie da “unità nazionale” tra sfruttati e sfruttatori.

Il virus globalizzato mette inoltre in chiaro l’inconsistenza delle prospettive di autonomie locali/localistiche, e delle scorciatoie “sovraniste”.

L’unica strada è quella internazionalista, dell’unione tra i proletari di tutto il mondo.

S.I. Cobas


Bangladesh tra crisi mondiale e licenziamenti di Stato, protestano i lavoratori: questa volta a scender in lotta tocca ai lavoratori tessili della iuta

Il governo del Bangladesh ha deciso di chiudere tutti i 25 stabilimenti di produzione della iuta di proprietà dello stato [1] e gestiti da BJMC (Bangladesh Jute Mills Corporation), licenziando i suoi circa 25mila addetti, ma perderebbero il lavoro anche un numero circa uguale di lavoratori irregolari.

La comunicazione della chiusura delle fabbriche è stata fatta il 3 luglio tramite l’affissione di cartelli ai cancelli.

Le fabbriche sono in debito a causa di cattiva gestione, corruzione, mancanza di coordinamento, inefficienza e mancanza di infrastrutture.

La perdita o la mancanza di redditività viene addotta come scusa per esternalizzare la produzione al settore privato, una giustificazione addotta anche per non far pagare ai colpevoli.

Il settore della lavorazione della iuta, è uno dei settori manifatturieri tradizionali più antichi del Bangladesh, produce per circa 1 miliardo di $ l’anno.

Circa il 90% della juta prodotta nel mondo è prodotta in India e Bangladesh.

Lo scorso maggio hanno scioperato quasi 80mila lavoratori di 27 stabilimenti di lavorazione della iuta, chiedendo il pagamento degli arretrati di salari e pensioni, per questo mancato pagamento ora si trovano in estrema povertà e rischiano la morte per fame.

Il licenziamento significa per molti lavoratori anche la perdita di un’abitazione, dato che risiedevano presso il luogo di lavoro, e non hanno una casa in cui tornare nel loro villaggio.

Disoccupazione e assenza di aiuti statali li costringe a finire nella trappola del debito, mentre la crisi pandemica aggrava la condizione di vita generale.

Si calcola che a causa di Covid il 13% dei bengalesi abbia perso il lavoro.

Secondo il rapporto del Bangladesh Institute of Development Studies, circa un quinto (19,23%) di coloro che hanno un reddito mensile inferiore a 5.000 taka (50€, circa) ne hanno perso il 75% dal mese precedente.

Quasi un quarto (23,31%) di coloro che hanno un reddito tra 5.000-15.000 taka (50-150€) ne ha perso il 50%.

Il 7 luglio sono stati arrestati due leader sindacali, Oliar Rehman e Nur Islam, per aver organizzato le proteste nel distretto di Khulna e Jashore contro la chiusura delle fabbriche.

Le autorità locali avevano promesso che gli arretrati sarebbero stati pagati prima della festività musulmana di Eid, il 30 luglio.

La promessa non è stata mantenuta e ora centinaia di lavoratori della fabbrica Asha di Debidwar si sono radunati sulla autostrada Dhaka-Chattogram a protestare, anche contro l’amministrazione.

Ai licenziati sono stati promessi corsi di aggiornamento e la priorità nelle nuove assunzioni, quando le fabbriche verranno modernizzate e riaperte, in partnership pubblico-privato, o in joint venture o …

Secondo i dati dell’Ufficio di promozione delle esportazioni, l’export di iuta e di suoi prodotti è aumentato di circa il 5,74% nei primi 11 mesi dell’anno fiscale 2019-2020 (sensibilità ambientalista), mentre è diminuita di circa il 19% quella di abbigliamento (crisi Covid e cancellazione degli ordini o mancato pagamento da parte dei committenti globali) e del 22% quella di prodotti in pelle, il cui valor di esportazione è ora sorpassato da quello della iuta.

Con il rientro dall’estero di un gran numero di lavoratori bengalesi immigrati vengono a mancare anche le rimesse.

E allevamento, agricoltura e iuta sono attività considerate rilevanti per la ripresa economica.

Gli stabilimenti privati si inseriranno in questa ripresa del mercato globale della iuta…

Potrebbero tornare utili i lavoratori licenziati dalle imprese statali, commenta il giornale Daily Star.

Nel settore privato, prima della crisi Covid erano attive 81 fabbriche riunite nella Bangladesh Juta Spinners Association, e 97 nella Bangladesh Jute Mills Association, con quasi 95.000 dipendenti, secondo le statistiche BJMC.

Fonti: Peoples Dispatch, Daily Star, NewageBD, Dhaka Tribune e Ucanews. Traduzione a cura di G.L.

  1. Il governo nazionalizzò il settore nel 1972, dopo l’indipendenza del paese. La principale ragione addotta per la nazionalizzazione fu evitare la corruzione! Nel 1973 la sua esportazione ammontava all’89,9% del totale delle esportazioni del paese. Negli anni 1980, l’avvento di materiali sintetici, come polietilene e plastica, assieme al forte sviluppo del tessile-abbigliamento, e alla privatizzazione innescarono il declino della produzione di iuta e della sua esportazione. Nel 2010 il governo cercò di contrastarne il declino, varando la legge Mandatory Juta Packaging Act, , che obbligava a utilizzare la iuta per l’imballaggio di 17 prodotti.


http://sicobas.org/2020/08/01/comunicato-tnt-fedex-continua-la-lotta-contro-il-piano-marchionne-della-logistica/