Lotta contro i licenziamenti, salario garantito, nazionalizzazioni
di Roberto Luzzi
La discussione avviata sulle rivendicazioni del Patto d’Azione, sulla patrimoniale come sulle nazionalizzazioni deve a mio parere poggiare su basi materialistiche. Certo serve consultare i nostri maestri, ma con lo stesso loro spirito e metodo materialista: partire dal modo di produzione capitalistico come analizzabile con gli strumenti del marxismo per individuare le contraddizioni e le forze su cui fare leva per il suo rovesciamento rivoluzionario, nella società senza classi.
La discussione non può risolversi in una esegesi dei testi più o meno sacri. Il principio cui dobbiamo ricorrere non è quello di autorità, ma quello della capacità di orientare il movimento reale nel ginepraio della società capitalistica, nello scontro sul piano economico, sociale e politico con il capitale, con la borghesia, con il suo stato, nel contesto del mercato mondiale.
Il compagno Marco Ferrando sostiene la rivendicazione della nazionalizzazione senza indennizzo delle proprietà capitalistiche che chiudono; i compagni di Classe contro Classe sostengono la loro espropriazione. La discussione verte quindi sulle imprese, aziende, unità locali CHE CHIUDONO.
Non si parla di nazionalizzare o comunque espropriare le aziende che vanno bene. Si tratta quindi di azioni DIFENSIVE, in situazioni in cui i lavoratori sono minacciati di licenziamento. Un aspetto su cui la discussione ha fin qui sorvolato.
È il caso di chiedersi perché le aziende vengono chiuse o ridimensionate con licenziamenti. In genere, perché sono in perdita; o perché danno meno utili di altre unità produttive (magari dislocate in un altro paese). I capitalisti chiudono un’azienda perché è perdente nella concorrenza sul mercato (mondiale). Se vi realizzassero forti utili, sarebbero degli imbecilli a chiudere, a privarsi dell’attività lavorativa che produce plusvalore e permette loro di realizzare lauti profitti. Semplificando, quello che si propone è quindi la nazionalizzazione o esproprio di aziende alle quali i capitalisti non sono più interessati; per conservare i posti di lavoro che non producono utili si opta per la socializzazione delle perdite: in capo allo Stato nel caso della nazionalizzazione, in capo al collettivo che espropria” l’azienda (ma come la mettiamo con la titolarità giuridica, con le garanzie reali nei rapporti commerciali e finanziari? perché dopotutto dovranno anche loro aver a che fare con fornitori e clienti capitalistici entro il quadro giuridico borghese).
Nel panorama sindacale italiano, e non solo, i sindacati concertativi mobilitano i lavoratori ormai solo quando l’azienda chiude o sta per chiudere e i lavoratori sono con l’acqua alla gola. Quando va bene si presidiano le merci rimaste in magazzino e i macchinari, per non lasciare svuotare i capannoni. Sono ormai rarissimi i casi in cui i lavoratori occupano l’azienda, ponendosi l’obiettivo del “controllo operaio”. A seguito della crisi del 2008-10, nella grandissima maggioranza dei casi lavoratori e lavoratrici hanno preferito seguire il copione offerto da CGIL-CISl-UIL nelle sue varie varianti: la ricerca del buon padrone che continui l’attività; la ricerca di attività alternative, di un “piano industriale”; la ricerca di soluzioni ponte che evitino i licenziamenti (mobilità, prepensionamenti, buonuscite ecc.); il tutto con contorno di incontri con sindaci, assessori, Ministero. Qui lo Stato appare come l’entità che salva i lavoratori dalle intemperie del mercato, che con gli ammortizzatori sociali permette loro di sopravvivere e guadagnare tempo in attesa di un ricollocamento o della pensione. E in queste occasioni i sindacati concertativi sono seguiti dalla massa perché hanno le chiavi della mediazione con le istituzioni.
Ma supponiamo che i lavoratori, combattivi, lottino e ottengano che lo Stato requisisca l’unità produttiva in perdita e, si suppone, continui a farla produrre quello che produceva prima (e che era fuori mercato). Se l’unità produttiva faceva parte di un gruppo, che se ne libera, risulterà impossibile continuare a produrre separandosi dalle catene di approvvigionamento e fornitura (e reti di vendita) del gruppo, quindi si dovrebbe mettere in piedi ex novo catene di approvvigionamento sul mercato mondiale (verosimilmente spuntando prezzi meno favorevoli dato il minore potere di mercato) e una rete di vendita. Se invece era un’azienda a sé stante, si tratta di riuscire dove il vecchio padrone / la vecchia dirigenza aveva fallito. Dovrebbe farlo lo Stato, tramite un curatore fallimentare o un manager di nomina pubblica, “sotto controllo operaio”. Oppure, nel caso dell’esproprio tout court, dovrebbero farlo gli operai, dopo essersi improvvisati manager. Dovranno riuscire a stare sul mercato, là dove i vecchi manager avevano fallito. Perché il prodotto resta una MERCE, che deve essere venduta sul MERCATO, in regime di concorrenza.
Una volta che prenderanno in mano i libri contabili, e faranno i conti sui costi dei componenti, i costi di esercizio, gli indicatori di produttività, ecc. si renderanno conto che occorrerebbero ad es. nuovi macchinari, per acquistare i quali dovranno rivolgersi alle banche, che se faranno loro credito chiederanno alti tassi di interesse dato l’alto rischio (oppure, nel caso di esproprio da parte del collettivo, dovranno impegnare il loro TFR, rischiando il tutto per tutto), e si troveranno a disporre di un’unica “variabile indipendente” su cui possono agire per diventare più competitivi: il “costo del lavoro”, l’abbassamento del loro salario…
Non c’è nessun “controllo operaio” che possa controllare il mercato mondiale, che mette i lavoratori direttamente in concorrenza coi lavoratori delle imprese concorrenti. Il controllo operaio può controllare che la dirigenza non rubi all’azienda (cosa che succede più spesso di quanto si pensi), ma non può assicurare che un’azienda stia sul mercato. Una volta che i revisori dei conti operai verificheranno che il bilancio è in rosso, l’alternativa sarà tra chiedere allo stato di coprire le perdite,e proporre intensificazione del lavoro, riduzioni dei salari, tagli occupazionali… Quindi: socializzazione delle perdite (facendosi mantenere in un modo o nell’altro da quei lavoratori il cui lavoro genera profitti ed entrate fiscali) e/o aumento dello (auto)sfruttamento e licenziamenti. Non c’è nessun potenziale di “transizione” verso il superamento del capitalismo, o verso una forma di potere proletario in questi processi. Al massimo, il collettivo dei lavoratori che “controlla” quanto sia dura la concorrenza sul mercato mondiale potrà arrivare a concludere che la via d’uscita è un’altra: abbattere il potere borghese, abolire il lavoro salariato… E darsi gli strumenti di organizzazione indipendente di classe necessari. Né l’altra soluzione, l’esproprio diretto da parte dei lavoratori cambia significativamente la situazione rispetto alla statalizzazione.
Ho descritto questi percorsi per calare la discussione sulle rivendicazioni e gli slogan dall’empireo delle astrazioni dentro la dura realtà della società capitalistica. Le due varianti proposte hanno in comune il fatto di considerare indissolubile, o comunque di lottare perché non si dissolva, il legame tra l’azienda e i lavoratori. Sappiamo benissimo che non è così. Il capitalismo ha slegato la forza lavoro dalla gleba e dalla gilda o corporazione artigiana, l’ha resa fluida merce destinata alla compravendita sul mercato. La precarietà è l’altra faccia di questa libertà. La forza lavoro è “affittata” per un determinato periodo da un capitalista, che termina il contratto quando non gli serve più, e dopo un periodo di disoccupazione il lavoratore troverà un altro capitalista interessato ad utilizzarla.
Il contratto a tempo indeterminato non è un contratto a vita. La stessa azienda, porzione del capitale sociale accumulato, ha un’esistenza precaria soggetta alla concorrenza delle aziende rivali, e in ogni nuovo settore le migliaia di aziende concorrenti iniziali sono destinate a perire o essere fagocitate dalle poche vincenti nel processo di concentrazione. La rivendicazione automatica della nazionalizzazione implica l’obiettivo di perpetuare l’azienda che il mercato ha bocciato: è questo il ruolo che vogliamo proporre per lo Stato?
Per quanto detto sopra, la lotta per il posto di lavoro nelle aziende che chiudono è una lotta perdente nella grandissima parte dei casi. Se riteniamo di sostenerla tra i lavoratori minacciati di chiusura e di licenziamento non è perché ci piace perdere, ma perché riteniamo che nella lotta, con i picchetti e l’occupazione dell’azienda, i lavoratori possono acquisire coscienza di classe più che se si affidano alle mediazioni con le istituzioni, ma divengono protagonisti in prima persona, contrastando le posizioni rinunciatarie dei burocrati sindacali, imparando a conoscere i meccanismi economici, sociali, giuridici del capitalismo, e spesso anche le persone dei capitalisti, degli azionisti, dei dirigenti, il ruolo delle banche, ecc. E lo spietato funzionamento del capitalismo, della concorrenza tra i capitali in cui le persone, i lavoratori, sono solo delle pedine usa e getta. Possono acquisire una coscienza anticapitalista, coscienza della necessità di lottare per rovesciare il capitalismo, per una società in cui né la forza lavoro né i prodotti siano più merci.
Se da un lato nella lotta per la difesa del posto di lavoro si fa leva sulla comunità e solidarietà aziendale tra lavoratori, dall’altra occorre avere presente l’aspetto negativo dell’aziendalismo, del corporativismo che antepongono l’azienda alla classe. La rivendicazione unificante, che attraversa i perimetri aziendali, è quella del SALARIO MEDIO GARANTITO per i lavoratori disoccupati, sottoccupati, sottopagati. Questa rivendicazione parte dalla visione del proletariato come classe costretta a vendere la propria forza lavoro al capitale, che la acquista solo nella misura in cui ne ricava un profitto/ plusvalore; questa classe che produce tutta la ricchezza della società ha “diritto” ricevere i mezzi del proprio sostentamento anche quando la sua forza lavoro non è utilizzata dalla borghesia. La lotta per il salario medio garantito rompe i recinti dell’aziendalismo, unificando tutti i lavoratori minacciati di licenziamento, licenziati, disoccupati, sottoccupati, sottopagati, cosa importante in una situazione di crisi che estende il loro numero.
Un’obiezione facile è che, una volta ottenuto il salario medio garantito, i proletari, sentendosi garantiti, non avranno più la spinta a combattere il capitalismo. Sappiamo che la borghesia non concederà mai un salario medio garantito senza scadenza, perché ha bisogno che la condizione di disoccupazione sia una condizione di bisogno che spinga i proletari a offrire la propria forza lavoro a basso prezzo. La rivendicazione del salario medio garantito non ha per scopo quello di creare un capitalismo dal volto umano, eliminando la precarietà, ma quello di unificare i diversi strati del proletariato (di cui molti non organizzabili sindacalmente) in una lotta politica di classe, che può essere organizzata su base territoriale e nazionale. Su cui, di nuovo, far crescere una coscienza anticapitalista. Essa si combina con la rivendicazione di una massiccia PATRIMONIALE DEL 10% SUL 10% più ricco, una destinazione della quale è proprio il salario medio garantito.
Porre la rivendicazione del salario garantito in una situazione di minaccia di chiusura e licenziamenti, contrapponendola a quella della difesa del posto di lavoro, sarebbe però un errore, perché significherebbe dare per persa una battaglia appena iniziata. Nelle lotte che si aprono contro chiusure e licenziamenti occorre proporre le forme più radicali di lotta, innanzitutto l’OCCUPAZIONE DELLA FABRICA per impedire di portar via macchinari e merci, e spingere i lavoratori prendere in mano in prima persona la lotta. Ma allo stesso tempo va indicato anche l’obiettivo del SALARIO MEDIO GARANTITO come rivendicazione unificante delle diverse situazioni di crisi aziendali e come alternativa agli ammortizzatori sociali, a partire dalla NASPI che copre poco più di un disoccupato su dieci, e per importi che assicurano la miseria. È chiaro che si tratta di un obiettivo perseguibile solo sul piano NAZIONALE, non aziendale, e che se non c’è in piedi un movimento per conquistarlo al quale collegarsi, la sua proposizione rimane sul piano propagandistico. Per questo sarà importante, come Patto d’Azione, fare una campagna per il salario medio garantito quando, terminato il blocco dei licenziamenti il 31 marzo, si aprirà uno stillicidio di licenziamenti e chiusure aziendali.
Per questi motivi ritengo si debba saper combinare, nelle diverse situazioni, la lotta per la difesa del posto di lavoro con la rivendicazione del salario medio garantito, a fianco della rivendicazione ancora più generale della RIDUZIONE GENERALIZZATA DELL’ORARIO DI LAVORO senza perdita di salario come lotta per contrastare la disoccupazione da un lato, e l’intensificazione brutale dello sfruttamento e il prolungamento dell’orario di lavoro dall’altro.
Diversa sarebbe la situazione in cui un movimento di lotta in ascesa ponesse il problema del controllo operaio sulla produzione, sui conti aziendali, sull’arricchimento eccessivo degli azionisti, mettendo in discussione la stessa proprietà borghese accumulata sul lavoro salariato. Una situazione prerivoluzionaria, ben diversa da quella attuale in cui, nonostante che la crescente polarizzazione sociale più che giustificherebbe la messa in discussione del sistema capitalistico, i lavoratori si muovono per salvare la pelle senza mettere in discussione la propria condizione di schiavi salariati.
È dalla realtà dei rapporti di classe e della (mancanza di) coscienza della classe lavoratrice che occorre partire, se vogliamo definire delle rivendicazioni che rispondano ai bisogni delle masse e le orientino nella loro messa in movimento, facendone lievitare la coscienza.
(Nella foto in prima: sciopero degli operai dell’acciaieria ex Ilva – Arcelor Mittal di Taranto, occupano tre strade statali per protestare contro la chiusura di uno degli stabilimenti siderurgici più grande d’Europa)