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[CONTRIBUTO] Il crollo economico dell’Iraq potrebbe essere il primo problema di politica estera di Biden “l’amerikano”

Riceviamo e pubblichiamo il contributo “Il crollo economico dell’Iraq potrebbe essere il primo problema di politica estera di Biden”.

Questa crisi sanitaria e sociale, che sta provocando i primi scioperi spontanei nelle fabbriche dopo decenni, e diviene ora anche crisi economica e finanziaria, mette alla prova i sistemi capitalistici, in Italia e nel mondo intero, e scuote le coscienze in settori della nostra classe cui si chiede di lavorare comunque, anche in assenza delle condizioni di sicurezza che vengono invece imposte al resto della popolazione.

Per la prima volta da decenni assistiamo a scioperi spontanei nelle fabbriche.

Anche nella lotta per ambienti di lavoro sicuri e adeguati dispositivi di protezione individuale, e nelle difficoltà di coloro che sono lasciati a casa con un futuro incerto, deve crescere la coscienza della necessità di lottare per superare questa società divisa in classi.

Contro le ideologie da “unità nazionale” tra sfruttati e sfruttatori.

Il virus globalizzato mette inoltre in chiaro l’inconsistenza delle prospettive di autonomie locali/localistiche, e delle scorciatoie “sovraniste”.

L’unica strada è quella internazionalista, dell’unione tra i proletari di tutto il mondo.

S.I. Cobas


Il crollo economico dell’Iraq

potrebbe essere il primo problema di politica estera di Biden

L’Iraq è sull’orlo di un collasso finanziario, con conseguente rischio del crollo del suo traballante sistema politico, e di una ennesima guerra civile.

Il 17 novembre il primo ministro iracheno Mustafa al-Kadhimi ha avvertito della possibilità che dall’inizio del prossimo anno il governo non sia in grado di erogare salari e stipendi ai dipendenti del pubblico impiego.

Ognuno dei maggiori partiti politici ricopre uno o più incarichi ministeriali, che usano per gestire grandi reti clientelari – strumenti di corruzione che succhiano i proventi statali derivanti dal petrolio e li riversano nelle loro circoscrizioni elettorali: contratti, prebende, e posti di lavoro pubblici.

La dilagante corruzione ha soffocato il già ristretto settore privato dell’economia irachena, mentre il governo è divenuto di gran lunga il maggiore datore di lavoro. Un’enorme percentuale della popolazione irachena conta sullo Stato per il proprio sostentamento, sia direttamente attraverso salari e pensioni, sia indirettamente attraverso contratti o forniture di beni e servizi ai dipendenti statali. Dipendono in ultima analisi dal governo anche le piccole imprese, dato che molti dei loro clienti – soprattutto nelle grandi città – sono alle dipendenze del governo.

Il quale, tramite il sistema di distribuzione pubblico, eroga inoltre mensilmente un “paniere alimentare”, che ha un peso rilevante nella vita quotidiana della classe operaia e degli iracheni poveri.

Dal 2004 è triplicato il numero dei dipendenti pubblici, e l’ammontare complessivo di salari e stipendi è aumentato di 4 volte rispetto a 15 anni fa.

Lo stato iracheno deve ora sborsare 5 miliardi di dollari al mese per pagare stipendi e pensioni, in aggiunta ai 2 miliardi di dollari per i servizi essenziali e i costi operativi, gran parte dei quali è una forma indiretta di sostegno alla popolazione.

Ma, dall’inizio della pandemia COVID-19 e dal crollo dei prezzi del petrolio (i cui introiti rappresentano circa il 90% delle entrate governative), le entrate mensili dello stato iracheno hanno oscillato tra i 2,5 e i 3,5 miliardi di dollari. Il che significa che Baghdad ha un deficit mensile tra i 3,5 e i 4,5 miliardi di dollari.

Ad ottobre le riserve della Banca Centrale irachena ammontavano a 53 miliardi di dollari. II parlamento ha dipoi approvato una legge che ha permesso al governo di prendere in prestito 10 miliardi di dollari per pagare gli stipendi di ottobre, novembre e dicembre 2020, portando il debito totale dell’Iraq ad 80 miliardi di dollari. (fonti di governo e proposte di bilancio)

Per il rimborso degli interessi e del capitale su questi prestiti, occorrono oltre 12 miliardi di dollari l’anno, con un ulteriore aggravio del deficit statale.

Dato che le riserve valutarie dell’Iraq stanno già prosciugandosi, il governo è costretto a stampare moneta per pagare i prestiti per gli stipendi e i costi operativi, con il rischio di forte inflazione, per evitare la quale potrebbe presto svalutare il dinaro, con conseguenti rischi politici – maggiori costo delle importazioni di alimentari e beni, svalutazione dei risparmi – e possibilmente anche un aumento dell’inflazione.

Da sottolineare che l’Irak importa quasi tutto tranne il petrolio. Il governo spera in un aumento del prezzo del petrolio la prossima primavera, ma le previsioni di vari analisti e società commerciali sono di un incremento del 10-15%, troppo poco per risolvere la crisi irachena. C’è anche la possibilità che i prezzi petroliferi non aumentino affatto nel caso che sauditi e russi accrescano la propria produzione per rispondere all’incremento delle esportazioni di Irak, Libia e Iran.

Ad ottobre il governo iracheno ha presentato un libro bianco di riforme, che però non ha avviato, non ha perciò tagliato i costi e neppure eliminato le centinaia di migliaia di cosiddetti “dipendenti fantasmi” sui suoi libri paga, per timore di irritare importanti capi politici.

Al momento della sua nomina a primo ministro, Kadhimi aveva un ampio consenso: da parte della piccola borghesia irachena, delle migliaia di persone che protestavano nelle strade, dell’establishment religioso sciita iracheno, dei partiti politici sciiti moderati, di molti sunniti e persino dei curdi. Era considerato capace, apolitico, efficace e filo-americano.

Ora però, molti partiti iracheni potrebbero cercare di farne il capro espiatorio della crisi per pararsi dall’inevitabile protesta popolare.

Intanto gli iraniani, contrari a Kadhimi, potrebbero sfruttare il caos per riaffermare la propria influenza sul governo iracheno, il quale faticherebbe a controllare la situazione se non riesce a pagare i salari e se il Primo ministro perde credibilità.

Il vuoto potrebbe essere occupato da gruppi armati e gruppi tribali, comprese le milizie armate e appoggiate dall’Iran, che assumerebbero il ruolo di forze di sicurezza del paese. Questi stessi gruppi lotterebbero però tra loro per il controllo del territorio e delle fonti di introiti: campi petroliferi, porti, valichi di confine, grandi gruppi, terreni agricoli e proprietà private. Potrebbe essere al di fuori da questa lotta di spartizione il Kurdistan, in quanto dispone di una sua efficiente forza di sicurezza, ma non potrà evitare i problemi economici, dato che dipende finanziariamente dal governo centrale di Baghdad. A meno che riesca a riprendersi Kirkuk e il suo petrolio. Nel qual caso si riaccenderebbe lo scontro con Baghdad, come pure con le milizie sciite, non disposte a perdere questi introiti…

La ripresa della guerra civile coinvolgerebbe le potenze regionali, come già nel 2005-2007 e di nuovo nel 2014-2017, che combatterebbero sia contro gli iracheni che tra di loro.

A cominciare dalla Turchia, che si sentirebbe minacciata dalle conquiste curde, soprattutto se il Kurdistan iracheno si riprende Kirkuk, e giustificherebbe la sua ingerenza con la difesa dei gruppi turkmeni.

L’Iran, che già sta cercando di riprendersi il controllo su Baghdad, non accetterebbe di perdere gli introiti derivanti dal commercio con l’Irak, (attorno ai 12MD di $.), dal contrabbando e l’accesso ai mercati finanziari internazionali.

L’Arabia Saudita potrebbe contrastare l’Iran appoggiando tribù e gruppi armati sunniti, finanziariamente e con armi, non potendo contare, come fece nel 2006, su una forte presenza militare statunitense.

Data l’importanza dell’Irak per la regione e per il mercato petrolifero internazionale, gli Usa non starebbero a guardare, anche se Biden nei primi sei mesi della sua amministrazione, in presenza della crisi pandemica ed economica interna, non potrà farne una priorità.

La crisi in arrivo in Irak è una crisi di liquidità.

Una soluzione prospettata dagli articolisti[1] è che le potenze forniscano un sostegno finanziario, ponendo delle condizioni: misure di austerità, tagli significativi alla spesa pubblica, severe misure anticorruzione, integrazione del personale delle milizie nell’esercito iracheno – che dovrebbero così rispondere al governo iracheno. Il calcolo è che gli Usa possano fornire 1MD$, da aggiungere, 5-10 MD da raccogliere tramite BM, FMI, paesi del Golfo, e qualche paese europeo ed est-asiatico.

Gli “aiuti” internazionali avrebbero un altro obiettivo fondamentale, rafforzare il primo ministro Kadhimi, e consentirgli di far fronte ai partiti politici iracheni, alle milizie e cleptocrati.

[1] Farhad Alaaldin: presidente dell’Iraq Advisory Council ed è stato consigliere politico degli ultimi due presidenti dell’Iraq; Kenneth M. Pollack; membro l’American Enterprise Institute.

Fonte: Foreign Policy, 14.12.2020 – traduzione a cura di G. L.