Riceviamo e pubblichiamo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso questo contributo, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
Genova 2001, un’eccezione?
Santa Maria Capua Vetere 2020, un’eccezione?
Ecco un’altra “eccezione”: Palermo, 8 luglio 1960.
Un interminabile seguito di “eccezioni”
A vent’anni dalla violenta repressione di stato a Genova contro i manifestanti no-global, in cui fu ucciso Carlo Giuliani e furono feriti e menomati dai gas in centinaia, la stampa del regime Draghi si è profusa non solo nelle scontate litanie contro i violenti e i “black bloc”, ma anche nella giustificazione dell’accaduto come “eccezione”. Se qualche “eccesso” ci può essere stato, per esempio alla Diaz, non lo si deve mai attribuite al sistema, alla democrazia borghese in quanto dittatura di classe che ha sempre pronto il ricorso ad ogni tipo di violenza quando questo ricorso si renda utile o addirittura indispensabile, bensì alla “sospensione”, localizzata e quanto mai provvisoria, della democrazia per mano di qualche individuo di secondo o ultimo piano fuori controllo. Stessa manfrina per i selvaggi pestaggi, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dei detenuti comuni (non dei capi camorristi, però – anche nelle carceri ci sono le classi sociali e le relative gerarchie sociali, lo ricordiamo a certi compagni romantici per i quali basta essere detenuti per essere dei “nostri”): è un’altra eccezione. Poco importa se a Genova gli ordini vennero manifestamente dall’alto; poco importa se i protagonisti diretti della repressione di Genova sono stati promossi ad alti o medi incarichi (con tanto di attestati di diligenza e buona condotta) e quelli responsabili della mattanza di Santa Maria Capua Vetere sono rimasti al loro posto – la frottola da far circolare a reti e giornali unificati è: la democrazia è sempre giusta, e altrettanto giusto è il suo esercizio monopolistico della violenza. Lo stato borghese travestito da “buon padre di famiglia” che mantiene l’ordine a beneficio dell’intera “comunità”, e non quale realmente è: il professionale, articolato, torbido strumento di oppressione di classe a solo ed esclusivo vantaggio della classe capitalistica e dei suoi servitori.
Reagendo a questa insopportabile retorica delle “eccezioni”, un compagno di Rifondazione ci ha segnalato un testo che volentieri pubblichiamo qui di seguito. Il testo si riferisce alla repressione nel sangue di una delle tante manifestazioni di piazza del luglio 1960 contro l’avvento del governo Tambroni, avvenuta a Palermo l’8 luglio. La cronaca mostra le stupefacenti affinità tra il modo di operare di polizia/carabinieri nel 1960, nel 2001 e nel 2020, ma anche quanta sciagurata, disarmante fiducia i capi riformisti nutrissero nelle forze di repressione dello stato, a differenza dei settori proletari e militanti più coscienti, pronti e disposti allo scontro. Quel giorno a Palermo 40 persone furono medicate per ferite da armi da fuoco, ci furono centinaia di feriti e contusi, quattro assassinati: Giuseppe Malleo di 16 anni, Andrea Cangitano di 18 anni e Francesco Vella, un operaio di 42 anni freddato mentre assisteva un ragazzo ferito da un lacrimogeno. A loro va aggiunta Rosa La Barbera, una donna di 53 anni raggiunta da uno dei tanti colpi sparati all’impazzata, mentre si apprestava a chiudere la finestra di casa.
“Scrivevo l’altro ieri che sappiamo non essere sporadica ma organica e propria dello Stato borghese la funzione di contrastare la lotta di classe, come sempre fatto nel corso della sua storia.
“La violenza scatenata a Genova nel luglio del 2001 da parte delle c.d. ‘forze dell’ordine’, non fu un fatto nuovo, straordinario, essendosi più volte manifestata nella storia del nostro paese.
“Basti guardare alla barbarica violenza esercitata da polizia e carabinieri l’8 luglio 1960 a Palermo, come documentata nel libro di Angelo Ficarra 8 Luglio 1960 – La Battaglia di Palermo (a cura dell’Anpi), con nota introduttiva di Giuseppe Carlo Marino, da cui ho tratto i passi che qui sotto trascrivo.
<<La classe dirigente della città di Palermo tenta di stendere un velo di silenzio su quanto accadeva l’8 luglio dentro palazzo Comitini allora sede della Prefettura. Lo fa secondo un antico canovaccio ormai collaudato che era pure servito a rimuovere un altro terribile episodio di violenza proprio lì accaduto nel 1944: la strage a colpi di bombe a mano e di mitra di inermi cittadini di Palermo, fra cui moltissimi ragazzi e bambini con 24 morti e 158 manifestanti feriti. Sì, proprio lì, davanti il palazzo Comitini. La strage del pane come fu all’inizio indicata, forse con un velo di vile distacco dalla tragedia, forse anche per sottolinearne la povertà di appartenenza [dei dimostranti] e quindi anche la natura di colpevole vandea. Erano questi ancora altri aspetti terribili della violenza.
Gli arrestati l’8 luglio a centinaia [ci furono trecento fermi, e – alla fine – 71 arresti] venivano scaricati in Prefettura dalle camionette della polizia e dai cellulari dei carabinieri e, a via di urla volgari di “cornuti”, “sporchi comunisti”, venivano spinti dentro il cortile della stessa prefettura dove erano costretti a passare fra due fila di poliziotti urlanti che a sputi e a calci li indirizzavano per ammassarli e rinchiuderli in una grande stanza in fondo. Il proposito di umiliare, di deprimere, di ridurre quella gente a stracci umani, senza più una volontà, quasi senza rispetto di se stessi, fu subito evidente.
Dal quotidiano L’Ora, 13-14 luglio 1960
Giacomo Di Giugno, 28 anni, laureando in medicina. Ho visto uccidere il giovane Gangitano. Erano circa le ore 19. In piazza Verdi si era radunata una folla in gran parte composta da coloro che cercavano di allontanarsi da via Ruggero Settimo dove poco prima erano stati lanciati dei candelotti lacrimogeni. La gente aveva gli occhi rossi ed era confusa: stava ferma a gruppi in vari punti della piazza. Un folto gruppo era davanti alla scalinata del Massimo. Ad un certo punto da dietro il teatro, forse da via Volturno, sopravvennero alcuni camion o jeep carichi di carabinieri e agenti. In quel momento la piazza era calma. Ma all’improvviso gli armati scesero dai loro mezzi e si lanciarono addosso alla gente picchiando all’impazzata con i manganelli e i calci dei fucili. Alcuni cittadini furono così abbattuti e lasciati per terra, molti altri furono afferrati brutalmente e sospinti con calci e pugni sui camion. Allora i giovani che erano fra la folla cominciarono a disselciare il marciapiede e a lanciare sassi contro i poliziotti i quali furono costretti a ritirarsi verso la via Cavour. A questo punto cominciarono a sparare dapprima in aria. Poi, avvertendo le pallottole frusciare fra gli alberi piuttosto bassi della piazza, mi resi conto che abbassavano il tiro. I dimostranti cominciarono a diradarsi riparandosi nelle stradine adiacenti. Anche io, che ero con alcuni altri studenti e cittadini, fra cui un signore anziano (forse un medico o un farmacista a giudicare dai discorsi) cominciai a fuggire per ripararmi. Mi trovai così accanto ad un giovane bruno quasi della mia altezza e imboccammo assieme via Salvatore Spinuzza. Mentre ci dirigevamo verso un vicolo che sbocca in via Bara, mi girai un momento e vidi distintamente un poliziotto appostarsi all’angolo della valigeria e mirare verso di noi con un’arma da fuoco che aveva una grossa canna, forse un mitra, e sparare. Subito dopo vidi il giovane che era accanto a me portarsi una mano al fianco e contrarre il viso per il dolore. lo sorressi abbracciandolo e lo condussi al riparo nel vicolo vicino. Cominciai a chiamare aiuto. Nessuno dapprima venne perché la polizia continuava a sparare. Finalmente si avvicinarono alcune persone che sollevarono il ferito e lo caricarono su una macchina. Seppi dopo che si trattava di Andrea Gangitano [di anni 18].
Manlio Guardo, 26 anni, via Marchese Ugo n. 58 – dottore in chimica, dirigente della F.G.C.I. di Palermo. Un ufficiale mi urlò: “Ho il diritto di ucciderla!”. Ore 13.03: all’angolo fra via principe di Belmonte e via Ruggero Settimo scorgo un folto gruppo di dimostranti che comincia a costruire una barricata con quanto riesce a trovarsi intorno. Insieme con il segretario della Camera del lavoro Pio la Torre mi caccio in mezzo alla calca. Cerchiamo di impedire che si continui ad accumulare ostacoli sulla strada, intuiamo che già questo costituirà un buon pretesto per la reazione delle forze di polizia. Ma quando tentiamo di trascinare con noi la folla in direzione del Politeama, giovani e vecchi ci affrontano: “che calma volete, gridano, chisti sparanu, chisti ammazzanu!”. Tutti sapevano dell’eccidio di Reggio, tutti temevano il peggio, eravamo certi che il peggio sarebbe presto venuto. La nostra fatica tuttavia non è inutile. Riusciamo a farci seguire dalla maggioranza del gruppo fino alla piazza. A questo punto un autocarro dei carabinieri carico di uomini armati di moschetto o di mitra si avvia dal centro della piazza verso la barricata improvvisata, mentre dai quattro canti di campagna giungono delle camionette della celere. I carabinieri scendono dal camion, sono molti, il loro sguardo è quello di uomini febbricitanti, qualcuno – appena a terra – spiana l’arma. Dall’altra parte vola una sassata. Una voce grida: “no! Ai carabinieri no!”. La gente sa chi ha sparato a Reggio Emilia e la vecchia tradizione di rispetto per la benemerita non si è ancora spenta in Sicilia. Più tardi verrà scossa alquanto. Vedo il commissario Nicolicchia avanzare alla testa dei carabinieri, gli vado immediatamente incontro: “per carità, gli dico, che i suoi uomini non perdano la testa senza ragione, ci sono tutte le possibilità di evitare i guai”. “Va bene, fa lui, cerchi di trattenerli”. E li tratteniamo, infatti, ma non è che una beffa. Alle nostre spalle si è disposto un reparto della celere, ed è la carica, violenta, spietata. Gli agenti digrignano i denti ed urlano come lupi. Si avventano su quelli che corrono e su gli altri che stanno fermi e guardano, indiscriminatamente. In quel momento mi rendo conto che questi uomini non sono, non possono essere in un normale stato fisiologico. In quel momento dal fondo di via Enrico Amari si preparava l’offensiva, evidentemente studiata a tavolino, nei minimi particolari. Una formazione di camionette, autocarri, autocisterne munite di idranti, procedeva come su un campo di esercitazione verso via Ruggero Settimo e Piazza Castelnuovo con un massiccio coro di sirene. Gli idranti entravano in azione improvvisamente all’altezza del teatro e nello stesso istanze le jeep improvvisamente acceleravano la marcia e si scagliavano sulla folla. Poi il grosso dell’autocolonna imboccava via Libertà, le autocisterne in testa con gli idranti in azione. Credo che in parte si trattasse di acqua colorata. I gruppi di dimostranti temporaneamente dispersi tornavano a costituirsi in piazza Castelnuovo, ma non era finita. Sul marciapiede, dalla parte di via Dante, è schierato un altro reparto di agenti al comando del commissario Campagna e del maresciallo Bertolozzi. Si muovono. Prevedo come andrà a finire e mi rivolgo al commissario. Immagino che il suo comportamento non debba essere diverso da quello del suo collega di prima. Ma l’immaginazione non è evidentemente in questi frangenti la qualità più utile. La conversazione si svolge all’inizio in modo normale. Accanto a me sono adesso altri due giovani dirigenti del pci, Messina e Piero Calcara. Partecipano anch’essi. Spieghiamo assieme (quasi fosse necessario) che non vi è nessuna ragione di arrivare a una strage, che si deve mantenere la calma, soprattutto fra gli agenti, perché nessuno riuscirebbe a contenere l’indignazione della folla se si insistesse con la violenza. Improvvisamente il tono cambia, mi si chiede di qualificarmi e quando lo faccio, i due funzionari assumono un comportamento arrogante e provocatorio, ci accusano perentoriamente di essere sobillatori e istigatori alla violenza. Ormai l’intenzione è più chiara. Viene la dichiarazione d’arresto, vengono le manette che – applicate in fretta e furia – segano il polso sinistro producendo un dolore insopportabile. Il maresciallo Bertolazzo – prima evidentemente distratto – mi urla dietro finalmente: “in nome della legge!”. Veniamo caricati tutti e tre su una camionetta sopraggiunta. Con i polsi imprigionati ho avuto difficoltà a montare. Questo ha ulteriormente imbestialito gli agenti che si sfogano sulla mia schiena, gli altri non ricevono un trattamento diverso. È questo per noi di una avventura incredibile. Non ci dirigiamo verso la Questura, la nostra jeep continua a partecipare all’azione del suo reparto come se nulla fosse avvenuto. Per oltre mezz’ora percorriamo la città da un capo all’altro. Via Amari, via Wagner, via Scordia, via Principe di Belmonte. Qui, ad una fermata durante la quale gli agenti si avventano contro un portone chiuso, ha luogo l’episodio più significativo e più mostruoso. Mentre sono disteso sul fondo dell’auto, sotto i piedi degli agenti con la sola testa fuori del bordo, un ufficiale che sta fuori sulla strada mi viene vicino e ponendo la mano destra sul fodero della pistola urla: “Delinquente, io ho il diritto di ucciderla, ho il potere di ucciderla, la uccido!”- Per buona sorte la jeep in quell’istante riparte. Se il diritto è solo una questione di fatto, allora la distanza è la migliore difesa. I caroselli della nostra jeep continuano, ritorniamo in via Enrico Amari. Ci fermiamo ad ogni piè sospinto. Gli agenti tremano. La paura è più che evidente sui loro volti, una paura folle, quasi avessero dinanzi un esercito armato di cannoni piuttosto che una folla assolutamente inerme. Il resto è quello strano stato di eccitazione che descrivevo al principio. Cominciarono a lanciare una quantità interminabile di candelotti lacrimogeni. È un momento molto brutto per noi che non abbiamo occhiali e non sappiamo come proteggerci, e dura a lungo. Per un miracolo finalmente ci allontaniamo dalla zona. Sta per raggiungere la “Cairoli”, ci vorrà almeno un quarto d’ora. Un quarto d’ora di cariche, caroselli, aggressioni e tutti i passanti, anche in posti lontanissimi dal teatro degli scontri, come al palazzo di giustizia, dove bastonano un ragazzo che tiene in mano un cono gelato. Quando giungiamo in Questura un nugolo di agenti è disposto lungo il colonnato. È un corridoio di colpi di ogni specie e di insulti. I più giovani hanno la peggio: gridano e piangono. Vi sono ragazzi di 14 e 15 anni. Mentre li perquisiscono continuano a bastonarli. Finiamo tutti in una cella di cinque metri quadrati e siamo in 25. È una fornace nella quale rimarremo molte ore senza un sorso di acqua. Quando verso mezzanotte saremo trasportati e rinchiusi nella sala colloqui dell’Ucciardone avrò modo di misurare gli effetti di quel trattamento. Siamo circa 330. Vi sono ragazzi che hanno perso la camicia o se ne sono disfatti quando era in pezzi. Ci mostrano la schiena segnata da dieci, dodici, quindici colpi di manganello. Uno ha un gonfiore sul rene destro grosso come una pagnotta e soffre orribilmente. Un ragazzo ha una larga ferita sanguinante sullo zigomo destro e non riuscirà a ricevere alcuna cura. Uno dei miei compagni, studente di medicina, è ferito all’occhio destro, vi è un taglio profondo e una larga ecchimosi. È stato un colpo di manganello. Un signore anziano, pelato […] ha la schiena letteralmente martoriata, contrassegnata da una quantità di colpi>>.
23 luglio