Pubblichiamo qui sotto il contributo “Lo spettro del socialismo é riapparso alla Casa Bianca…” ricevuto dalla redazione de Il Pungolo Rosso e già disponibile sul loro sito (vedi qui).
Questa crisi sanitaria e sociale, che sta provocando i primi scioperi spontanei nelle fabbriche dopo decenni, e diviene ora anche crisi economica e finanziaria, mette alla prova i sistemi capitalistici, in Italia e nel mondo intero, e scuote le coscienze in settori della nostra classe cui si chiede di lavorare comunque, anche in assenza delle condizioni di sicurezza che vengono invece imposte al resto della popolazione.
Per la prima volta da decenni assistiamo a scioperi spontanei nelle fabbriche.
Anche nella lotta per ambienti di lavoro sicuri e adeguati dispositivi di protezione individuale, e nelle difficoltà di coloro che sono lasciati a casa con un futuro incerto, deve crescere la coscienza della necessità di lottare per superare questa società divisa in classi.
Contro le ideologie da “unità nazionale” tra sfruttati e sfruttatori.
Il virus globalizzato mette inoltre in chiaro l’inconsistenza delle prospettive di autonomie locali/localistiche, e delle scorciatoie “sovraniste”.
L’unica strada è quella internazionalista, dell’unione tra i proletari di tutto il mondo.
S.I. Cobas
Lo spettro del socialismo è riapparso alla Casa Bianca…
Avete ascoltato il discorso d’investitura di Trump?
Oltre il prevedibile sciame di virus sciovinisti – la Brave America, l’America nazione eccezionale nella storia del mondo, il destino americano come destino di comando, e via nauseando – contiene una notizia che ha del sensazionale: oggi la grande, potente, invincibile Amerika, l’Amerika “per cui nulla è impossibile”, secondo Trump, è ad un solo passo dal baratro, minacciata dal socialismo, dai marxisti, dalla sinistra radicale, dall’anarchia. Che il miliardiario bianco Joe Biden possa essere l’uomo di paglia del socialismo marxista impersonato da Bernie Sanders, è una boutade degna di quell’impunito, efficace demagogo che Trump è. Resta però, il fatto sensazionale: gli Stati Uniti d’America, per un intero secolo il baluardo dell’anti-comunismo, il gendarme universalmente presente dell’ordine capitalistico, in grado di attingere a inesauribili arsenali di merci, bombe, dollari, film, per bocca del loro comandante in capo, ammettono che il nemico di sempre, che sognavano di avere definitivamente schiacciato, è invece vivo, ed è ricomparso minaccioso addirittura dentro le mura di casa con i movimenti di piazza urbani e i suoi pericolosi agitators. Il rischio paventato da Trump, con un’accorta esagerazione propagandistica, è che questo nemico possa arrivare ad issare la propria bandiera sulla Casa Bianca oltraggiando a morte l’inviolabile tempio della sacra libertà, la libertà di sfruttare a volontà e assassinare esseri umani e natura non umana. Del resto, al di là delle esagerazioni propagandistiche, una delle tante dimostrazioni del BLM lo aveva costretto a rintanarsi in fretta e furia nei sotterranei blindati del palazzo presidenziale, un ‘piccolo’ fatto di un certo interesse, per noi.
Non accadeva dai primi anni del secolo passato che la “sfida socialista” fosse indicata pubblicamente, negli Stati Uniti, come qualcosa di incombente. Allora, come ha raccontato con rapide pennellate Howard Zinn nella sua Storia del popolo americano, “un gran numero di neri e di bianchi, di uomini e di donne divenne insofferente, antipatriottico e tutt’altro che moderato”. La collera della classe operaia esplose nei grandi scioperi degli scaricatori e dei facchini di New Orleans (1907), delle operaie dell’abbigliamento della Triangle Shirtwaist Company di New York e dei lavoratori siderurgici della US Steel di McKees Rocks (1909), delle operaie e degli operai tessili di Lawrence (1912), dei minatori del Colorado (1913-’14) e altri feroci conflitti di classe, con morti (anche tra la polizia), montagne di feriti e arrestati, e condanne a morte di rivoltosi ad opera di una magistratura che prendeva ogni volta la parte dei ricchi. “Fu a quell’epoca che centinaia di migliaia di americani cominciarono a pensare al socialismo. (..) Il socialismo uscì dagli ambienti ristretti dell’immigrazione urbana – socialisti ebrei e tedeschi che parlavano nella propria lingua madre – e divenne americano”. Sono gli anni in cui nasce il Partito socialista e si formano gli IWW, che immettono per la prima volta nelle fila dell’organizzazione sindacale gli immigrati, le donne, gli operai delle qualifiche inferiori, e diffondono una nuova militanza solidale fino ad allora sconosciuta. Sono gli anni della grande letteratura anti-capitalista di Upton Sinclair, Jack London, Theodore Dreiser, Frank Norris. Gli anni del primo movimento femminista e della prima critica al feticcio del suffragio universale da parte di Emma Goldman. Gli anni in cui la stampa dell’establishment diffonde la paura della “marea montante socialista”.
Quella marea è poi rifluita per l’avvento del “secolo amerikano” grazie ai due terribili massacri del 1914-’18 e del 1939-’45 in cui si è forgiato il primato statunitense nel mondo: il primato del capitalismo finanziario e termonucleare. Negli Usa i conflitti di classe non sono mai scomparsi. Sono stati accesi in particolare negli anni ‘30 e ‘60. Ma rispetto ai primi due decenni del secolo ventesimo, la risacca è stata profonda, specialmente sul piano politico-ideologico. L’incontrastato dominio yankee sul mercato mondiale ha consentito, per qualche decennio, l’enorme espansione e l’arricchimento delle classi medie (imprenditoriali, affaristiche, tecniche, burocratiche, militari, religiose), la crescita senza precedenti del potere d’acquisto dei salari operai e, con essa, la penetrazione in profondità del modo di pensare proprio dei capitalisti all’interno della classe operaia. Questo, almeno fino a quando la “suprema razza dello spirito” (capitalistico) non ha trovato sulla propria strada l’insorgenza in armi dei “popoli di colore”, che da Cuba al Vietnam hanno iniziato a demolirne il mito, la supposta missione liberatrice, e hanno iniziato a metterne in discussione i sovrapprofitti. Il tracollo dei paesi del presunto “socialismo reale” a fine anni ‘80 ha dato alle élite del potere statunitensi l’illusione di poter inaugurare il loro “Reich millenario”. Sennonché nell’arco di appena trenta anni, siamo passati da un “Washington consensus” apparentemente onnipotente ai molteplici segni di un incombente crack dell’Amerika: quelli che, del resto, hanno portato Trump là dove è ora, all’insegna del make Amerika great again. Il che registra appunto la diffusa sensazione, corrispondente al reale, di stare perdendo continuamente colpi davanti ai propri concorrenti. L’altro nemico più volte evocato da Trump è stata non a caso la Cina, ma è chiaro che si tratta di un avversario – non di un nemico di classe.
Negli ultimi trenta anni, a più riprese, si sono riaccesi conflitti operai, seppur molto localizzati, e sono ricomparsi in scena, in un contesto nuovo, il movimento pacifista, il movimento dei neri, il movimento delle donne, il movimento “no global”, nella duplice versione di Seattle e di Occupy Wall Street. Ed infine è arrivato a scuotere molte città, nel vivo della crisi da Covid-19, il possente moto nato dopo l’assassinio di George Floyd (di cui abbiamo dato più volte conto). E ogni volta tali movimenti hanno avuto un’eco internazionale, ispirando lotte ovunque, come è avvenuto anche con gli scioperi internazionali dei dipendenti dell’UPS e di Google. Processi discontinui, è ovvio, come lo sono tutte le lotte, ma accompagnati – e questo ci appare fondamentale – da un netto risveglio del dibattito teorico intorno al declino e alla necessaria fine del capitalismo, da un ritorno a Marx e al marxismo che non è un’allucinazione del tycoon-presidente e del suo amico Bannon, ma un dato di realtà.
Una realtà che rende inquieti, se non angosciati, qui da noi, il direttore della Stampa M. Giannini e l’ex-direttore del Foglio G. Ferrara. Il “dramma americano” attuale, così lo chiamano, è che “una nazione in fiamme e mai tanto divisa, impaurita e arrabbiata” viva ora una “polarizzazione [politica] selvaggia” in una contesa elettorale dominata da toni apocalittici, riflesso di una polarizzazione sociale altrettanto brutale. Con atteggiamento di aperta sfida al movimento per George Floyd e al proletariato nero (anzitutto), bianco e brown delle nuove generazioni che lo anima, Trump ha promesso solennemente: ripristinerò la legge e l’ordine con il pugno di ferro, la polizia e, se serve, le forze armate. Ma non ha mancato di far baluginare agli occhi dei salariati in pena per il futuro proprio e dei propri figli, milioni di nuovi posti di lavoro, più scuole per tutte le minoranze, ritorno delle industrie dall’estero, rilancio dell’economia e del benessere.
Chiunque dei due rappresentanti del grande capitale vinca, dietro il decrepito mondo dei gruppi di potere democratico e repubblicano si affaccia d’improvviso lo spettro di un’altra America, quella evocata dal poeta nero Langston Hughes nei versi di Let America Be America Again:
Sono il bianco povero, ingannato e spinto da parte
sono il negro che porta le cicatrici della schiavitù
sono il pellerossa scacciato dalla terra
sono l’immigrante aggrappato alla speranza che cerco
mentre trovo soltanto la solita vecchia stupida solfa
cane mangia cane, potente schiaccia debole […]
oh, fate che l’America torni ad essere l’America
il paese che ancora non c’è mai stato