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[CONTRIBUTO] Cisgiordania: coloni e soldati israeliani uniti per ammazzare palestinesi

Riceviamo e pubblichiamo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso questo contributo, già disponibile sul loro sito (vedi qui):

Cisgiordania: coloni e soldati israeliani uniti per ammazzare palestinesi – Invicta Palestina

Riprendiamo dal sito Invicta Palestina un dettagliato rapporto su quanto è avvenuto il 14 maggio scorso, pochi giorni dopo l’esplosione della nuova Intifada, in alcuni villaggi della Cisgiordania: Urif, Asira Al-Qibliya, Iskaka, Al Reihiya, Burin. Leggetelo senza fretta! Potrete toccare con mano l’intreccio sempre più forte tra l’esercito e i coloni, che è maturato nell’era Netanyahu, e non finirà certo con l’avvento del nuovo governo Bennett. Vedrete pure come si fa strada, tra i poliziotti palestinesi, la percezione di “avere sbagliato” nel disarmare la popolazione dei villaggi, lasciandola così alla mercé delle bande dei coloni e dell’esercito israeliano, e nell’agire da forza ausiliaria dell’occupante.

A seguire pubblichiamo una lettera aperta di 100 soldati dell’esercito di Israele che protestano contro gli episodi criminali qui illustrati e, in generale, contro la violenza dei coloni e la copertura, se non l’attiva complicità con loro, dell’esercito. L’ideologia e la prospettiva della lettera è lontanissima dalla nostra – ma una cosa è certa: l’irriducibile resistenza delle masse sfruttate e oppresse di Palestina sta generando dissensi e contrasti anche nelle fila dell’esercito coloniale.

Un’indagine di Local Call rivela come in un solo giorno di maggio coloni e soldati israeliani abbiano collaborato in attacchi che hanno provocato la morte di quattro palestinesi.

L’ondata senza precedenti di assalti congiunti ha inaugurato una nuova era di terrore.

Fonte: english version

Di Yuval Abraham – 15 luglio 2021

Nidal Safadi era un uomo tranquillo, hanno detto i suoi vicini. Viveva a Urif, un villaggio palestinese di alcune migliaia di abitanti in Cisgiordania. A soli 25 anni, Safadi e la moglie avevano tre figli e un quarto, una femmina, in arrivo.

Urif non è sempre tranquillo. Con la città palestinese di Nablus a meno di 16 chilometri di distanza, l’esercito israeliano occupante ha stabilito una base su una vicina collina nel 1983. Un anno dopo, è stata adibita a scopi civil come parte del programma di insediamento illegale di Israele nei territori palestinesi. Dal 2000, l’insediamento, chiamato Yitzhar, ospita una yeshiva (istituzione educativa religiosa ebraica) nota per le sue ferme opinioni nazionaliste ebraiche; l’insediamento è diventato noto per il suo estremismo. I cosiddetti avamposti di insediamento che ha stimolato, illegali anche per la legge israeliana, ma comunque difesi dalle Forze di Difesa Israeliane, hanno gradualmente invaso villaggi come Urif. Negli ultimi 10 anni, le aggressioni dei coloni hanno dato luogo a violente recriminazioni tra israeliani e palestinesi che vivono nelle vicinanze.

Il 14 maggio, tuttavia, Urif era tranquillo, a differenza di gran parte della Cisgiordania. In decine di luoghi nel territorio, i palestinesi hanno protestato contro le recenti provocazioni israeliane: la polizia ha preso d’assalto il complesso della moschea Al-Aqsa a Gerusalemme ed effettuato pesanti bombardamenti, in risposta al lancio di razzi di Hamas, sulla Striscia di Gaza.

“Ci sono state molte proteste nella zona, ma Urif era tranquillo,” ha detto Mazen Shehadeh, capo del consiglio del villaggio. “È un piccolo villaggio e i residenti sono rimasti a casa. Se i coloni non fossero arrivati ​​ad attaccare le case, non sarebbe successo nulla.”

Shehadeh ha detto che un gruppo di coloni è arrivato verso le 14:00, insieme a sei soldati, e ha iniziato a scatenare il caos. “I coloni sradicarono quasi 60 alberi, fichi e ulivi”, ha detto. “Poi hanno attaccato la scuola con delle pietre distruggendo i pannelli solari”. Il danno era ancora evidente quando mi ci sono recato un mese dopo l’attacco. “Mentre i coloni facevano tutto questo, i soldati li coprivano sparando”, ha continuato Shehadeh. “I soldati guidavano, davano ordini, tutto sembrava coordinato. I soldati indicavano ai coloni dove andare, dove sradicare, e poi hanno sparato a chiunque cercasse di avvicinarsi. Dopo pochi minuti, i residenti sono venuti a proteggere il villaggio”.

Uno degli abitanti del villaggio che è arrivato era Nidal Safadi. “Nidal è arrivato a scuola terrorizzato”, dice suo fratello, che ha chiesto che il suo nome non fosse menzionato per paura di ritorsioni. “Abbiamo parenti che vivono nelle vicinanze e l’altoparlante della moschea ha annunciato che i coloni stavano attaccando, quindi è scappato”.

Foto e video della scena mostrano coloni e soldati dell’IDF che puntano le armi contro gli abitanti del villaggio palestinese. Un video, realizzato dal gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem, mostra un colono a torso nudo con il volto coperto che interagisce con i soldati vicini. A un certo punto il colono, armato di fucile automatico, si trova proprio di fronte a un soldato, prende di mira gli abitanti del villaggio e apre il fuoco. Altre foto mostrano coloni e soldati con le armi spianate.

Secondo Shehadeh, in mezzo al caos, Safadi è stato colpito da quattro proiettili al petto e all’addome. Morì per le ferite.

“Non sappiamo se sia stato un colono o un soldato a sparargli”, ha detto Shehadeh. “Ci sono stati molti feriti da colpi di arma da fuoco quel giorno. Nove persone sono rimaste ferite: una all’addome, un’altra è stata colpita a tre centimetri dal cuore. E c’era Nidal, che è stato ucciso”.

Shehadeh ha continuato, “Era un attacco pianificato. Una ritorsione, non uno scontro. C’erano tafferugli ogni giorno e non erano mai stati così violenti. Prima non usavano munizioni letali, solo gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Inoltre, erano presenti più soldati”.

Attacchi congiunti

La morte di Safadi è stata una delle 11 uccisioni violente di palestinesi in Cisgiordania il 14 maggio, secondo il Ministero della Sanità palestinese. Mentre i media israeliani hanno riferito che le uccisioni sono avvenute nell’ambito di “scontri”, implicando le diffuse proteste per gli attacchi ad Al-Aqsa e Gaza, almeno quattro delle morti sono avvenute durante attacchi deliberati da parte di coloni e soldati contro villaggi palestinesi, ha documentato un’indagine di Local Call e The Intercept.

Gli attacchi congiunti di coloni e soldati israeliani non erano collegati alle proteste nei villaggi presi di mira; nessuna manifestazione ha preceduto le violenze in tre delle quattro località. Le incursioni sono avvenute tutte quasi contemporaneamente, intorno alle 14:00, e tutte hanno coinvolto i coloni che hanno distrutto terreni agricoli, anche appiccando incendi, oltre al lancio di pietre e all’uso di munizioni letali.

Gli attacchi ai palestinesi da parte di coloni che lanciano pietre, mentre i soldati israeliani stanno a guardare, sono un evento comune nei territori palestinesi occupati. Ma scene come quelle del 14 maggio, coloni e soldati che attaccano i villaggi in apparente cooperazione, con proiettili letali, sono senza precedenti.

“L’unico modo in cui posso descriverle è chiamarle milizie”, ha detto Quamar Mishirqi-Assad, avvocato e socio di Haqel-Jews and Arabs in Defense of Human Rights (Ebrei e Arabi in Difesa dei Diritti Umani), un’organizzazione che lavora nel sistema giudiziario israeliano per rappresentare i palestinesi che hanno affrontato la violenza dei coloni. “Questi casi, in cui i soldati entrano nei villaggi insieme ai coloni, e in cui ci sono attacchi armati da parte dei coloni, questo è senza precedenti”.

Cinque di questi attacchi il 14 maggio hanno causato la morte di quattro palestinesi. Uno è stato ucciso nel villaggio di Asira Al-Qibliya, nella zona di Nablus; un altro a Iskaka, vicino all’insediamento israeliano Ariel; un terzo nel villaggio di Al Reihiya, a sud del monte Hebron; e Nidal Safidi a Urif. Nel quinto villaggio, Burin, anch’esso vicino a Nablus, un attacco simile si è concluso senza vittime.

Veduta del villaggio palestinese di Urif, vicino all’insediamento di Yitzhar, in Cisgiordania, il 1° dicembre 2019. (Sraya Diamant/Flash90)

Video, fotografie e testimonianze degli abitanti del villaggio degli attacchi indicano che, in almeno tre casi, coloni e soldati israeliani hanno agito come un’unità di combattimento combinata, agendo effettivamente come una milizia congiunta attaccando i civili e sparando deliberatamente ai residenti palestinesi. Il coordinamento tra militari e coloni è una questione politica in rapida crescita in Israele: martedì 100 ex soldati combattenti hanno inviato una lettera al Ministro della Difesa israeliano Benny Gantz chiedendogli di agire contro la violenza dei coloni a cui loro stessi avevano assistito durante il loro servizio. “Nell’ultimo anno, la violenza dei coloni si è intensificata e si è manifestata, tra le altre cose, nella distruzione di proprietà, nel lancio di pietre e nella violenza fisica contro i palestinesi”, hanno scritto gli ex soldati. “Siamo stati noi a constatare come i coloni agiscono senza restrizioni e come appare questa violenza sul campo. Siamo stati mandati a difenderli, ma non ci sono stati dati gli strumenti per contenerli”.

Local Call e The Intercept hanno inviato una descrizione dettagliata delle nostre scoperte a un portavoce dell’IDF, comprese fotografie e filmati. Il portavoce ha affermato che i casi “sono in fase di analisi e indagine”. Sebbene il portavoce dell’IDF abbia rifiutato di commentare molti dei dettagli, ha riconosciuto, in risposta a una delle fotografie che mostrava un colono che interagiva strettamente con un ufficiale dell’IDF a Urif, che il colono si trovava nell’area senza permesso.

Non è stata effettuata alcuna autopsia sul corpo di Safadi, né su quelli degli altri palestinesi uccisi quel giorno, quindi non c’è modo di determinare se i soldati o i coloni siano responsabili delle morti. La polizia israeliana non ha annunciato alcuna inchiesta sugli omicidi.

Nonostante la tempistica e le modalità comuni, non ci sono prove che gli attacchi del 14 maggio siano stati coordinati. Alcuni ideologi dei coloni, tuttavia, hanno notato la confluenza degli eventi. Zvi Sukot, portavoce dell’insediamento Yitzhar e stella nascente del movimento online, ha pubblicato su Facebook le foto di alcuni episodi. Le foto che ha condiviso mostrano, tra le altre cose, un palestinese colpito da un proiettile alla testa e un altro con il petto sanguinante, così come molti altri corpi giacenti in vari contesti.

“La situazione della sicurezza in Samaria è eccellente. Non c’è bisogno di proteste!!” ha scritto Sukot nel suo post su Facebook, chiedendo ai suoi compagni coloni di rimanere a casa. Ha usato il comune termine israeliano “Samaria” per descrivere la Cisgiordania settentrionale. Ci sono “vittime, molte persone ferite e gravi traumi da parte araba”, ha scritto. “In tutti i miei anni in Samaria, non ricordo una tale determinazione dell’esercito”.

Un colono, armato di fucile automatico, mira e apre il fuoco contro gli abitanti di un villaggio palestinese, Urif, 14 maggio 20201. (Mazen Shehadeh)

Molti residenti dei villaggi intervistati da Local Call e The Intercept hanno attribuito gli attacchi alla “ritorsione” di soldati e coloni, apparentemente per le proteste contro gli attacchi israeliani ad Al-Aqsa e Gaza, nonché per i disordini nelle città “miste” all’interno di Israele. Le incursioni si inseriscono in uno schema di cosiddetti attacchi Price Tag (di cartello), in cui i coloni lanciano assalti punitivi su chiunque sia considerato o anche solo lontanamente visto come un ostacolo al loro movimento.

La yeshiva a Yitzhar, vicino a Urif, è stata determinante nel formulare la giustificazione religiosa per gli attacchi “di cartello”. Il concetto ha guadagnato notorietà tra alcuni ebrei israeliani perché razionalizzava gli attacchi contro l’esercito israeliano in rari casi in cui, ad esempio, l’IDF veniva utilizzato per evacuare gli avamposti degli insediamenti. Gli obiettivi più comuni degli attacchi “di cartello”, tuttavia, sono i civili palestinesi. Il 14 maggio, i soldati erano tutt’altro che bersagli o addirittura spettatori neutrali. Invece, erano partecipanti attivi e collaboravano negli assalti congiunti.

L’esercito ora percepisce i coloni come una forza ausiliaria di combattimento”, ha detto Mishirqi-Assad, l’avvocato per i diritti umani. “La cooperazione è più trasparente. Nessuno se ne vergogna. I soldati vedono i coloni come una forza di supporto, è molto evidente. E anche i coloni sono più temerari. È chiaro che le cose sono diventate più organizzate nell’ultimo anno”.

Asira Al-Qibliya: “Volevano sfogare la loro rabbia”

A pochi chilometri da Urif, nel Governatorato di Nablus, si trova il villaggio di Asira Al-Qibliya. In cima a una collina vicina si trova l’avamposto di Ahuzat Shalhevet, che domina la periferia del villaggio palestinese.

Il 14 maggio, Hussam Asaira, 19 anni, insieme ad altri giovani del villaggio, ha risposto a un’incursione di coloni. Verso le 14:00, secondo il racconto dei residenti del villaggio, è arrivato un gruppo di soldati e coloni armati. I coloni hanno iniziato a lanciare pietre contro le case vicino al confine del villaggio.

“È stato un duro attacco”, ha detto Hafez Saleh, capo del consiglio del villaggio. Saleh era in piedi sul tetto della casa di sua sorella, osservando lo svolgersi degli eventi e scattando foto. “Sono arrivati ​​circa 20 coloni, metà dei quali armati di fucili, scortati da 12 soldati. I giovani del villaggio sono stati chiamati per proteggere le case”.

Alcuni giovani sono arrivati ​​e hanno iniziato a lanciare pietre contro i coloni, ha detto Saleh. I coloni hanno sparato raffiche “molto intense” di proiettili letali. Poi i soldati si sono uniti alla sparatoria.

“Ho gridato ai soldati, Smettete di sparare! Siete vicino alle case delle persone!”, ha ricordato Saleh. “Mi sono rivolto a uno di loro in ebraico e gli ho detto che doveva solo portare i coloni fuori dal villaggio e tutto sarebbe finito. Ha risposto: “Non è compito mio”. In altre parole, era chiaro che i soldati erano lì per coprire i coloni e proteggerli. Volevano sfogare la loro rabbia sul popolo, come ritorsione. Erano determinati a uccidere. Sentivo che il loro obiettivo quel giorno era uccidere quanti più palestinesi possibile”.

Saleh ha filmato l’incidente. Il filmato, pubblicato da B’Tselem, mostra un gruppo di soldati e coloni israeliani, tutti armati e i coloni con il volto coperto, fermi assieme in un campo. Un colono si allontana dal gruppo, spara alcuni colpi ai palestinesi e poi torna dai soldati. Da un lato, un colono lancia pietre contro una casa palestinese; un altro corre attraverso il campo con la pistola spianata. Gli scontri sono durati circa quattro ore, terminando intorno alle 18:00. I soldati si sono ritirati per diverse centinaia di metri su una collina vicina, verso Ahuzat Shalhevet, l’avamposto dei coloni.

“Non ci sono stati più scontri o lanci di pietre”, ha detto Saleh. L’atmosfera nel video appare ancora tesa. “Un soldato, fermo in lontananza, si è steso a terra e ha sparato verso i giovani”, ha detto Saleh. “Ho gridato loro di stare attenti. E ho urlato ai soldati, Basta! È tutto finito!” Nel video, i soldati e i coloni sono raggruppati sulla collina, a circa 300 metri di distanza dai giovani palestinesi. Un abitante del villaggio fermo accanto a Salah dice in arabo: “Vogliono spararci”. Si sente la voce di Saleh che grida un monito ai giovani: “Tornate indietro, andate!”

Tutti iniziano a scappare, tranne Hussam Asaira. Dando le spalle ai soldati, continua a camminare lungo il muro, una mascherina chirurgica bianca che copre naso e bocca, sembra non notare cosa stava succedendo. “Poi c’è stato uno sparo”, ha ricordato Saleh. Asaira barcolla, poi cade. Gli abitanti del villaggio lo prendono e lo portano via. Asaira è stato portato in ospedale, dove è morto per le ferite riportate.

Isaka: “La prima volta che hanno sparato a uno dei residenti del villaggio”

Iskaka è un piccolo villaggio con una popolazione di 1.000 abitanti. Nelle vicinanze si trova il mega-insediamento di Ariel, uno dei soli quattro insediamenti ad essere cresciuto abbastanza da godere dello status di città israeliana e, dei quattro, geograficamente il più lontano in Cisgiordania.

Quando i coloni e i soldati sono arrivati ​​il ​​14 maggio, Awad Harb, marito e padre di 27 anni, era a casa di un amico. Harb e il suo amico hanno sentito una chiamata dalla moschea locale riguardo l’incursione, ha detto l’amico, Mouid, che ha chiesto che il suo nome completo non fosse usato per paura di ritorsioni. Sono usciti fuori per vedere cosa stava succedendo. “È successo tutto in 10 minuti”, mi ha detto Mouid.

L’incursione nel villaggio non era stata provocata, hanno detto testimoni oculari. “È iniziato alle 14:00, quando i coloni hanno attaccato il villaggio”, ha detto Nabil Harb, fratello di Awad. “Entrarono fermandosi davanti al palazzo del Comune, armati. Si inoltrarono nel villaggio”.

“Ho 57 anni”, ha detto Nabil Harb. “Sono nato qui. Non era mai successo niente del genere prima. Quel giorno, tutti erano alla moschea e poi tornarono alle loro case, per riposarsi, per pranzare. E poi sono arrivati ​​i coloni. Sono venuti per uccidere”.

Quando sono arrivato a Iskaka un mese dopo l’attacco, Fauzi Lami, il capo del consiglio locale, mi ha portato a fare un giro in macchina. “Fino a quel momento, era una giornata normale”, mi ha detto mentre giravamo. “I coloni non sono mai venuti qui prima d’ora.” I soldati e i coloni sono arrivati ​​assieme, ha detto. “Hanno camminato tra le case e hanno sparato ai serbatoi d’acqua. I residenti si sono chiusi in casa. La chiamata è arrivata dalla moschea, attraverso l’altoparlante, affinché i giovani uscissero e difendessero il villaggio”.

Nabil Harb ha notato che erano presenti solo tre soldati. “Tutti gli altri erano coloni, civili israeliani”, ha detto. “Sono arrivati ​​i giovani di Iskaka e hanno iniziato a lanciare pietre contro i soldati e i coloni”.

Mouid mi mostrò dove lui e Awad Harb erano usciti in strada. “Qui è dove gli hanno sparato”, ha detto Mouid, indicando una copertura fognaria tra due case, a circa 600 metri dall’ingresso del villaggio. Macchie scure di sangue erano ancora visibili sul terreno sotto la sabbia bianca. Mouid ha detto che l’assassino era un civile, un colono israeliano, ma era difficile trovare la documentazione della denuncia. “Era lì, con due soldati”, ha detto Mouid, indicando la strada, “e ha sparato un proiettile da una distanza di 18 metri”.

Harb collassò e morì dissanguato. In seguito ne fu dichiarato il decesso.

“Questa è stata la prima volta nella storia di Iskaka che uno dei nostri residenti è stato ucciso”, ha detto Lami, capo del consiglio del villaggio, riferendosi al fatto che nessun residente era stato ucciso dagli israeliani all’interno dei confini del villaggio. “Non abbiamo mai avuto alcun confronto”.

Lami disse: “Siamo tutti in lutto ora”.

Al Reihiya: “Non abbiamo nessuno che ci protegga. Nessuno”

Anche l’attacco alla famiglia Tubasi, a South Mount Hebron, è avvenuto il 14 maggio. Come riportato in precedenza da Local Call e Kan News della Società Nazionale di Radiodiffusione israeliana, un gruppo di coloni, accompagnati da soldati, è arrivato nel villaggio di Al Reihiya intorno alle 14:30 i coloni iniziarono a vandalizzare le proprietà degli abitanti del villaggio e ad incendiare i loro campi.

Ismail Al-Tubasi, un abitante del villaggio di 27 anni, è andato a spegnere un incendio nella terra della sua famiglia. Un gruppo di coloni è poi corso verso di lui, secondo suo fratello e suo nipote. Improvvisamente si udirono cinque colpi. Jamal Al-Tubasi, nipote di Ismail, ha trovato suo zio disteso a terra sanguinante. Ismail esortò il nipote a fuggire; i coloni erano ancora nelle vicinanze. Jamal vide avvicinarsi i coloni armati di ascia, così scappò.

Palestinesi  cercano di spegnere gli incendi innescati dai coloni ebrei su terreni agricoli nel villaggio di Safa, nel sud della Cisgiordania, vicino a Hebron, il 13 luglio 2009. (Najeh Hashlamoun Flash90)

Alla fine, i soccorsi sono riusciti a raggiungere Ismail. Mentre veniva portato all’ospedale nella vicina città di Yatta, tuttavia, Jamal notò una cosa: Ismail aveva profonde ferite sul viso. Quelle ferite, ha detto il nipote, non c’erano quando aveva parlato per la prima volta con suo zio nel campo. “L’unica cosa di cui sono sicuro è che quando ho raggiunto mio zio, dopo il suo primo ferimento, il suo viso era privo di ferite”, disse Jamal.

Gli operatori dell’ospedale non sono stati in grado di salvare Ismail Al-Tubasi. In una foto post mortem, sul volto di Ismail sono visibili profonde ferite. Secondo il rapporto dell’ospedale, è stato ucciso da un proiettile che gli è penetrato dietro la testa; le ferite al viso sono state causate da “strumenti affilati”. (Fonti militari hanno detto a Kan e Local Call che erano presenti soldati israeliani, ma quando sono arrivati ​​sul posto Ismail era già ferito. Ha’aretz ha riferito che la famiglia Tubasi ha cercato di sporgere denuncia per la sparatoria alla stazione di polizia di Hebron, ma  la polizia israeliana non ha aperto un’indagine.)

Quando sono arrivato ad Al Reihiya, 10 giorni dopo la sparatoria, le terre della famiglia Tubasi erano bruciate. Khaled Al-Tubasi, fratello di Ismail e padre di Jamal, mi ha invitato a casa sua e, in una piccola stanza buia, mi ha offerto il tè con mano tremante. La morte di suo fratello lo aveva sconvolto, sia fisicamente, era visibilmente consumato dal risentimento durante la mia visita, sia moralmente. Stava riconsiderando tutto, dal processo di pace al suo lavoro come agente di polizia palestinese. “Lavoro per l’Autorità Palestinese”, ha esclamato, “e oggi dico: ho sbagliato”.

In Cisgiordania, dove l’Autorità Palestinese di Mahmood Abbas governa con mano pesante, solo le forze di sicurezza possono detenere armi da fuoco. Sempre più spesso, però, la polizia palestinese è accusata di agire come forza bruta per conto di Abu Mazen, il nome di battaglia di Abbas. La polizia spesso reprime le proteste e spesso si dice che agisca di fatto come un braccio dell’occupazione israeliana, mantenendo Abbas al potere e mantenendo la pace per Israele.

“La via di Abu Mazen è un errore”, ha detto Khaled Al-Tubasi. “Il coordinamento della sicurezza: è tutto un errore”. Ha detto: “I palestinesi hanno bisogno di armi per proteggersi. Non abbiamo nessuno che ci protegga. Nessuno.”

Burin: “Temevo che i coloni bruciassero la casa”

Muhammad Amran vive all’estremità orientale del villaggio di Burin, vicino a Nablus. Alle due del pomeriggio del 14 maggio ha sentito un’esplosione. L’auto del suo vicino Abu Al-Atsi era in fiamme.

“Decine di coloni armati erano lì”, ha detto Amran. “Avevano dato alle fiamme l’auto, a 200 metri da me. Nella casa laggiù vivono solo le ragazze, entrambi i genitori sono morti. Così mi sono affrettato a spegnere il fuoco. Lavoro come vigile del fuoco con l’Autorità Palestinese e dispongo di attrezzature antincendio”.

I coloni, ha detto Amran, provenivano da Givat Ha-Ro’eh, un vicino avamposto costruito illegalmente su terre palestinesi. L’Alta Corte israeliana aveva precedentemente stabilito che l’avamposto doveva essere chiuso, ma l’applicazione della sentenza è stata discontinua, nella migliore delle ipotesi.

Pochi minuti prima che l’auto prendesse fuoco, decine di giovani di Burin arrivarono per difendere il villaggio. Hanno lanciato pietre contro i coloni, che hanno risposto sparando proiettili letali. “I coloni avevano il comando. I soldati li hanno solo protetti: ci hanno sparato gas lacrimogeni, proiettili di gomma e proiettili letali”, ha detto Amran. “Quando i giovani arrivarono, uno dei coloni si girò verso di loro e iniziò a sparare a caso. Gli ha sparato e basta, senza guardare dove colpiva, senza prendere la mira. Nessuno gli si è avvicinato, sparava come un pazzo”. I residenti hanno detto che sette abitanti del villaggio sono stati colpiti quel giorno da proiettili letali, ma nessuno è stato ucciso.

Mentre Amran stava cercando di spegnere l’auto in fiamme del suo vicino, i coloni sono scesi a casa sua. “Prima hanno cercato di entrare in casa, ma non ci sono riusciti, perché mia moglie ha chiuso a chiave la porta”, ha detto. “Quindi hanno devastato tutto quello che c’era all’esterno. Hanno distrutto i pannelli solari, i tubi, il condizionatore d’aria all’esterno e le telecamere di sicurezza. Poi sono saliti sul tetto di casa mia, con la mia famiglia ancora dentro, e hanno iniziato ad attaccare altri abitanti del villaggio”.

In un video girato da uno dei residenti del villaggio, si possono vedere quattro coloni, con il volto coperto, in piedi sul tetto di Amran che lanciano pietre. Otto soldati armati sono in piedi vicino alla casa, anche loro con il volto coperto.

“Impazzivo dall’angoscia. Ho tre figli, due femmine e un maschio, ed erano tutti a casa quando è successo”, ha detto Amran. “L’esercito mi ha impedito di avvicinarmi alla casa, dove si trovavano i coloni.  Ho provato da tutte le direzioni. Ho chiamato mia moglie e le ho detto: “Vattene così non verrai soffocata dai gas lacrimogeni”. Ha detto che era spaventata. Non voleva aprire la finestra per non far entrare il gas. Dissi al soldato: “Lasciami prendere i bambini. Soffocheranno lì dentro”. Mi ha risposto: “Vattene”.

“Pochi minuti dopo, i coloni ruppero tutte le finestre della casa, e i gas lacrimogeni lanciati dall’esercito hanno iniziato a entrare”, ha detto Amran. “Ho sentito i miei figli urlare e soffocare al telefono. Avevo paura che i coloni potessero bruciare la casa, gettarci dentro una bomba incendiaria. Mia moglie e i bambini sono entrati in bagno, hanno sigillato la finestra e si sono chiusi dentro”.

La famiglia ha resistito all’attacco barricata nel bagno della propria casa e alla fine ha cercato di tornare alla normalità, ma si è rivelato difficile. “Sono passati quasi due mesi dall’attacco”, ha detto Amran. “I miei figli non riescono a dormire la notte. Bagnano il letto. Voglio fare qualcosa, denunciare in qualche modo i coloni, per il trauma che hanno causato alla mia famiglia”.

Urif: “Quando il colono finì le munizioni, i soldati gliene diedero altre”

Quando arrivai a Urif, vicino a Nablus, le prove dell’attacco che uccise Nidal Safadi erano ovunque. Interi campi furono bruciati, costellati da ulivi e fichi sradicati. Decine, se non centinaia, di bossoli erano sparsi per la strada. “Tutta la sparatoria era fuori controllo”, ha detto un abitante del villaggio, Muntaser Al-Safadi, che ha assistito all’attacco. “Hanno inserito un caricatore e poi l’hanno svuotato tutto in una volta, senza prendere la mira, senza fermarsi, nella nostra direzione. Nessuno ha lanciato pietre. Stavano sparando per uccidere.”

Shehadeh, il capo del consiglio del villaggio, mi ha portato a fare un giro. Siamo passati dalla scuola di Urif, il luogo dell’uccisione di Safadi. La scuola è circondata da un alto muro di cemento e il parco giochi è coperto da un enorme capanno di plastica bianca. “Sembra una prigione, vero?” mi ha chiesto Shehadeh quando mi ha visto guardare le strutture, cosa insolita per il cortile della scuola. “L’abbiamo costruito per proteggere i bambini dagli attacchi dei coloni di Yitzhar. Qualunque cosa accada agli ebrei, qualunque cosa accada, a Gerusalemme o a Lod, vengono qui per vendicarsi”.

Il 14 maggio, Shehadeh aveva assistito allo svolgersi dell’attacco da una delle case vicine. Ha osservato mentre gli abitanti del villaggio come Safadi si precipitavano sulla scena, alcuni raccoglievano pietre e le lanciavano contro i soldati e i coloni israeliani.

“Cosa dovevamo fare?” disse Shehadeh. “Arrivano persone armate, attaccano la tua casa, la tua scuola. E non c’è alcun potere per proteggerti. I soldati arrivano con loro e li aiutano.”


 Itzhak Levi, il coordinatore della sicurezza dell’insediamento di Yitzhar, visto conversare con i soldati e gli altri suoi compagni nel villaggio palestinese di Urif, 14 maggio 2021. (Mazen Shehadeh)

Shehadeh aveva scattato delle foto durante l’attacco. Alcune mostrano soldati e coloni che prendono la mira con le loro armi stando in piedi o sdraiati in posizione da cecchino. Shehadeh ha immortalato diversi momenti di apparente cooperazione.

“Uno dei soldati ha dato la sua arma a un colono”, ha detto Shehadeh, riferendosi a una delle foto che aveva scattato. Si può osservare civile a torso nudo con il volto coperto in piedi molto vicino a un capitano dell’IDF. “Stavano girando insieme”, ha detto Shehadeh. “Quando il colono ha finito le munizioni, è andato dai soldati che gliene hanno fornito altre”.

Una presenza costante nelle foto di Shehadeh è un colono alto e barbuto che indossa un berretto da baseball nero. Sul retro della maglietta del colono c’è la scritta “OSC”, che sta per Ongoing Security Coordinator (Coordinatore Attivo della Sicurezza). Local Call e The Intercept hanno identificato l’uomo come Itzhak Levi, il coordinatore della sicurezza di Yitzhar. Nelle foto, Levi può essere visto brandire un fucile, mentre conversa alternandosi con i soldati e altri coloni. In una foto, sembra dirigere l’attenzione dei soldati. In un altro, Levi si trova dietro a tre soldati, uno dei quali sta prendendo la mira con un lanciagranate lacrimogene montato su un fucile. In un’altra istantanea, Levi sembra ricaricare la propria arma.

Ho contattato Levi e gli ho chiesto che cosa lo avesse portato a Urif e che cosa sapeva circa l’attacco al villaggio. Ha rifiutato di rispondere alle mie domande. “Non ricordo quella data. C’erano decine di incidenti e sommosse”, ha detto. Alla fine, Levi si irritò e chiese: “Dove vuoi arrivare? Non hai niente di meglio da fare nella tua vita?” Poi ha riattaccato.

La documentazione fotografica della giornata di Shehadeh portano con sé una triste ironia: ha paura di farsi fotografare, perché teme di perdere il permesso di lavorare in Israele. Molti palestinesi della Cisgiordania con i permessi fanno affidamento sugli ottimi salari all’interno di Israele. La revoca arbitraria dei permessi di lavoro può essere una punizione, come l’accusa di associazione.

I timori di Shehadeh sono fondati. Era una situazione comune all’indomani degli attacchi: il governo israeliano revocava i permessi di lavoro alle famiglie delle vittime. Due giorni dopo l’uccisione di Nidal Safadi, il Servizio di Sicurezza Generale israeliano ha ritirato i permessi di lavoro a due dei suoi fratelli. A Iskaka, gli israeliani hanno revocato il permesso di lavoro ai parenti del palestinese ucciso Awad Harb. Dopo che Ismail Al-Tubasi è stato ucciso nell’attacco ad Al Reihiya, anche i membri della sua famiglia hanno visto revocati i loro permessi.

Basil al-Adraa ha contribuito a raccontare questa storia.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org