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[ITALIA] Due anni di lotta contro l’uso capitalistico della pandemia

In concomitanza con l’assemblea nazionale “il capitalismo delle catastrofi” che si terrà tra poche ore su zoom (vedi qui), pubblichiamo quest’ampia riflessione di bilancio su due anni di lotte operaie contro l’uso capitalistico della pandemia, e di critica del complottismo e del negazionismo in quanto concezioni del tutto estranee al movimento di classe e alle lotte per la difesa della salute dei lavoratori.

Si tratta di un documento che è il frutto di un ampia riflessione che in questi mesi ha attraversato il SI Cobas a partire dai temi delle vaccinazioni e dell’introduzione del greenpass obbligatorio: temi sui quali abbiamo riscontrato, anche in molte realtà conflittuali e anticapitaliste, una polarizzazione delle posizioni che nella gran parte dei casi elude i termini reali delle questioni e rimuove la necessità di un punto di vista autonomo e centrato sui bisogni e gli interessi concreti dei lavoratori e dei proletari.

S.I Cobas


Due anni di lotta contro l’uso capitalistico della pandemia

Questo documento muove dalla necessità di chiarire e specificare alcuni elementi di analisi e di riflessione alla luce degli sviluppi più recenti della crisi pandemica di CoViD-19, delle problematiche urgenti che questi pongono dentro e fuori i luoghi di lavoro e dei compiti immediati e di prospettiva cui sono chiamate le avanguardie di classe e, con esse, il SI Cobas a tutti i livelli.

La scelta di pubblicare queste riflessioni oggi, a riflettori spenti e all’indomani della proclamazione della fine dell’emergenza sanitaria sancita per decreto dal governo Draghi, è tutt’altro che casuale.

Nelle scorse settimane i trambusti mediatico- propagandistici attorno al tema della pandemia, e con essi la vera e propria infodemia che ha accompagnato (e in larga parte avvelenato) questo biennio di crisi sanitaria, si sono repentinamente silenziati per lasciar spazio alla propaganda bellica a reti unificate (altrettanto martellante e tossica) in concomitanza con lo scoppio della guerra in Ucraina.

In barba a un quadro epidemiologico che su scala mondiale vede tuttora più di un milione di nuovi contagiati e migliaia di nuovi decessi ogni giorno, il Co-ViD-19 è pressoché sparito dai radar della comunicazione, sia a livello “mainstream”, sia sui canali sedicenti “alternativi”.

Parallelamente, le dispute (che, come si vedrà, in molti casi sarebbe più appropriato definire delle vere e proprie gazzarre) sul tema dei vaccini, del greenpass e, più in generale, della genesi della pandemia e della sua gestione politica complessiva, che per due anni hanno attraversato tangenzialmente lo stesso panorama delle forze sociali, politiche e sindacali di orientamento anticapitalista, monopolizzandone di fatto il dibattito, si sono improvvisamente sopite.

Se fino a ieri la pandemia costituiva il campo di battaglia privilegiato per una variegata sfilza di cialtroni, imbonitori, lestofanti e dilettanti allo sbaraglio, improvvisatisi virologi ed epidemiologi a mezzo social, oggi il ring si è traslato, con analoga foga e altrettanta superficialità, sul tema della guerra: gli esperti di “dittatura sanitaria” si reinventano esperti di “geopolitica”, con un’apparente e netta soluzione di continuità che, in realtà, cela il continuum di una narrazione e di un’interpretazione caricaturale, populista e interclassista degli eventi e della sequela di catastrofi ed emergenze che accompagnano, con sempre maggiore frequenza ed intensità, l’epoca attuale caratterizzata dalla crisi sistemica del modo di produzione capitalistico.

Che Draghi e i suoi omologhi occidentali si siano affrettati a nascondere l’immondizia sotto al tappeto per celare il colossale e rovinoso fallimento dell’intera gestione dell’emergenza pandemica e giustificare la sua conclusione come se nulla fosse, è ben comprensibile; ciò che invece lascia alquanto sconcertati è il navigare a vista di tanti sedicenti anticapitalisti, tanto pronti a saltare di palo in frasca a seconda dell’”emergenza” che di volta in volta viene imposta all’ordine del giorno dalle istituzioni e dai media loro asserviti, quanto incapaci di cogliere le connessioni esistenti tra i vari aspetti della crisi e di individuare possibili linee di intervento generali e unificanti nell’iniziativa di classe.

Il SI Cobas, che fin dalla sua nascita ha caratterizzato la sua identità e delineato la sua iniziativa sindacale e politica in chiave esplicitamente anticapitalista e internazionalista, da oltre un decennio ha assunto la crisi capitalistica globale quale elemento di analisi e cornice di riferimento imprescindibile ed ineludibile per la comprensione delle tendenze, degli eventi e degli sconquassi che periodicamente si abbattono sulla società e sulle vite di miliardi di proletari del pianeta.

Da anticapitalisti e da internazionisti non pentiti, abbiamo fin dal primo momento inquadrato la pandemia di CoViD-19 come un “momento” della crisi generale, come uno dei sintomi di una sua potenziale precipitazione su scala globale: non a caso, già in occasione del convegno nazionale online da noi promosso il 17 aprile 2021, abbiamo affermato a chiare lettere che, più che di pandemia, è a nostro avviso decisamente più appropriato definire la fase attuale col concetto di sindemia capitalistica, cioè di un interazione simultanea tra crisi ambientale, sociale, politica, economica e sanitaria quali concause e al tempo stesso aggravanti della crisi pandemica.

Da ciò ne deriva che l’iniziativa di classe contro la gestione politica, sociale, sanitaria ed economica della pandemia, se non vuol ridursi a uno sterile e confuso accodamento agli isterismi e alle suggestioni tipiche delle mezze classi, non può in alcun modo prescindere da un’analisi di classe del contesto di crisi sistemica preesistente e persistente alla pandemia, alla quale quest’ultima è intimamente e inestricabilmente interconnessa, e quindi del rilancio di una critica radicale e complessiva del sistema capitalistico.

L’escalation militarista globale a cui stiamo assistendo a seguito della guerra in corso in Ucraina (a tutti gli effetti una guerra per procura tra Russia e NATO a guida statunitense), è in ultima istanza il riflesso e la risultante delle tensioni e dei conflitti tra le principali potenze imperialiste che in questi decenni si contendono senza esclusione di colpi i mercati, le fonti di approvvigionamento e le sfere d’influenza contribuendo a moltiplicare i teatri di guerra ai quattro angoli della terra, e affonda le sue radici in quello stesso quadro di decomposizione capitalistica che la crisi pandemica ha drammaticamente messo a nudo.

Con buona pace di chi si è lasciato ammaliare delle fantasticherie complottiste, le modalità di gestione della pandemia messe in atto dai governi occidentali non rispondono a nessuna “svolta autoritaria” rispetto all’a prassi ordinaria tipica di ogni regime capitalistico (democratico o meno), non introducono nessuna “nuova forma di controllo e disciplinamento sociale” che non sia già stata ampiamente “sperimentata” negli scorsi decenni sulla pelle e sul sangue di milioni di proletari, non ledono di certo le “libertà individuali” più di quanto queste siano state già annichilite da centinaia di dispositivi repressivi introdotti in questi anni contro le lotte e il dissenso sociale: forse il ricatto del permesso di soggiorno per gli immigrati in fuga dalle guerre e dalle carestie è più “democratico” del greenpass? E l’escalation repressiva in corso contro gli scioperi, le lotte sindacali e le proteste di piazza, con migliaia di misure cautelari, procedimenti penali e amministrativi a carico di lavoratori e attivisti, sono più tollerabili dell’obbligo di utilizzo delle mascherine per prevenire ila diffusione dei contagi? La nostra risposta a questi quesiti non può che essere diametralmente opposta a quella di coloro i quali hanno contribuito ad ingrossare le fila delle piazze contro la “dittatura sanitaria” ma fino a qualche giorno prima alimentavano sui social le campagne razziste contro le “invasioni di immigrati” spacciandole per opposizione ai piani delle “elite globaliste”…

Come sempre, parole come libertà e democrazia sono gusci vuoti, enunciazioni prive di significato se prescindono dall’antagonismo di classe quale elemento fondante del capitalismo, se esulano dal contesto dei rapporti di forza tra le classi e se pretendono di collocarsi idealisticamente al di sopra delle condizioni materiali e degli interessi (immediati e futuri) dei lavoratori e dei proletari.

Dunque, come accennavamo, la scelta di pubblicare questo documento in una fase in cui il tema della pandemia appare scemato non è casuale, e per un motivo semplice: perché l’emergenza- Covid è tutt’altro una macchinazione ordita a tavolino da qualche “elite di cattivoni”, e che, al contrario, la crisi rovinosa del sistema capitalista ci stia traghettando verso un era di catastrofi economiche, naturali, ambientali e militari che porteranno con se nuove, e forse ancor più virulente pandemie . D’altronde, non siamo soli a sostenere questa tesi, avanzata e fatta propria da numerosi studiosi e scienziati non asserviti alla propaganda dominante.

Sta alle avanguardie di classe il compito di attrezzarsi e di organizzarsi per porre fine alla barbarie di questo sistema, e non farsi trovare nuovamente impreparate di fronte a tale arduo ed immane compito.

E’ a partire da queste ragioni e da questi motivi che la nostra organizzazione ha scelto di promuovere, il 10 aprile di quest’anno, un nuovo convegno telematico sulla crisi sanitaria, a un anno esatto dalla precedente assemblea nazionale.

L’OPPOSIZIONE OPERAIA ALLA GESTIONE GOVERNATIVA DELLA CRISI SANITARIA

Prima di entrare nel merito delle misure adottate dal governo Draghi, su tutte il greenpass e l’obbligo vaccinale per i lavoratori over-50, è necessario ripercorrere le linee di condotta e le scelte che la nostra organizzazione ha assunto a partire da marzo 2020: ciò nella convinzione che ogni possibile linea di intervento sindacale e politico sulle molteplici problematiche e contraddizioni aperte in questa fase (greenpass, obbligo vaccinale, gestione dei contagi sui luoghi di lavoro, ecc) non possa prescindere dalla verifica e dal bilancio dell’attività svolta dal SI Cobas nel corso di questi due anni e della linea che abbiamo assunto fin dai primi giorni della crisi pandemico-sanitaria.

Febbraio-marzo 2020: l’arrivo del Sars-Cov 2 in Italia. La lotta per la difesa della salute contro l’ipocrisia finto-securitaria del governo Conte e il suo asservimento ai dettami di Confindustria

Nell’ultima settimana di febbraio 2020 il nuovo coronavirus originatosi nella regione cinese del Wuhan alla fine del 2019 penetra sul nostro territorio nell’area compresa tra Codogno, Vo Euganeo e Casalpusterlengo, per poi diffondersi a valanga in tutto il Nord Italia, e successivamente al centro-sud e all’intero continente europeo.

Proprio negli stessi giorni in cui la Cina mette in campo una terapia d’urto fondata sulla combinazione di lockdown radicali e circoscritti alle aree colpite da focolai epidemici e di un rigido ed efficace sistema di testing (tamponi), tracciamento e trattamento tempestivo delle forme sintomatiche, ottenendo nel giro di pochi mesi un primo, sostanziale controllo della diffusione del virus e a garantendo quindi la ripresa delle attività economiche e dall’altro l’allentamento delle restrizioni, l’allora governo Conte, in nome dei dogmi liberali e liberisti dell’occidente capitalistico che antepongono in modo immediato l’interesse dell’economia e dei profitti alla salute, al benessere e alla vita collettiva, per più di due settimane minimizza e banalizza il rischio a reti unificate.

Così, nel mentre il solo minuscolo comune di Vo’ Euganeo viene sigillato e messo in quarantena, nel resto del paese i padroni e i governanti lasciano tutto aperto e in nome del “non aver paura” invitano l’intera popolazione a “ballare sul Titanic” nonostante l’epidemia stia già dilagando, iniziando a mietere vittime ovunque.

A tal riguardo, chi come noi non ha la memoria troppo corta o “offuscata” da ben altri pensieri e/o interessi ricorda fin troppo bene come in quelle giornate, decisive per la sorte di migliaia di anziani e di soggetti fragili, assistemmo a uno squallido carosello mediatico-istituzionale di stampo negazionista e alle esortazioni di Confindustria e della piccola e media borghesia a tenere tutto aperto. Su tutto ciò, campeggia l’indimenticabile sceneggiata di Nicola Zingaretti, segretario nazionale PD, che, nell’ambito dell’iniziativa “#Milano non si ferma” promossa dal suo partito e dal sindaco Sala, se ne andava allegramente in giro per i bar di Milano a farsi gli spritz, in ciò sostenuto dalla gran parte delle forze parlamentari: una condotta che ha favorito la moltiplicazione dei contagi e dei morti, che ha contribuito a trasformare per più due mesi il nord-Italia nell’epicentro mondiale della pandemia (35 mila morti su poco più di 300 mila positivi accertati, dunque più del 10%, una percentuale da 5 a 10 volte superiore al resto dei paesi occidentali!), e che ha

provocato il collasso dei reparti ordinari e delle terapie intensive degli ospedali e la mattanza degli anziani nelle RSA: una vera e propria strage di stato che grida ancora vendetta.

Solo di fronte al materializzarsi di questo disastro e al rischio di una definitiva catastrofe del sistema sanitario, il governo, per correre ai ripari e tentare di tappare le falle da esso stesso provocate, l’8 marzo si decise a proclamare il lockdown su tutto il territorio nazionale.

Si trattò però di un lockdown “asimmetrico” e a senso unico: nel mentre venivano introdotte misure draconiane tese a colpire duramente i comportamenti individuali difformi da quanto prescritto dai decreti (obbligo di mascherina, distanziamento sociale, coprifuoco serale, divieto di assembramento e di uscire di casa se non per motivi di stretta necessità e urgenza), la quasi totalità delle attività economiche e produttive (eccezion fatta per alcuni settori della piccola distribuzione) venivano lasciate aperte. La conseguenza fu un clima surreale, nel quale l’intera popolazione “non produttiva” e tutti coloro che potevano permettersi il lusso dello smart-working (quindi in primis i padroni) erano tappati in casa, mentre milioni di operai e di lavoratori dipendenti venivano mandati in fabbrica o in magazzino a contagiarsi e a contagiare le proprie famiglie.

A seguito di questa misura, illogica dal punto di vista sanitario, e al suo essere sfacciatamente orientata a salvare a ogni costo i profitti e i fatturati aziendali a scapito della salute e della vita di milioni di lavoratori, il SI Cobas e l’Adl Cobas furono gli unici sindacati in Italia che non si limitarono a denunciare questa colossale contraddizione, ma diedero immediatamente indicazione a tutti i lavoratori (eccezion fatta per quelli strettamente necessari alla produzione e alla distribuzione di beni essenziali) di astenersi dal lavoro e di restare a casa con le loro famiglie. Gli slogan “la nostra salute viene prima dei loro profitti” e “chiudiamo tutto” si diffusero a macchia d’olio in centinaia di aziende, e in numerose fabbriche metalmeccaniche gruppi di operai autorganizzati iniziarono a praticare l’astensione, disobbedendo all’attendismo e alla complicità dei vertici di Cgil-Cisl-Uil. Tuttavia, grazie soprattutto al ruolo nefasto di questi ultimi, la mobilitazione stentò a diffondersi e a generalizzarsi a tutto il mondo del lavoro privato, restando circoscritta al settore della logistica e a poche decine di aziende metalmeccaniche.

Negli stessi giorni, a seguito di un appello pubblico del SI Cobas, l’intera area politica, sindacale e sociale anticapitalista su scala nazionale sancì la nascita del “Patto d’azione”, a partire proprio dalla lotta per il diritto a stare a casa a salario pieno e dalla denuncia dello sfascio provocato dalle omissioni del governo e dalle politiche borghesi che, negli ultimi quarant’anni, hanno contribuito a mettere in ginocchio il sistema sanitario nazionale, facendolo arrivare del tutto impreparato all’emergenza Covid. Proprio nelle settimane successive, grazie a un’inchiesta di Report, verrà a galla la scandalosa assenza di un piano pandemico, frutto delle omissioni dei vertici sanitari, incuranti delle raccomandazioni della comunità scientifica internazionale, nonostante la pandemia fosse ampiamente prevedibile sulla base delle precedenti ondate di Sars e Mers.

Accanto alla lotta per la salvaguardia immediata della salute e della vita dei lavoratori, l’iniziativa del SI Cobas e del Patto d’azione si concentra prevalentemente su due filoni: da un lato la denuncia dei tagli devastanti alla sanità quale causa di fondo del collasso delle strutture ospedaliere e dell’aumento esponenziale dei morti, cui fa da contraltare l’aumento costante delle spese militari; dall’altro la rivendicazione della patrimoniale sulle grandi ricchezze affinché i costi della crisi sanitaria non vadano a colpire le tasche già semivuote dei proletari.

Nel giro di una settimana appare chiaro che il “lock-down a metà” di Conte non solo non è sufficiente a fermare l’avanzata del virus, ma contribuisce ad alimentarlo e a moltiplicare la catena dei contagi, oramai sfuggiti a ogni capacità di tracciamento e di controllo.

Si arriva così alle giornate del 20 e 21 marzo, in cui il governo annuncia in pompa magna l’imminente generalizzazione delle chiusure a tutte le attività non essenziali. E’ proprio in quelle ore concitate che il fronte padronale scende prepotentemente in campo per evitare a tutti i costi una soluzione “cinese”, per chiarire definitivamente chi è che comanda davvero e per riaffermare a chiare lettere che la tutela delle leggi del mercato e dell’economia capitalistica viene prima della tutela della salute e della vita di milioni di lavoratori.

Il 22 marzo 2020 viene quindi varato un Dpcm che è un vero capolavoro di ipocrisia e di cerchiobottismo: attraverso lo stratagemma dei codici ATECO, viene elencata una serie infinita di attività e di settori ritenuti essenziali e quindi “esenti” dalle chiusure. Mentre la quasi totalità dei piccoli esercizi commerciali viene chiusa e sottoposta a rigidi controlli, la gran parte del settore produttivo, del trasporto merci e della logistica rimane aperta. Per chi resta a casa viene previsto uno specifico ammortizzatore sociale (la cassa integrazione Covid) la cui gestione è demandata al sistema pachidermico dell’Inps, con la conseguenza che centinaia di migliaia di lavoratori riusciranno ad ottenere quelle misere somme solo a distanza di molti mesi.

In realtà, a un mese esatto dall’inizio dell’epidemia, quest’ultima si era già trasformata in una vera e propria pandemia globale: il decreto del 22 marzo, oltre ad essere parziale e insufficiente per i motivi sopra descritti, era dunque del tutto intempestivo, ed equivaleva a chiudere la stalla quando i buoi erano già scappati da un pezzo. Il carosello delle centinaia di bare trasportate dall’esercito a Bergamo e la carneficina nelle RSA lombarde rappresentano ancora oggi la fotografia più nitida della gestione fallimentare e criminale della prima ondata pandemica, i cui effetti in termini di vite umane e di ospedalizzazioni si sono protratti fino alla vigilia dell’estate.

A due anni di distanza da quegli eventi, tra non pochi esperti e ricercatori sta iniziando a farsi strada l’ipotesi che sia stata proprio la gestione catastrofica del governo italiano nei primi giorni di marzo a favorire e ad amplificare la diffusione della pandemia su scala globale: in effetti, se osserviamo retrospettivamente l’andamento delle curve epidemiologiche nei vari paesi, e tenendo conto che Cina e Sudst asiatico (ossia i paesi in cui il CoViD si era diffuso significativamente prima della sua comparsa in Italia) avevano adottato terapie d’urto ben più incisive, tale ipotesi appare tutt’altro che lontana dalla realtà.

Alla mattanza sanitaria si accompagna quella sociale: se da un lato viene sancito il divieto di licenziamento per tutti i lavoratori con contratto a tempo indeterminato, più di un milione di precari con contratto a termine è mandato a scadenza dai padroni e gettato nel baratro della disoccupazione. A questi numeri ufficiali va aggiunto l’esercito delle false partite iva e gli innumerevoli lavoratori in nero lasciati senza salario a seguito della chiusura delle piccole attività e del commercio. In questa situazione, la lotta “eroica” portata avanti nel pieno della prima ondata dai lavoratori precari con contratto di somministrazione alla Fedex di Peschiera Borromeo contro la disdetta unilaterale dell’accordo siglato a inizio marzo dal SI Cobas – con cui i padroni si impegnavano alla loro stabilizzazione – è stata esemplare e indicativa della condotta sciacallesca con cui i capitalisti hanno scaricato sui lavoratori i costi della della crisi pandemica: una crisi che peraltro si è abbattuta con particolare virulenza sulle donne-madri, costrette a far fronte al fardello della didattica a distanza senza alcuna tutela e quindi costrette a dimettersi dal lavoro.

Ma l’aspetto forse più evidente di questa gestione capitalistica della pandemia, della sua strumentalità e del suo carattere autoritario, emerge in relazione alle restrizioni imposte al diritto di sciopero e di iniziativa sindacale proprio in quei comparti che sono stati lasciati aperti durante tutta la prima ondata, nei quali i lavoratori erano lasciati “liberi” di ammassarsi il più delle volte privi di mascherine e DPI e in locali non sanificati, ma a cui era vietato scioperare o anche solo organizzare un’assemblea sindacale, pena la multa per infrazione al divieto di assembramento. A tal fine ricordiamo, per rinfrescare le memorie corte, che a cavallo tra marzo e aprile 2020 il SI Cobas portò avanti innumerevoli mobilitazioni e azioni di lotta a partire dallo slogan “se si può lavorare si può anche scioperare”, e che questa linea di condotta è stata contrastata duramente dalle forze dell’ordine, con centinaia e centinaia di multe per violazione del divieto di assembramento nei confronti sia di operai sia di gran parte dei nostri operatori sindacali (e nel mentre la quasi totalità dello stesso sindacalismo di base se ne restava comodamente a casa in ligia osservanza dei divieti governativi a senso unico…).

Le riaperture, il ritorno dei proletari in piazza e i primi vagiti negazionisti

Nei mesi di maggio e giugno 2020, parallelamente al calo della prima ondata e all’avvicinarsi della stagione estiva (notoriamente caratterizzata da un calo di attività dei coronavirus), il governo Conte avvia un progressivo allentamento delle restrizioni individuali.

Ciò consente alle realtà di lotta e in primis a quelle che fanno riferimento al Patto d’azione di tornare in piazza per denunciare i ritardi nelle erogazioni della cassa integrazione e l’assenza di tutele sociali adeguate alle dimensioni dello stato di emergenza: a fine maggio si scende in piazza in numerose città (con corteo non autorizzato e scontri a Napoli); il 6 giugno si svolgono manifestazioni in tutta Italia, con piazze blindatissime e sotto la persistente minaccia di sanzioni amministrative a causa del persistente divieto di corteo e di assembramento.

Parallelamente a queste mobilitazioni di segno classista e anticapitalista, per il diritto alla salute e al salario, iniziano a manifestarsi le prime embrionali forme di protesta di segno diametralmente opposto, unite dalla richiesta di “riaprire tutto” e ispirate da concezioni complottiste e negazioniste del carattere pandemico del CoVid e dei suoi effetti nefasti in termini sanitari.

Già alla vigilia di Pasqua 2020 i fascisti di Forza Nuova lanciano una “processione” a piazza San Pietro contro la chiusura delle chiese: l’iniziativa si rivelerà un flop colossale, ma nelle settimane immediatamente successive apparirà in maniera chiara come questa fosse solo un primo tentativo dell’estrema destra di gettare il “sasso nello stagno” per far leva su un già montante malcontento della piccola borghesia e delle mezze classi colpite dagli effetti economici delle chiusure, e attraverso queste ultime deviare gran parte del disagio sociale generato dalla gestione capitalistica della pandemia verso i lidi reazionari del negazionismo. D’altronde, la scelta delle chiese come punta di lancia propagandistica non fu affatto casuale, bensì

indicativa di come i fascisti (e con essi buona parte del fronte negazionista) già nella primavera del 2020 avessero individuato nello zoccolo duro del tradizionalismo cattolico il proprio target ideologico di riferimento e il loro principale “bacino d’utenza”. A collegare il tutto, quelle teorie della cospirazione che negli ultimi anni hanno fatto le fortune elettorali e politiche dell’ “alt-right” su scala internazionale, garantito l’elezione di Donald Trump alla casa Bianca, alimentato le pulsioni razziste e nazionaliste in tutto l’occidente e, in ultimo, “sdoganato” il sovranismo anche in settori non irrilevanti provenienti dalla sinistra di classe. Si tratta di una tendenza manifestatasi in Italia già all’epoca del governo Conte 1 a trazione leghista (lo stesso dei Decreti-Salvini!), con la simpatia manifestata nei suoi confronti da alcuni sedicenti anticapitalisti in chiave “anti-establishment” e/o sulla base dell’esaltazione della Russia di Putin quale avamposto della difesa della tradizione europea e cristiana contro le “insidie” del globalismo occidentale, della casta dei poteri forti, e dei piani di “invasione musulmana”.

A seguito delle riaperture di maggio-giugno 2020, i fermenti negazionisti iniziano a manifestarsi con un seguito più o meno di massa: si animano le piazze dei gilet arancioni del generale Pappalardo e si assiste alle prime manifestazioni “no mask”, nelle quali le mascherine vengono equiparate a delle museruole, mentre inizia a diffondersi la tesi secondo cui il Covid non esiste o sarebbe poco più che una banale influenza. A poco valgono le immagini e le testimonianze dirette di migliaia di infermieri e sanitari (gli stessi che il governo aveva elevato ad “eroi” salvo umiliarli, reprimerli e costringerli ancora oggi a turni massacranti pur di non investire seriamente sul rilancio della sanità pubblica e sulla medicina di prossimità), che denunciano quotidianamente gli effetti devastanti del Covid non solo in termini di mortalità ma anche in relazione alle conseguenze di lungo periodo sulla salute: per il “popolo” negazionista l’unica cosa che conta è affermare la propria “sacra e inviolabile” libertà personale. Ai “distratti”, agli smemorati e ai negazionisti dell’ultima ora, che osano fregiarsi dell’etichetta di “anticapitalisti”, sarebbe il caso di ricordare come tali condotte ispirate a forme infantili e masochiste di “disobbedienza” (rifiuto delle mascherine, dei tamponi, ecc.), oltre ad essere del tutto estranee ai più elementari principi di difesa della sicurezza e della salute dei proletari, che costituiscono il dna del patrimonio storico del movimento operaio nei suoi due secoli di storia, fanno il paio con l’interesse materiale ed immediato dei padroni e di Confindustria, i quali da due anni a questa parte hanno come loro unico obbiettivo il “riaprire tutto” senza se e senza ma… Se poi muore qualcuno, pazienza!

Il “liberi tutti” dell’estate 2020 e la seconda ondata pandemica autunnale

Le proteste di segno opposto della primavera sono state in breve tempo neutralizzate, prima dalla retorica governativa della “fase-due” e poi solo apparentemente seppellite nel corso della “fase-tre” dell’estate, laddove in nome della ripartenza dei profitti e dell’avvicinarsi della stagione turistica, il governo Conte, incoraggiato dal netto calo dei contagi, è giunto a dichiarare la pandemia pressochè conclusa.

Ancora una volta, l’operato delle istituzioni borghesi ha rappresentato il principale alleato del virus e il vero e proprio volano per lo sviluppo della seconda ondata: nel trasmettere la falsa convinzione di essere oramai fuori dall’emergenza sanitaria, per di più con gran parte dell’Europa e dell’occidente che era ancora alle prese con la prima ondata, nel nome della sacralità del business estivo sono state di fatto eliminate tutte le misure di tutela e di prevenzione, con la conseguenza che, già nelle prime settimane autunnali, si è tornati al punto di partenza, è esplosa la seconda ondata di Covid e, con essa, la necessità di riattivare il carosello delle zone gialle, arancioni e rosse, dei divieti e delle chiusure a intermittenza e a macchia di leopardo.

Il dato più clamoroso e paradigmatico di questo secondo disastro governativo e istituzionale sta nel fatto che in più di sei mesi di emergenza a senso unico non un solo passo concreto è stato compiuto per colmare le profonde voragini del sistema sanitario, per ampliare e ammodernare le strutture dissestate e fatiscenti, né tanto meno per assumere nuovo personale medico ed ospedaliero.

D’altronde, è proprio l’ondata pandemica dell’autunno 2020 che mette ancor più a nudo gli effetti dello smantellamento della medicina territoriale e di prossimità prodotta da decenni di tagli alla spesa sanitaria: a fronte di un numero di nuovi contagiati fino a 10 volte più alto rispetto alla prima ondata, il sistema di tracciamento legato ai medici di base collassa nel giro di pochi giorni e a stretto giro anche le unità sanitarie locali vanno incontro a un’analoga sorte; centinaia di migliaia di casi sospetti (soprattutto nel meridione) per effettuare il tampone vengono dirottati verso i laboratori privati e costretti a sobbarcarsi costi fino a 80 euro per ogni test; migliaia e migliaia di contagiati sono costretti a restare in quarantena fino a un mese dopo il contagio a causa della mancanza di infermieri da inviare a domicilio per effettuare i test necessari a certificare l’avvenuta negativizzazione…

A tale contesto già critico sono andati a sommarsi i notevoli ritardi nell’erogazione delle casse integrazioni e dei “ristori” previsti per i piccoli e medi esercenti.

Ed è in questo quadro che, a partire dalla metà di ottobre, si sviluppa il breve ciclo di proteste contro le zone rosse e il nuovo piano di chiusure imposte dalla seconda ondata pandemica: proteste che appaiono fin dal primo momento egemonizzate da settori di commercianti e dal ceto medio impoverito, e unite dallo slogan “io apro”.

Rispetto a quelle mobilitazioni come SI Cobas esprimemmo un giudizio chiaro: analogamente ad altre epoche storiche (ivi compresa la recessione economica del 2009-2012) è del tutto fisiologico che la crisi capitalistica tenda a mettere in moto la piccola borghesia e settori delle classi intermedie, ma per valutare se esistono le condizioni minime e l’opportunità per un intervento diretto dei lavoratori è necessario prima comprendere il carattere di queste mobilitazioni, gli interessi di classe che le muovono, se quegli interessi rivestono un carattere progressivo o, al contrario, reazionario e se, quindi, la classe lavoratrice ha un interesse reale a collegarvisi; in ultimo, occorre valutare se il movimento proletario può fungere da traino di queste mobilitazioni e non, al contrario, finire alla coda di istanze interclassiste o, peggio ancora, apertamente reazionarie.

In sostanza il SI Cobas, già in occasione delle proteste “popolari” di fine ottobre 2020, assunse come proprio metro di valutazione gli interessi generali della classe lavoratrice e la loro compatibilità con quelli di chi scendeva in piazza. Da questa valutazione attenta e concreta emerse nella quasi totalità dei compagni la convinzione che quelle piazze non fossero minimamente attraversabili dalle nostre lotte e dalle nostre ragioni, e ciò per il semplice motivo che queste si proponevano obbiettivi nei fatti antitetici ai nostri.

Non c’è bisogno di essere dei fini analisti per comprendere che la piccola e media borghesia dei commercianti, dei bottegai e degli albergatori che guidava quelle piazze (gli stessi, per intenderci, che nella stragrande maggioranza dei casi impongono ai lavoratori contratti- pirata e salari da fame) lottava per imporre una soluzione della crisi diametralmente opposta a quella per cui i lavoratori si erano battuti fin dal mese di marzo 2020: da un lato (il nostro) la tutela della salute, il rilancio della sanità pubblica, la prevenzione del rischio di contagio e la lotta per chiudere tutte le attività non essenziali; dall’altro la spinta a “riaprire tutto” e subito, la minimizzazione dei rischi della pandemia se non la sua totale negazione, il rifiuto delle più elementari misure di tutela e di salvaguardia.

Com’era ampiamente prevedibile, quel movimento si esaurì nel giro di poche ore, non appena il governo Conte varò il nuovo decreto-legge con cui si sarebbero elargiti in tempi brevi i cosiddetti “ristori” per le piccole e medie imprese e nel quale si garantiva che non ci sarebbero state altre chiusure e altri lockdown, nel mentre nessuna garanzia veniva offerta a quei milioni di operai e lavoratori che dopo più di 6 mesi ancora attendevano l’erogazione della CIG-Covid: ciò a chiara dimostrazione di quali fossero i reali interessi in campo nelle piazze di ottobre.

La battaglia per i protocolli su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro

Proprio in quelle stesse settimane, mentre migliaia di lavoratori riprendevano ad ammalarsi e a morire nelle fabbriche e nei magazzini, il SI Cobas assieme ad altre realtà di lavoratori combattivi e all’ADL Cobas, ha al contrario portato avanti una dura battaglia in centinaia di posti di lavoro (non solo nella logistica) per strappare dei veri protocolli per la sicurezza e la salute sui luoghi di lavoro: un’iniziativa che è partita dalla scoperta a fine giugno di un enorme focolaio di CoViD alla BRT di Roveri (Bologna), laddove centinaia di lavoratori si erano contagiati a seguito della mancata applicazione delle misure di prevenzione previste dal Protocollo siglato a marzo da governo e Cgil-Cisl-Uil, e che si rendeva tanto più necessaria in quanto emergevano in maniera chiara le enormi falle di quell’accordo, prima tra tutte la mancata previsione di organismi che garantissero ai lavoratori la possibilità di vigilare sulla corretta applicazione delle misure di contenimento e/o di denunciarne il mancato rispetto.

Tra gli inizi di luglio e la fine di novembre abbiamo siglato in decine di aziende accordi di secondo livello nei quali, tra le altre cose, veniva rafforzato il ruolo degli RLS, garantita la dotazione di DPI (mascherine) a carico delle aziende, previsto un piano di sanificazioni costanti dei locali, nonché l’esecuzione periodica di tamponi a tutte le maestranze e, in molti casi, veniva riconosciuto un premio di risultato per tutti coloro che erano stati costretti a recarsi al lavoro anche nelle fasi di picco pandemico. Contemporaneamente, abbiamo avviato un pressing costante sul governo, in particolare sui ministri del lavoro e dello sviluppo economico, per far sì che quei protocolli venissero generalizzati per legge in tutti i luoghi di lavoro.

Dopo mesi di mobilitazioni e di pressioni sulle istituzioni, il 9 novembre 2020 si svolse un incontro telematico tra i rappresentanti del ministero del lavoro e del MISE, il SI Cobas e l’Adl Cobas. Al termine, fummo invitati a produrre una bozza di Protocollo nazionale che i ministri si impegnarono a valutare, documento che fu da noi inviato il successivo 23 novembre.

A partire da tale data, com’era prevedibile, i rappresentanti del governo si resero completamente latitanti, e fu per questa ragione che il SI Cobas proclamò dapprima uno sciopero nazionale nel settore trasporto merci e logistica per il 18 dicembre assieme all’Adl, e poi uno sciopero generale intercategoriale il 29 gennaio 2021 assieme alle realtà aderenti all’assemblea dei lavoratori combattivi e al Patto d’Azione. Parallelamente agli scioperi, si tennero in quelle settimane numerose manifestazioni e presidi sotto alle Prefetture per denunciare l’immobilismo del governo e la sua complicità con i padroni, tesa ad anteporre l’interesse dei profitti alla tutela della salute dei lavoratori e dell’intera collettività.

Fuori da ogni retorica, possiamo dire che nel periodo che va dal mese di giugno 2020 alla primavera del 2021, la nostra azione, unita al Patto d’azione e all’Assemblea dei Lavoratori Combattivi, ha registrato una crescita costante di consenso e di incisività, dimostrata dall’alta adesione agli scioperi e dall’ampia partecipazione alle iniziative di piazza, le quali si sono caratterizzate per l’inclusione di settori di studenti (in primo luogo il FGC) e di precari.

In questo periodo, il SI Cobas ha senza ombra di dubbio rappresentato il principale polo d’attrazione per l’insieme del sindacalismo conflittuale e del movimento di classe. D’altra parte, va allo stesso tempo riconosciuto che questo allargamento del nostro peso e della nostra sfera d’influenza (che ha proceduto in parallelo con l’espansione delle dimensioni stesse del sindacato anche in nuove categorie lavorative e nuovi segmenti proletari) non è riuscito a superare i classici confini che separano i settori di avanguardia e la larga massa dei lavoratori, e quindi non è riuscito a “sfondare” (se non in misura minima) l’argine tuttora rappresentato dal sindacalismo di stato (Cgil-Cisl-Uil), il quale da decenni tiene imprigionati e addomesticati nelle sue fila milioni di lavoratori dipendenti.

I motivi di ciò sono molteplici: a) il ruolo di cuscinetto svolto dal governo Conte 2 e la sua capacità di disinnescare forme di conflitto generalizzate attraverso un sapiente utilizzo degli ammortizzatori sociali e della concertazione con i vertici confederali; b) l’approccio rinunciatario e passivo della gran parte del sindacalismo di base, il quale per più di un anno è letteralmente scomparso dai radar del conflitto dentro e fuori dai luoghi di lavoro, sia a causa del legame organico di alcune sigle col governo, sia per via di una chiusura settaria e autoreferenziale agli innumerevoli appelli lanciati dal SI Cobas per dar vita a un fronte unico di classe; c) l’inconsistenza delle opposizioni interne alla Cgil, le quali pur mostrando un interesse a collaborare al percorso dell’assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi, hanno continuato ad assumere nel loro sindacato la linea del “minimo sforzo”, limitandosi nella gran parte dei casi ad utilizzare gli organismi della Cgil come mera tribuna delle loro posizioni, rinunciando a una battaglia a tutto campo contro il collaborazionismo di Landini con padroni e governo.

L’arrivo di Draghi al governo e l’escalation repressiva che porterà alla morte di Adil

Agli inizi di febbraio 2021, quasi in concomitanza con l’avvio della campagna vaccinale, il governo Conte si dimette per lasciare spazio al governissimo guidato da Mario Draghi, esponente di punta del grande capitale industriale e bancario europeo e internazionale, il quale viene fin dal primo momento osannato dalla quasi totalità dei media e della stampa borghese come l’”uomo della provvidenza”, l’unico capace di portare l’Italia fuori dalla crisi pandemica. Per la prima volta dal dopoguerra, l’autoproclamatosi “governo dei migliori” ottiene il sostegno del 90% del parlamento: tra i principali partiti, gli unici a negare la fiducia a Draghi sono i neofascisti di Fratelli d’Italia, i quali peraltro, per non essere tagliati del tutto fuori dai giochi di potere, garantiscono al nuovo premier un’opposizione “leale e costruttiva”…

Già in occasione del voto di fiducia alla camera dei deputati del 17 febbraio, il SI Cobas assieme alle altre realtà del Patto d’azione lancia una manifestazione a Roma, puntando ad arrivare fin sotto il Parlamento: il corteo non viene autorizzato e la piazza del concentramento viene cinta d’assedio dalle forze dell’ordine ma nonostante ciò alcune decine di lavoratori e disoccupati riescono a giungere fin sotto Montecitorio. Tuttavia, anche in tale occasione, si paleserà la sostanziale inconsistenza di gran parte del sindacalismo di base e delle soggettività anticapitaliste: mentre il SI Cobas organizza pullman da tutta Italia per dar voce all’opposizione dei lavoratori, il resto delle realtà promotrici della manifestazione (ad eccezione dei giovani del FGC) porterà in piazza numeri da mera testimonianza.

Da un’analisi retrospettiva, possiamo individuare in quelle giornate a cavallo tra febbraio e marzo 2021 l’inizio della controffensiva di stato e padroni, tesa non solo a fermare le nostre battaglie e le nostre rivendicazioni, ma anche e soprattutto a dare una “lezione esemplare” al SI Cobas, colpendo al cuore l’organizzazione, i suoi dirigenti e militanti di primo piano e alcuni tra i nostri principali insediamenti nei luoghi di lavoro a suon di manganellate, lacrimogeni, arresti, licenziamenti e aggressioni congiunte di polizia e squadracce padronali, con la complicità e talvolta l’aperto sostegno di ambiti istituzionali e governativi.

L’arresto di Carlo e Arafat e la chiusura della Fedex di Piacenza

Agli inizi di febbraio scoppiano una serie di scioperi alla TNT-Fedex di Piacenza, con i quali i facchini reclamano, al pari di migliaia di loro colleghi del SI Cobas nel settore trasporto merci e logistica, il pagamento di un premio di risultato come riconoscimento del rischio assunto recandosi al lavoro durante il periodo pandemico. Nel corso dell’agitazione, il presidio fuori dai cancelli viene brutalmente caricato dalle forze dell’ordine, costringendo i lavoratori a difendersi come possono dalla violenza della polizia.

A seguito di questi episodi, due tra i principali dirigenti nazionali del SI Cobas, Arafat e Carlo, vengono arrestati e posti ai domiciliari e decine di lavoratori colpiti da fogli di via e minacce di ritiro del permesso di soggiorno.

In risposta alla provocazione della Questura e della Prefettura di Piacenza, il SI Cobas lancia prima uno sciopero nazionale della logistica e subito dopo una mobilitazione nazionale nel capoluogo emiliano.

Il 13 marzo, nonostante le limitazioni dovute alla pandemia, migliaia di lavoratori e solidali invadono le strade di Piacenza, ma la risposta delle forze dell’ordine è durissima: la manifestazione viene letteralmente imprigionata in uno spazio estremamente angusto e i manifestanti ammassati in spregio alle più elementari misure di distanziamento sociale; in più occasioni la polizia provoca il presidio, e solo a seguito di una forzatura sarà possibile svolgere il comizio in condizioni di agibilità minima.

Il governo Draghi, dunque, getta definitivamente la maschera, rivelando inequivocabilmente il proprio ruolo di cane da guardia dei padroni, i quali, sentitamente, ringraziano del servigio e si preparano a una repentina controffensiva grazie alla strada spianata loro dalle forze dell’ordine.

Il 30 marzo, non caso a poche ore dal rilascio di Carlo e Arafat a seguito della caduta dell’inconsistente teorema giudiziario a loro carico, la società Alba, fornitrice in appalto sul magazzino Fedex di Piacenza, comunica ai lavoratori la sospensione dal lavoro a tempo indeterminato a seguito della volontà del committente di chiudere l’impianto e di trasferire le attività altrove. Da quella data ha inizio una battaglia durissima e senza esclusione di colpi fuori dai cancelli Fedex di gran parte d’Italia: una battaglia che durerà quasi 8 mesi, nel corso dei quali i 270 facchini di Piacenza, e con essi il SI Cobas su scala nazionale, avranno modo di conoscere il volto più cruento e brutale dei padroni e del loro Stato, i quali scaricheranno una violenza senza precedenti sugli scioperi e le iniziative sindacali e non esiteranno ad utilizzare squadracce armate di mercenari travestiti da bodyguard, crumiri e mafiosi per fermare le proteste laddove non riescono ad arrivare la violenza e le minacce delle forze dell’ordine.

I magazzini Zampieri di San Giuliano Milanese e di Tavazzano, improvvisati da Fedex come hub “clandestini” per lo stoccaggio e il trasporto delle merci precedentemente lavorate a Piacenza, assieme a quello ufficiale di Peschiera Borromeo, divengono dei veri e propri campi di battaglia, nei quali da aprile a giugno le cariche poliziesche, i fermi e i fogli di via si alternano, senza soluzione di continuità, con gli agguati di bodyguard e crumiri armati di mazze, pietre e finanche di pistole taser contro i lavoratori in sciopero: il 25 maggio a San Giuliano il presidio dei lavoratori viene assaltato da decine di mazzieri e a farne le spese, tra gli altri, è il nostro compianto Damiano “Gnappo” che si trovò con la testa rotta. Poche settimane dopo, a Tavazzano, si sfiora la tragedia: il presidio viene assaltato a colpi di bancali e un lavoratore di Piacenza, rivenuto in un lago di sangue, rimane in coma per oltre due giorni.

Parallelamente, si sviluppa e radicalizza la mobilitazione degli operai tessili del distretto pratese: la vertenza Texprint, nella quale decine di lavoratori ridotti in condizioni di sostanziale schiavitù e costretti a svolgere turni massacranti e straordinari non retribuiti, vengono licenziati non appena aderiscono al SI Cobas. Questa lotta diviene, analogamente alla Fedex di Piacenza, uno dei simboli della resistenza operaia nella fase pandemica, e proprio per questo sarà oggetto di ripetute aggressioni squadristiche all’esterno dello stabilimento. Anche in questa occasione, l’intero SI Cobas si stringerà attorno ai lavoratori colpiti dalla violenza padronale e statuale con una partecipatissima manifestazione nazionale svolta il 24 aprile nella piazza principale di Prato.

Manco a dirlo, gli innumerevoli episodi di violenza antioperaia, pur regolarmente denunciati da noi alle autorità competenti, sono sistematicamente archiviati dalle Procure, quelle stesse Procure e Prefetture che sono invece quanto mai solerti a notificare denunce e fogli di via ai lavoratori e ai sindacalisti combattivi…

Durante tutta la primavera, la nostra iniziativa è tesa a compattare il fronte delle vertenze più calde, e quindi ad unire la protesta dentro e fuori dai cancelli alla denuncia delle responsabilità del governo centrale. Tra maggio e giugno, per ben tre volte, i lavoratori Fedex e Texprint si uniscono alla lotta dei disoccupati 7 novembre e dei precari della manutenzione stradale della Campania, prima occupando la sede del PD del Nazareno, poi presidiando le sedi del Mise e del Ministero del lavoro, infine muovendosi fin sotto i palazzi del governo e del parlamento: soprattutto in quest’ultima occasione la risposta dello Stato è durissima, con cariche, feriti e fermi all’esterno di Palazzo Chigi.

Lo spartiacque dell’omicidio di Adil e lo sblocco dei licenziamenti

E’ questo il contesto e il clima nel quale il SI Cobas, assieme ad Adl Cobas e a una rediviva Usb, arriverà a proclamare lo sciopero nazionale della logistica per il 18 giugno 2021; ma è soprattutto questo il clima nel quale, proprio nel corso dello sciopero del 18 giugno, il nostro compagno Adil Belakhdim trovò la morte fuori dai cancelli della Lidl di Biandrate (NO), investito e schiacciato in maniera infame dal bilico guidato da un crumiro che aveva forzato il picchetto.

Fin dal primo momento, come SI Cobas denunciammo che quello di Adil era un omicidio di Stato e padroni perché, indipendentemente da chi fosse l’esecutore materiale, erano padroni e Stato a portare la responsabilità politica di quanto accaduto, avendo alimentato un clima senza precedenti di ostilità, di violenza e di criminalizzazione degli scioperi.

Il giorno successivo una manifestazione carica di rabbia, già precedentemente indetta dal SI Cobas, invade il centro di Roma con migliaia tra lavoratori e solidali. Tra il 21 e il 22 giugno in centinaia di aziende e di fabbriche vengono organizzati scioperi spontanei su iniziativa di operai e delegati di tutte le sigle sindacali. Il 26 giugno si svolge invece una manifestazione di più di tremila persone nel centro di Novara. Nelle settimane che seguono, un’ampia rete di sostegno e di solidarietà si stringe attorno al SI Cobas, ai compagni di Adil e ai suoi familiari: in brevissimo tempo, grazie alle sottoscrizioni per la cassa di resistenza, vengono raccolti più di 80 mila euro per i figli e i parenti di Adil.

Proprio in quegli stessi giorni arriva la notizia che il blocco dei licenziamenti varato dal governo Conte a inizio pandemia non sarà prorogato, e che dunque, a partire dal 1 luglio, i padroni potranno tornare a licenziare quasi ovunque in maniera indiscriminata: ciò sebbene il governo Draghi si guardi bene dal porre fine allo stato di emergenza…

Com’era prevedibile, i padroni colgono al volo la ghiotta occasione e già nelle prime due settimane di luglio assistiamo alla chiusura o al netto ridimensionamento di alcune importanti unità produttive, con lettere di licenziamento comunicate a mezzo social e senza alcun passaggio di consultazione sindacale, neanche sul piano meramente formale: i primi a farne le spese sono i 152 operai della Gianetti Ruote di Monza, a cui si aggiungono i 106 della Timken di Brescia e soprattutto i 422 della Gkn di Firenze. Questi ultimi daranno vita a una lotta dura e prolungata, caratterizzata dall’occupazione della fabbrica e da innumerevoli iniziative di

denuncia e di mobilitazione, capace di strappare un momentaneo stop delle procedure di licenziamento ma soprattutto di costruire una fitta rete di solidarietà su tutto il territorio nazionale. Nelle settimane successive sarà la volta della Whirlpool di Napoli, nella quale già da due anni i padroni avevano manifestato la chiara volontà di chiudere i battenti, e di Alitalia, il cui piano di ristrutturazione e di cessione delle attività alla nuova società ITA Airways prevede più di 7 mila esuberi.

Sullo sfondo di questi casi mediaticamente più noti, durante l’estate i padroni daranno vita ad un vero e proprio stillicidio di licenziamenti in migliaia di aziende medie e piccole. I più colpiti, manco a dirlo, sono i dipendenti delle ditte in appalto: solo nella logistica, oltre alla già menzionata chiusura del magazzino Fedex di Piacenza, partono licenziamenti a cascata alla Unes di Truccazzano, all’Ups, alla Logista, alla Nexive e alla XP di Bologna, alla Grafica Veneta, alla Raspini di Pinerolo, ecc. A questi vanno ovviamente aggiunti i licenziamenti politici, frutto di discriminazione antisindacale

E’ in questo contesto di rabbia e di genuina solidarietà operaia che si formano le basi per la ripresa del dialogo all’interno del sindacalismo di base: il 28 giugno si tiene a Roma un incontro promosso dal SI Cobas a cui partecipano la quasi totalità delle sigle di base e alcuni settori della minoranza Cgil, nel quale tutti manifestano la volontà di arrivare alla convocazione di uno sciopero generale unitario di tutto il sindacalismo di classe e combattivo a inizio autunno. Nelle settimane successive questa comunità d’intenti, pur nell’ovvia difficoltà di mettere insieme un panorama tanto variegato ed eterogeneo, porterà all’indizione comune dello sciopero generale dell’11 ottobre, sottoscritta da ben 15 sigle.

L’unità del sindacalismo di base si dissolve in poche settimane

L’indizione dello sciopero unitario, salutata con favore da ampi settori di lavoratori e ben al di là del classico ed angusto perimetro del sindacalismo di base, in realtà si rivelerà solo una brevissima parentesi.

Infatti, già nel corso dell’estate, allorquando il confronto inizia a spostarsi dal piano formale dell’indizione a quello sostanziale della costruzione dello sciopero, iniziano a riaffiorare le solite logiche di autoconservazione degli apparati e micro-apparati che ormai da anni vivacchiano nello stagno sempre più asfittico del sindacalismo di base “classico”, in larga parte orfano di un vero processo di protagonismo e di conflittualità sui luoghi di lavoro.

Nella stragrande maggioranza delle sigle promotrici dello sciopero, queste logiche finiscono per prevalere ed imporsi sulla necessità, storica e oggettiva, di costruire un fronte di classe unito, combattivo e all’altezza dell’offensiva padronale in atto: la storia dell’omicidio di Adil e delle aggressioni armate ai picchetti insegna, ma nella quasi totalità dei vertici sindacali “di base” non ha scolari.

Nelle settimane che precedono lo sciopero generale, si delinea un quadro a dir poco avvilente: a fronte delle sollecitazioni del SI Cobas verso lo sviluppo di comitati di sciopero che diano voce al protagonismo diretto delle lotte, e che aprano a un confronto franco e costruttivo con tutte quelle esperienze di conflitto esterne al perimetro del sindacalismo di base (disoccupati, movimenti per il diritto all’abitare, lavoratori GKN, studenti ecc.) e con quei settori politico-sociali che si erano messi in moto fin dall’inizio della pandemia (Patto d’azione anticapitalista, assemblea delle lavoratrici e lavoratori combattivi), la gran parte delle sigle di base oppone una logica di primogenitura sterile e autoreferenziale, tesa a considerare lo sciopero generale più come “proprietà privata” delle organizzazioni promotrici che come uno strumento a disposizione di tutti i lavoratori e proletari disposti a porsi sul terreno della lotta.

Il naufragio dell’assemblea nazionale unitaria del 18 settembre, che molti hanno ipocritamente imputato a una presunta velleità “egemonica” del Si Cobas, è in realtà il riflesso e la certificazione dell’incompatibilità

tra due opzioni di fondo: da un lato il fronte unico di classe come prospettiva strategica capace di andare oltre il mero tradeunionismo e la sterile autorappresentazione dello status quo; dall’altra la tendenza dei principali sindacati di base (su tutti Usb, Cub e Confederazione Cobas) di perpetuare, seppur in maniera unitaria, la liturgia dello sciopero autunnale come “vetrina” pubblicitaria di questa o quella sigla.

La scelta di tenere comunque la nostra assemblea a Bologna e di aprirla a tutte le realtà dei lavoratori e dei proletari combattivi, nel prendere atto del fallimento del percorso comune ma lasciando aperta la porta a tutti, si è rivelata saggia e quanto mai azzeccata: in una sala gremita (oltre 500 persone), tutte le principali esperienze di lotta hanno avuto la possibilità di prendere la parola e dar voce alle proprie battaglie e al proprio punto di vista sullo sciopero, indipendentemente dall’appartenenza sindacale, sociale o politica.

In definitiva, la fotografia reale della giornata di mobilitazione dell’11 ottobre sarà equiparabile al classico bicchiere mezzo pieno (o mezzo vuoto): grande partecipazione e adesione nella platea degli appartenenti al sindacalismo di base (alcune centinaia di migliaia di lavoratori); scarsa adesione sui luoghi di lavoro in cui è ancora forte l’influenza della triplice confederale e nei settori non sindacalizzati.

I pesanti “postumi” della rottura del percorso unitario divengono tangibili già nell’immediato: l’assemblea organizzata a Roma da Usb, Cub, Sgb, Cobas e altre sigle minori all’indomani dello sciopero, e che avrebbe dovuto sancire la nascita di un nuovo percorso unitario teso ad escludere principalmente il SI Cobas (ma dal quale si erano immediatamente sfilati anche anche l’Adl Cobas, lo Slai sc e il Sial Cobas) si rivela un fallimento totale, radunando poche decine di persone. Il successivo tentativo di “rianimazione”, con la proposta di uno spezzone unitario alla manifestazione nazionale contro il G-20 del 30 ottobre a Roma (e in aperta concorrenza con la proposta unitaria dei lavoratori GKN), registrerà un analogo flop…

Venendo al “nostro” campo, era inevitabile che il clima di frammentazione e di polemiche successive allo sciopero dell’11 ottobre finisse per riverberarsi, seppur in maniera limitata, anche sull’iniziativa del SI Cobas, sulle lotte in corso e sugli stessi percorsi unitari (Patto d’azione e assemblea dei lavoratori combattivi). Tra la metà di novembre e gli inizi di dicembre, dopo oltre 8 mesi di lotta e di scioperi ad oltranza, la vertenza dei licenziati Fedex di Piacenza si chiude con il reintegro di una minoranza dei lavoratori, mentre i restanti, stremati da denunce, fogli di via e mesi e mesi senza salario, decidono di sottoscrivere la proposta di incentivo all’esodo, che grazie alla lotta era nel frattempo lievitata fino a oltre 48 mila euro: un risultato importante e per certi versi clamoroso dati i rapporti di forza in campo, ma lontano dalle vittorie limpide che il movimento dei facchini era riuscito a conseguire negli anni precedenti. Si tratta di un risultato parziale che è stato frutto, da un lato della scelta volontaria (e politica!) dei padroni americani di sopportare un volume di perdite abnorme e insostenibile per ogni altro vettore della logistica (circa 50 milioni di passivo provocati direttamente o indirettamente dagli scioperi), dall’altro delle difficoltà nel tenere uniti su un terreno di lotta i lavoratori di tutta la filiera, e cioè di assumere e mantenere quel perimetro nazionale dello scontro che da oltre un decennio si è rivelato il principale asso nella manica del SI Cobas nel settore.

Tuttavia, il peso delle vicende legate alla costruzione dello sciopero generale nel determinare una fase di impasse è stato pressoché irrilevante se confrontato con il vero e proprio sconquasso prodottosi all’interno dell’area anticapitalista e delle sue avanguardie di classe, e dall’aspra, lacerante, caotica e in larga parte delirante bagarre determinata dall’introduzione dell’obbligo del green pass dentro e fuori ai luoghi di lavoro alla metà di ottobre 2021.

La “via occidentale” di contrasto alla pandemia…

Prima di entrare nel merito del lasciapassare, è quanto mai necessario riavvolgere il nastro e mettere a fuoco le origini e la natura puramente capitalistica di questa pandemia, il suo carattere globale e il suo impatto sulle condizioni di vita e di lavoro di miliardi (ed è bene sottolinearlo: miliardi!) di proletari in tutto il pianeta.

A tal fine, occorre ricordare che il 17 aprile 2021 il SI Cobas, assieme al Patto d’azione e ai compagni della Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, diede vita su questi temi a una partecipatissima assemblea nazionale online, nella quale si registrò un’ampia convergenza su alcuni punti fermi:

  • Il virus Sars- CoV 2 è con ogni probabilità il prodotto di un processo di zoonosi (salto di specie) avvenuto nella regione cinese del Wuhan, analogo a quello a cui abbiamo più volte assistito in tutte le epidemie e pandemie di origine virale negli ultimi anni (vedi Sars e Mers).
  • Tale processo è intimamente correlato alle dinamiche predatorie e di saccheggio delle risorse naturali e dell’ecosistema (allevamenti intensivi, deforestazione, ecc.) in corso su scala globale e alimentato ulteriormente dalla crescita esponenziale dell’industria e della domanda di beni di consumo dei paesi a capitalismo emergente.
  • Il Covid-19 rappresenta dunque a tutti gli effetti una pandemia di origine capitalistica.
  • La sua comparsa e diffusione è legata a doppio filo alla catastrofe ecologica in atto su scala mondiale, la quale concorre a determinare un quadro di vera e propria “sindemia” permanente.
  • Le strategie di contrasto messe in atto dalla quasi totalità dei governi occidentali sono destinate ad avere un efficacia solo parziale, in quanto cozzano in maniera frontale con l’esigenza di rilanciare l’accumulazione e la circolazione dei capitali per far fronte alla crisi sistemica dell’attuale modo di produzione.
  • Questa contraddizione insanabile tra le esigenza dei profitti e la tutela della salute è la causa della gestione fallimentare e caotica da parte dei governi occidentali, caratterizzata da una pletora di provvedimenti estemporanei, frammentari e privi di coerenza logica dal punto di vista sanitario. Il risultato è uno “stato di emergenza” perpetuo, utile come alibi per scaricare sui singoli (e in primo luogo sulla classe lavoratrice) sia i costi che la responsabilità della crisi sanitaria.

La comparsa in tempi-record dei vaccini di nuova generazione con la tecnologia a RNA messaggero, e le modalità di gestione delle campagne vaccinali da parte della quasi totalità dei governi occidentali, sono perfettamente in linea col quadro sopra descritto, e rispondono a una duplice necessità: da un lato quella di trovare rimedi capaci di “tamponare” nel più breve tempo possibile gli effetti più nefasti della pandemia dal punto di vista capitalistico (in primis il collasso dei sistemi sanitari e la scarsità di manodopera provocata dai contagi e dalle quarantene); dall’altro l’incompatibilità delle misure necessarie alla prevenzione e all’azzeramento dei contagi (lockdown, distanziamento sociale, testing di massa dell’intera popolazione, rilancio della medicina territoriale) con il quadro capitalistico attuale, caratterizzato da decenni di tagli alla spesa sociale e sanitaria e dall’inasprirsi della competizione globale con le nuove superpotenze, in primo luogo quella cinese.

Capifila di questa strategia sono stati gli Stati Uniti di Trump, la Gran Bretagna di Boris Johnson e il Brasile di Bolsonaro, i quali, in nome della “libertà”, hanno negato toutcourtl’esistenza della pandemia o ne hanno notevolmente sottostimato gli effetti, arrivando a rifiutare le più elementari misure di prevenzione fin quando il collasso degli ospedali e le migliaia di morti non potevano essere più nascosti.

A questo modello, nei fatti, si sono via via accodati tutti i principali governi europei, seppur nella versione “soft” di chiusure parziali e a singhiozzo. L’inefficacia di tale approccio è stata confermata a ogni fase di ripresa dei contagi, ma è stata costantemente dissimulata attraverso campagne politico-mediatiche tese a scaricare le colpe sull’ “irresponsabile” di turno (prima i runner solitari, poi i “no-vax”) e quindi a criminalizzare i comportamenti individuali.

Chi in questi mesi si è lasciato affascinare e abbagliare dalle fantasie di complotto su presunti “sieri genici sperimentali” messi in commercio da una non meglio precisata “élite” con lo scopo deliberato di uccidere, avvelenare o cambiare il dna alle popolazioni vaccinate, dimostra non solo l’ignoranza dei meccanismi su cui si fonda la tecnica dei vaccini a mRNA, ma anche e soprattutto un approccio cialtronesco di fronte alle dimensioni epocali di questa pandemia e alle gigantesche (e, queste si, reali) contraddizioni capitalistiche che il CoViD ha fatto venire a galla, prima tra tutte proprio quel fenomeno di subordinazione della scienza alle esigenze dei profitti: una subordinazione che la vulgata negazonista si propone di contestare senza disporre minimamente degli strumenti analitici e di critica necessari per mettere a fuoco tali processi, finendo quindi sistematicamente (e spesso volontariamente) per sparare sul bersaglio sbagliato.

Lo scopo dei padroni, del loro stato e dei loro governi non è quello di sterminare o decimare deliberatamente e indiscriminatamente la popolazione: se così fosse, essi si scaverebbero la fossa da soli, in quanto finirebbero per eliminare, oltre a una parte della loro stessa classe, anche quella forza-lavoro dal cui sfruttamento essi ricavano i loro profitti.

Il loro scopo è, al contrario, quello di mantenere in piedi l’attuale sistema di sfruttamento e di dominio, minacciato prima dalle crisi capitalistiche, e ora anche dalla crisi pandemica: i morti sono nient’altro che un’”effetto collaterale” da ritenere accettabile solo nella misura in cui è funzionale allo scopo di far girare l’economia, e con essa i profitti.

I 4 operai che ogni giorno muoiono sul lavoro sono per il capitale e per i suoi governi un fatto irrilevante e quindi accettabile, perché non impattano sui profitti; le stragi nelle RSA che a inizio pandemia hanno decimato un’intera generazione di anziani sono per il capitale irrilevanti in quanto si tratta di morti “improduttive”, ma migliaia di anziani ospedalizzati finiscono per intasare gli ospedali e vanno quindi contenuti dallo Stato; centinaia di adulti in età da lavoro a casa ammalati o in quarantena rappresentano per i padroni e lo stato borghese un costo insostenibile: è per questo che durante tutto il 2020 si è da un lato evitato qualsiasi screening di massa della popolazione, dall’altro si è garantito ai padroni di scaricare tutti i costi della pandemia sulla collettività attraverso l’accesso indiscriminato alla CIG-CoViD; ed è per questo che, non appena i vaccini hanno permesso un parziale svuotamento degli ospedali, la corsa verso “la normalità” è tornata prepotentemente in voga, fino al punto di abolire il pagamento dell’indennità di malattia per i periodi di quarantena.

Dovrebbe apparire chiaro anche a un bambino che i lockdown, le quarantene, le misure di contenimento, le chiusure degli esercizi commerciali e le restrizioni di ogni tipo sulla produzione e sulla circolazione delle merci rappresentano per il capitale un costo economico mastodontico e una mina capace di far saltare l’intero sistema. Non è un caso che Confindustria, da sempre avanguardia del fronte padronale, fin dal primo picco pandemico di marzo 2020 ha lottato senza quartiere per tenere aperto tutto fregandosene delle ospedalizzazioni e dei morti, e che il governo Draghi, utilizzando l’alibi del green pass e delle vaccinazioni, ancora nel pieno del quarto picco pandemico, ha cominciato a spingere sempre più

nettamente nella direzione del “liberi tutti”, ivi compresi i positivi asintomatici. I vaccini, da questo punto di vista, sono serviti come passe-partout universale per liberarsi, qui ed ora, dalle maglie delle misure di contenimento.

La scienza, incapace di produrre “qui ed ora” dei vaccini utili a debellare il virus, ha messo a disposizione del proprio committente i rimedi che aveva a disposizione nel momento storico dato, per rispondere alla richiesta posta dai governi occidentali: non certo la “cura” per il coronavirus, bensì la limitazione delle ospedalizzazioni e delle morti come mezzo per garantire al capitale un prosieguo della navigazione relativamente tranquillo.

La proprietà privata dei brevetti ha fatto il resto: Pfitzer, Johnson & Johnson e co. (le tanto famigerate Big Pharma), non essendo certo enti di beneficenza, hanno indirizzato il mercato nella direzione a loro più profittevole, inondando di vaccini l’occidente capitalistico in cui i farmaci vengono acquistati dallo stato a prezzo più alto e ignorando completamente la domanda di vaccini nei paesi controllati e dominati dall’imperialismo (Africa, Medio Oriente, Sudest Asiatico e Sudamerica), in ciò supportati dai governi occidentali che hanno ostacolato e sabotato il programma Co-Vax destinato ai paesi poveri.

Nel contesto di una pandemia che è per sua stessa natura globale, era del tutto prevedibile che il divario abissale tra popolazioni occidentali “iper-protette” con tre o più dosi e altre per nulla protette avesse come sua conseguenza il proliferare di varianti e, quindi, la cronicizzazione della pandemia: ancora una volta, la logica miope del capitale, lungi dal risolverne le contraddizioni, finisce al contrario per alimentarle in un vortice senza fine.

Altro che “dittatura sanitaria” o “esperimenti di disciplinamento e controllo sociale di massa”: l’unica dittatura a cui abbiamo assistito in questi due anni è quella del capitale e dei profitti!!!

… e il “modello cinese” di contrasto al CoViD-19

Ben diverso è stato l’approccio seguito dalla Cina, paese in cui il Covid ha fatto la sua prima comparsa, e da altri paesi (Cuba, sudest asiatico), ma anche lo stesso Giappone, pur interno all’imperialismo occidentale, un approccio fondato su un sistema rigido e capillare di contenimento dei contagi basato sul cosiddetto sistema delle “3-T” (test di massa, tracciamento dei contagi e trattamento sanitario) combinato con lockdown radicali e circoscritti alle aree colpite da focolai attivi.

Tale approccio ha consentito, soprattutto alla Cina, di superare la prima fase dell’epidemia nel giro di poche settimane (già nel mese di aprile 2020 i contagi erano sensibilmente diminuiti e le ospedalizzazioni quasi azzerate) e quindi di far ripartire le attività economiche e sociali in quasi totale sicurezza.

Dopo la messa a punto dei vaccini, Pechino ha raggiunto rapidamente il più alto tasso di vaccinazioni al mondo, combinandolo con le altre misure di contenimento già adottate nella fase iniziale, compresi lockdown rigidi ed estesi anche in presenza di focolai circoscritti (l’ultimo in ordine di tempo coinvolge 40 milioni di abitanti), nonché provvedimenti di limitazione della socialità analoghi al green pass nostrano.

Per quanto i successi della strategia “sistemica” della Cina siano stati sistematicamente ignorati e censurati dai governi e dai media occidentali, è oramai un dato di fatto che la pandemia di CoViD-19 ha mostrato la maggiore efficienza del capitalismo emergente cinese nel fronteggiare e risolvere le perturbazioni interne al sistema grazie alla combinazione organica di tutte le misure di contrasto. Il “turbocapitalismo di Stato” di Pechino, nel sacrificare il tornaconto economico immediato a quello di medio periodo, ha avuto decisamente la meglio sul gretto e miope immediatismo tipico dell’Occidente liberista. Nel riconoscere tale evidenza, non concediamo nulla al modello capitalistico cinese, fondato su uno sfruttamento della forza- lavoro e su un sistema di oppressione dei proletari anche più brutale di quello occidentale.

Va peraltro evidenziato che tale strategia di contrasto è oggettivamente facilitato dall’attuale livello di sviluppo delle forze produttive esistente in Cina, di dimensioni tali da far si che i lockdown e le rigide politiche di restrizioni delle attività abbiano un impatto relativamente modesto sulla massa complessiva dei profitti.

Il green pass: un frutto (avvelenato) della gestione capitalistica della pandemia e dei piani di divisione e frammentazione dei proletari

Di fronte a questi scenari, gravidi di opportunità per chi si pone nell’ottica del rilancio del movimento di classe e nella prospettiva dell’anticapitalismo, abbiamo invece assistito a una clamorosa capitolazione di buona parte del movimento di classe nostrano, il quale, a partire dall’arrivo dei vaccini e ancor più con l’introduzione del greenpass obbligatorio sui luoghi di lavoro, non ha saputo far altro che dilaniarsi in una vera e propria guerra di religione tra vaccinisti e antivaccinisti, pro-greenpass e no-greenpass.

Una contrapposizione che nei mesi scorsi, a colpi di diffamazioni e scomuniche reciproche, ha raggiunto livelli parossistici e del tutto tragicomici, ottenendo come unico risultato quello di frammentare un fronte di classe già debole e faticosamente ri-messo in piedi grazie ai percorsi e agli appelli lanciati dal SI Cobas a inizio pandemia. Da un lato, un coacervo multiforme di personaggi in cerca d’autore, che dopo esser stati alla finestra per un anno e mezzo di pandemia e pressoché mai pervenuti in tutte le lotte e le mobilitazioni descritte nella prima parte di questo documento, sono dapprima resuscitati in concomitanza con le iniziali manifestazioni del movimento “no-green pass”, poi hanno ben pensato di convertirsi all’antivaccinismo e al negazionismo militante, facendo proprie le più becere teorie complottiste e cospirazioniste veicolate dalle destre reazionarie e infine, giusto per non farsi mancare niente, hanno intrapreso un’incessante campagna di fango e di veleno nei confronti del SI Cobas, colpevole di non sostenere le manifestazioni della galassia negazionista. Dall’altro, come contraltare, alcuni settori provenienti dal percorso del Patto d’azione, i quali hanno sposato in toto le misure adottate dal governo Draghi (compreso il greenpass), finendo nei fatti per avallare e legittimare la gestione capitalistica della pandemia attraverso la condivisione di una sua misura-cardine dal punto di vista politico, e giungendo all’assurdità di bollare come “nemico di classe” chiunque criticasse l’impianto e la funzione repressiva e diversiva svolta dal greenpass obbligatorio sui luoghi di lavoro.

Il fatto che entrambe queste conventicole, pur da versanti opposti, abbiano per mesi e mesi indirizzato i propri strali principalmente contro la nostra organizzazione (e cioè contro chi ha rappresentato il cuore dell’opposizione di classe in questi due anni di pandemia e ha pagato il prezzo più alto anche in termini repressivi) ha dato la reale misura della loro inconsistenza e della loro incapacità di condurre una lotta coerente contro padroni e governo.

Per oltre 6 mesi abbiamo volutamente evitato di assumere nette prese di posizione al riguardo, convinti che avrebbero alimentato soltanto un’inutile escalation di “botta e risposta” prive di qualsiasi utilità per la classe lavoratrice, anzi del tutto autolesioniste per chi, come noi, si pone come compito prioritario il superamento di ogni frammentazione artificiosa in seno alla classe.

In non poche occasioni, abbiamo letto da ambo gli “schieramenti” castronerie di dimensioni tali da arrivare ad interrogarci seriamente sullo stato di salute mentale di chi le aveva prodotte. Ciononostante, abbiamo soprasseduto a ogni tentazione di replica istintiva, nella convinzione che la complessità delle questioni sul tappeto, e il nodo quanto mai insidioso rappresentato dell’utilizzo politico, strumentale e divisivo della campagna vaccinale da parte del governo, costituivano un vero e proprio terreno minato per un’organizzazione rappresentativa di migliaia di lavoratori di diversa provenienza geografica, anagrafica, culturale, etnica e religiosa.

Abbiamo scelto di affrontare la “tempesta” con prudenza e raziocinio, studiando e analizzando le singole problematiche, interrogando esperti e compagni del nostro schieramento, senza farci sedurre da facili semplificazioni e senza farci intruppare in nessuno dei due schieramenti, preservando un punto di vista autonomo, di classe e di critica organica e complessiva della gestione capitalistica della pandemia, senza nulla concedere alle tesi dominanti, ma guardandoci da ogni ammiccamento e subalternità alle deliranti e strampalate gazzarre alimentate da settori della piccola borghesia in rovina e abilmente utilizzate dalle destre più retrive e antiproletarie.

Ma al tempo stesso, non abbiamo esitato un secondo nel prendere posizione contro il greenpass, denunciando la sua natura di strumento politico (e non certo sanitario) pienamente coerente con l’intera impalcatura della gestione capitalistica della pandemia, la sua strumentalità tesa a dividere e confondere le fila del proletariato, e soprattutto l’inaccettabile intransigenza “a senso unico” di un sistema che per mesi ha lasciato agire il virus indisturbato in nome della sacralità dell’economia e dei profitti e ha contribuito ad alimentare timori e fobie irrazionali nella popolazione grazie alla sovraesposizione mediatica offerta alla galassia negazionista, per poi colpire in maniera spietata, addirittura con la sospensione dal lavoro e dal salario, l’esigua minoranza di coloro che si sono sottratti alla vaccinazione anche a seguito di tali canee mediatiche.

Mentre la quasi totalità delle avanguardie di classe e dello stesso sindacalismo di base ha nei fatti assunto lo spauracchio dell’antivaccinismo militante come alibi per rimuovere, sospendere e/o silenziare ogni critica alla gestione dell’emergenza (e quindi anche alla gestione della campagna vaccinale), il SI Cobas ha proseguito sulla propria strada testardamente e coerentemente con i percorsi di lotta portati avanti fin dai primi giorni di pandemia, senza cedere ad alcun ammiccamento con la sequela di scempiaggini diffuse dalla galassia negazionista ma al tempo stesso senza concedere alcun margine di legittimazione a uno stato borghese che, forse mai come ora, ha dimostrato agli occhi di milioni di lavoratori e di proletari non solo di essere del tutto incapace di adottare soluzioni per la tutela della salute e della vita della collettività, ma di essere, al contrario, parte attiva e integrante del problema.

Oggi che lo stato d’emergenza sanitaria volge al termine, e con esso le blande misure di contenimento e tutte le “restrizioni”, con un governo che sancisce “per decreto” la fine della pandemia (nonostante vi siano ancora decine di migliaia di contagiati e tra 100 e 150 morti al giorno), riteniamo maturi i tempi per dichiarare la fine dell’”ora di ricreazione” anche all’interno del movimento di classe, tracciare un bilancio franco e trasparente di questi ultimi mesi e, quindi, fare i conti con tutti coloro che si sono illusi di poter utilizzare il tema dei vaccini e del green pass per seminare discordie dentro e fuori al SI Cobas cercando di raccattare qualche consenso con metodi sciacalleschi e su argomentazioni fondate su fobie irrazionali, sia nei confronti della pandemia che nei confronti dei vaccini.

La composita e multiforme galassia antivaccinista

Il movimento contro le vaccinazioni obbligatorie è antico quanto i vaccini stessi.

Già agli inizi dell’800, quasi in concomitanza con l’invenzione del vaccino contro il vaiolo, nacquero e si svilupparono movimenti popolari di strenua opposizione ai vaccini, che mantennero le loro convinzioni nonostante tra i vaccinati le percentuali di morti per il vaiolo fossero di dieci volte inferiori a quelle dei non vaccinati: la decisione di Napoleone di rendere obbligatorie le vaccinazioni provocò ondate di protesta sia in Italia che in Francia.

Addirittura quando a metà dell’800 l’Inghilterra introdusse il vaccino obbligatorio per i bambini, vi furono movimenti di protesta che durarono svariati decenni e riuscirono a più riprese a far abolire i provvedimenti governativi: nel 1885 a Leicester vi fu una manifestazione antivaccinista che portò in piazza più di 80 mila persone, con tanto di corteo raffigurante finte bare di bambini. A seguito di queste proteste il tasso di vaccinazioni calò drasticamente e aumentarono esponenzialmente i casi di morte per malattie infettive. Analoghe sommosse avvennero negli anni successivi negli Stati Uniti e in Brasile.

Già a quell’epoca appariva chiaramente che le convinzioni antivacciniste assumevano due matrici principali: da un lato il tradizionalismo cristiano e più in particolare cattolico (radicato prevalentemente in Italia e in Europa) che identificava i vaccini come veicolo del diavolo, in quanto violavano il principio della predestinazione divina (in sostanza: “se devi morire muori, perché tale è la volontà di Dio: quindi opporsi alla volontà divina attraverso le medicine e i ritrovati scientifici è peccato”); dall’altro gli oppositori di matrice negazionista-liberale (fortemente presenti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna) per i quali il vaccino non solo era inutile e dannoso, ma il suo obbligo costituiva un’intollerabile negazione della “libertà personale” che lo Stato non aveva il diritto di imporre.

Come vedremo, queste forme di superstizione e di esaltazione assoluta della libertà individuale resteranno radicate nel corso dei secoli in settori minoritari ma tutt’altro che trascurabili della popolazione, fino ad arrivare al giorno d’oggi, con la ripresa di veri e propri movimenti di massa contro le vaccinazioni obbligatorie.

Negli ultimi decenni il fronte antivaccinista si è anzi ingrossato, accogliendo nelle sue fila i sostenitori di svariate tesi naturiste (cioè i propugnatori della selezione naturale della specie e dell’eugenetica), antimoderniste e soprattutto, la galassia del cospirazionismo e del complottismo.

Sebbene nel corso di più di due secoli le tesi antivacciniste si siano rivelate del tutto infondate e sistematicamente smentite dai fatti, la continuità nel tempo e il carattere dogmatico di queste convinzioni, refrattarie a ogni tentativo di confutazione basato su dati ed elementi oggettivi, conferiscono all’antivaccinismo il carattere di una vera e propria fede religiosa.

D’altra parte, va evidenziato che il movimento operaio nel corso della sua storia ha sempre avversato tali posizioni, e si è sempre battuto per l’accesso gratuito e di massa ai vaccini in nome della lotta per la difesa della salute dei lavoratori.

Le proteste durante la pandemia attuale

Tale movimento ha ripreso prepotentemente vigore all’indomani dell’introduzione dei vaccini contro il CoViD 19, diffondendosi in gran parte dell’occidente e intrecciandosi con le proteste contro le chiusure e le restrizioni portate avanti, come si è visto, da settori di commercianti e piccola-media borghesia durante tutto il 2020.

A partire dall’estate 2021 tale movimento ha preso ulteriore slancio a seguito dell’introduzione del green pass obbligatorio sui luoghi di lavoro, fino a raggiungere il picco nella prima metà di ottobre, con la oramai

nota manifestazione di decine di migliaia di persone del 9 ottobre a Roma, sfociata nell’assalto alla sede nazionale della Cgil guidato da esponenti di Forza Nuova e di “Io Apro”, seguita dalla mobilitazione dei portuali di Trieste tra il 15 e il 20 ottobre.

Fin dalla fine dell’estate, come SI Cobas abbiamo espresso nei confronti di questo movimento una posizione che solo un analfabeta potrebbe definire “poco chiara” o addirittura ambigua.

La nostra analisi è sempre partita da un presupposto-base: i movimenti antivaccinisti erano oggettivamente inattraversabili per le realtà del movimento di classe. E questo non solo per via delle loro direzioni, composte in larga parte dalle destre reazionarie, sovraniste, fasciste e razziste, da sempre nemiche giurate degli immigrati e quindi del 95% dei nostri lavoratori; ma anche e soprattutto perchè le ragioni e gli obbiettivi di quel movimento muovevano da istanze non solo diverse, ma del tutto antitetiche alle battaglie da noi portate avanti durante tutta la fase pandemica: da un lato la lotta per la tutela della salute e della sicurezza sui posti di lavoro, dall’altro l’opposizione ai tamponi e alle mascherine, presentate come un bavaglio; da un lato la battaglia per il diritto a stare a casa a salario pieno, dall’altro la spinta per riaprire tutto; da un lato la denuncia del ruolo di Confindustria e dei padroni nell’aumento dei morti e dei contagi, dall’altro la pandemia presentata come un’invenzione dei poteri forti, intenti a terrorizzare la popolazione con lo scopo di imporre chiusure e vaccinazioni.

Questa distanza abissale non riguardava tanto la questione dei vaccini in se, sulla quale abbiamo sempre tenuto aperto il confronto, bensì il più generale impianto negazionista sulla pandemia, radicato nel dna di quelle piazze.

D’altronde, bastava osservare a occhio nudo chi erano i “guru” di quelle piazze per rendersi conto del loro carattere apertamente reazionario: personaggi come Fusaro, Meluzzi, Fiore, Castellino, il generale Pappalardo, esponenti di Fratelli d’Italia e della galassia rossobruna, ecc.

Ma come abbiamo visto poc’anzi, sarebbe del tutto semplicistico descrivere questo movimento come una semplice sommatoria di fascisti e sovranisti: al contrario, il suo successo non si spiegherebbe se non tenessimo conto di alcuni fattori determinanti:

  1. l’influenza del tradizionalismo cattolico, rappresentato dalle contro-encicliche del Monsignor Viganò, nelle quali la negazione della pandemia e l’equiparazione dei vaccini a un “siero del diavolo” si mischiano alle invettive contro l’aborto, contro l’immigrazione “incontrollata”, contro i gay e contro un generico “globalismo modernista”.
  2. Il peso dei circuiti dell’alt-right trumpiana e della setta complottista Q-anon,protagonisti del tentato assalto al Campidoglio americano del gennaio 2021 e sbarcati in occidente grazie a massicce ed articolate campagne a mezzo social.
  1. La vera e propria infodemia che ha accompagnato la fase pandemica, condita da tonnellate di bufale e fake news alimentate non solo dai social, ma anche dalla sovraesposizione mediatica offerta dai giornali e dalle televisioni ai vari esponenti no-vax e negazionisti, ai quali, a dispetto del loro slogan “giornalisti terroristi”, veniva garantita una presenza quotidiana in innumerevoli programmi e talk show. Una sovraesposizione mediatica che non ha risparmiato i cosiddetti “esperti ufficiali”, utilizzati per maratone no-stop in TV nelle quali, in non poche occasioni, si smentivano a vicenda sull’efficacia di questa o quella misura, e finendo per alimentare la confusione tra la popolazione e facilitando la propaganda negazionista.
  2. La sfiducia ormai dilagante verso ogni indicazione che provenga dalle “autorità”, ivi comprese quelle sanitarie, e la conseguente tendenza di porzioni non irrilevanti della popolazione a perseguire strategie di cura contro le malattie fondate sulle concezioni più fantasiose, purché ammantate di un preteso carattere “alternativo”.
  3. In ultimo, ovviamente, l’introduzione del green pass obbligatorio sui luoghi di lavoro. Proprio quest’ultimo evento, sapientemente orchestrato dal Governo Draghi, ha aperto un vero e proprio “vaso di Pandora”, producendo un’opposizione di dimensioni ben più ampie rispetto ai confini tradizionali dell’antivaccinismo e del negazionismo.

L’introduzione del greenpass, traducendosi in un vero e proprio ricatto nei confronti di tutti i lavoratori non vaccinati, ha cambiato oggettivamente il quadro.

E’ infatti impossibile non vedere come la platea dei non vaccinati non fosse composta soltanto da negazionisti e no-vax duri e puri, bensì da milioni di lavoratori “esitanti” per le ragioni più disparate, o più semplicemente impauriti a causa delle gazzarre alimentate dai social e dai media.

Per questo motivo, abbiamo preso fin dal primo momento una posizione netta di opposizione al green pass obbligatorio e alle sospensioni, senza nulla concedere al negazionismo, ma denunciando al contempo con forza la strumentalità dell’operazione politica di divisione messa in atto dal governo Draghi: un governo servo dei padroni e delle banche, responsabile della mancata attuazione di vere misure di prevenzione e quindi privo di alcuna credibilità per imporre misure di tali dimensioni.

La strategia governativa e istituzionale di divisione è stata subdola e infame: additare tutti i non vaccinati come capri espiatori dei propri fallimenti, con l’obbiettivo di puntare i riflettori (e il crescente malcontento diffuso) verso gli “untori”, gli “irresponsabili”, i “criminali” renitenti alla vaccinazione.

Alcuni settori del movimento di classe, ivi comprese realtà legate al Patto d’azione, partendo dalla denuncia del carattere ambiguo delle piazze no-vax e dell’egemonia in esse esercitata dai settori sovranisti e reazionari, hanno nei fatti “buttato via il bambino assieme all’acqua sporca”, finendo nei fatti per avallare e legittimare l’operazione politica del governo sulla base di una falsa equazione tra vaccino e greenpass, e giungendo alla conclusione che se il vaccino è uno strumento utile o necessario a fronteggiare i contagi, il greenpass ne sarebbe la sua traduzione logica, casomai da superare nella direzione di un vero obbligo vaccinale.

Questa tesi, che a prima vista potrebbe apparire logica per chiunque non accetta le tesi antivacciniste, compie il grave errore di isolare la singola questione dal contesto più complessivo della pandemia e della sua gestione disastrosa da parte di governo e padroni, e finisce nei fatti per delegare a questi ultimi il compito di tutelare la salute della collettività e dei lavoratori.

Affermare l’utilità del vaccino non equivale affatto ad avallare i ricatti governativi: le diverse misure sanitarie contro la pandemia e per dotarsi di una sanità collettiva adeguata sono una battaglia che il movimento di classe deve condurre con i propri strumenti politici, senza appoggiarsi alla repressione statale, che ne snaturerebbe inevitabilmente il senso, ma vincendo una lotta di tendenza nelle file degli stessi proletari per conquistarne la fiducia, vincere le diffidenze immotivate e farsi riconoscere come la forza che più coerentemente difende la salute e la vita dei lavoratori. Al contrario, arrivare a sostenere, come abbiamo letto in alcuni comunicati e dichiarazioni di realtà del sindacalismo di base che si proclamano “anticapitaliste”, che chiunque non si vaccina è un “nemico di classe”, un “crumiro”, ecc. (quasi come se queste realtà fossero a capo di un governo rivoluzionario e non, invece, espressione di una frazione infinitesimale della classe lavoratrice…) è una linea di condotta non solo infantile ed incapace di leggere e interpretare i motivi per cui milioni di lavoratori hanno esitato o si sono opposti alle vaccinazioni, ma in ultima istanza una posizione di sostanziale accodamento al governo Draghi, tanto più nella misura in cui quest’ultimo ha utilizzato la “crociata” contro i non vaccinati come sua principale armadi consenso, di prestigio sul piano interno e internazionale e soprattutto di autoassoluzione rispetto al complesso delle politiche digestione della crisi sanitaria e sociale.

Tali prese di posizione, nel criminalizzare singoli comportamenti (per quanto discutibili) dei proletari, si traducono, volenti o nolenti, in un’assoluzione nei confronti dei veri responsabili delle migliaia di morti che potevano essere evitate: i padroni e il governo. Ciò è a nostro avviso tanto più grave nella misura in cui i percorsi unitari intrapresi a partire dal primo picco pandemico avevano assunto come presupposto comune l’opposizione di classe alla gestione della crisi pandemica nel suo complesso, quindi al netto di ogni valutazione parziale sui singole misure e provvedimenti che esulasse dagli obbiettivi generali che il governo e la borghesia si prefiggevano.

In quest’ottica, l’ integralismo vaccinista e nei fatti “pro-greenpass” assunto a mo di dogma da alcune realtà sindacali, politiche e sociali aderenti al Patto d’azione (su tutte lo Slai Cobas per il sindacato di classe, il PCL e gli stessi compagni del CSA Vittoria) ci ha destato non poco sconcerto: se ci si prefigge l’obbiettivo di costruire un opposizione di classe e intransigente al governo dei padroni e alle sue politiche di macelleria sociale costruite con l’alibi dell’emergenza pandemica, non si possono al tempo stesso legittimare singoli pilastri dell’impalcatura governativa con aperture di credito che nei fatti delegano allo stato (e quindi ai padroni) la tutela della salute e della sicurezza dei proletari dentro e fuori ai luoghi di lavoro, e men che meno si può accettare che un esecutivo al soldo di Confindustria possa arrogarsi, senza colpo ferire, il potere di decidere chi può lavorare e chi invece deve restare a casa per mesi e mesi senza salario.

Appare a dir poco desolante che delle soggettività appartenenti all’area anticapitalista, pur di contrapporsi “per principio” alle piazze negazioniste, siano nei fatti finite preda di un’isteria uguale e contraria, cadendo nella trappola della narrazione governativa sulla “necessità del greenpass” quale misura sanitaria, e arrivando ad ignorare che persino Amnesty International (che non sono di certo in odore di antivaccinismo) ha duramente censurato il governo Draghi all’indomani dell’introduzione del greenpass rafforzato, denunciandone la sospensione dei diritti fondamentali all’istruzione, al lavoro e ai trasporto… Questa capitolazione, che in alcuni casi si è accompagnata a proclami su una presunta e alquanto caricaturale “purezza della linea proletaria”, ha di fatto accelerato (pur non essendone l’unica causa) la fine dell’esperienza del Patto d’azione.

Peraltro, oggi è ormai del tutto pacifico che il green pass non solo non ha sortito alcun effetto benefico dal punto di vista del contenimento dei contagi, ma ha persino sortito effetti negativi per il combinato disposto di due circostanze. La prima è che anche i vaccinati, pur se in misura minore si contagiano e la seconda è che, come evidenziato da numerosi esperti non certo antivaccinisti, limitare l’effettuazione dei tamponi solo ai non vaccinati lasciando tutti i vaccinati liberi di muoversi e di andare al lavoro con un falso attestato di immunizzazione, senza prevedere tamponi periodici anche a loro carico, e smantellando di fatto le poche misure di contenimento previste, ha determinato il paradosso per cui spesso erano i vaccinati a contagiare i non vaccinati.

Oggi abbiamo la riprova che la canea alimentata da ambo le parti attorno al green pass si è risolta in una vera e propria farsa: proprio la frangia più integralista dei sostenitori del lasciapassare (con in testa, tra gli altri, Renzi e il virologo da talk-show Bassetti) è la stessa che ha spinto per il “liberi tutti” in nome del quale si sono battuti per mesi gli antivaccinisti e i negazionisti, per negare il pagamento della malattia sulle

quarantene e per “consentire” anche ai positivi asintomatici di andare in giro tranquillamente: il tutto con decine di migliaia di positivi e un centinaio di morti al giorno!

Come SI Cobas abbiamo fin dal primo momento messo in guardia da questa enorme campagna di distrazione e di divisione di massa: abbiamo guardato con interesse e curiosità alla prima fase di mobilitazione dei portuali di Trieste senza sottovalutarne i limiti e le ambiguità di fondo e abbiamo scioperato contro il ricatto del green pass, ritenendo inaccettabile la sospensione dal lavoro e dallo stipendio e per impedire che i costi della crisi fossero scaricati unicamente sui lavoratori non vaccinati, ma senza nulla concedere alle fantasie antivacciniste, e soprattutto in maniera autonoma e alternativa alle gazzarre reazionarie e negazioniste.

Abbiamo in sostanza assunto una posizione “scomoda” dato il livello di polarizzazione e di scontro sul tema vaccinale, ma organica e coerente con due anni di battaglie sui luoghi di lavoro e collegando a doppio filo il nostro no di classe al green pass con la battaglia per i tamponi gratuiti a tutta la popolazione e per il rilancio su larga scala della sanità pubblica territoriale.

I fatti dicono che né i fautori del green pass draghiano, né i sostenitori dell’”unità di piazza” con i vari Paragone, Pappalardo, Fiore, mons. Viganò ecc. possono dire la stessa cosa…

Il “fuoco amico” contro il SI Cobas

Nella riunione del Coordinamento Nazionale S.I. Cobas del 12 dicembre è stato presentato e messo agli atti il documento “Per una discussione franca e militante in tema di gestione autoritaria della pandemia” firmato dai “Lavoratori della manutenzione stradale della Campania – Banchi Nuovi – Iscritti al S.I. Cobas”.

Questo testo, che è facilmente reperibile in rete e negli scorsi mesi è divenuto una sorta di “pietra miliare” nella variegata costellazione della “sinistra antivaccinista”, di personaggi espulsi dalla nostra organizzazione per indegnità politica e morale e di qualche residuale setta di parolai “duri e puri”, permanentemente alla ricerca di fantomatici “nuovi soggetti” capaci di sostituire la vecchia e obsoleta classe lavoratrice quale motore della lotta al capitalismo e, per questo, visceralmente ostili al SI Cobas, le cui lotte e il cui orientamento classista vengono sistematicamente e sprezzantemente bollate come “sterile economicismo”.

Alle accuse politiche contenute in questo documento ha risposto in modo chiaro, pacato ed esaustivo il Coordinamento Provinciale di Napoli, che ha anche ricostruito i tratti salienti del rapporto fra Banchi Nuovi e SI Cobas che, non certo per nostra volontà, mai è approdato ad un’adesione convinta al sindacato e ad un conseguente rapporto di reale integrazione e di fattiva collaborazione.

La ricostruzione che abbiamo svolto delle numerosissime iniziative portate avanti dal SI Cobas a tutela della salute e della vita dei lavoratori contro la gestione capitalistica della pandemia e l’incremento esponenziale della repressione nei nostri confronti, mostra chiaramente il carattere strumentale e destituito di ogni fondamento delle accuse che il documento di Banchi Nuovi ha lanciato contro il SI Cobas e la sua linea politica.

Tale strumentalità è risultata via via sempre più evidente, prima con una vera e propria escalation di attacchi pubblici alla nostra organizzazione, poi alla definitiva fuoriuscita di questo gruppo dal SI Cobas, maturata agli inizi di marzo e motivata da futili pretesti conditi da accuse generiche di una nostra presunta

“chiusura al confronto”: accuse mosse nel malcelato tentativo di nascondere la pressochè totale estraneità di Banchi Nuovi alla vita dell’organizzazione per gran parte del loro periodo di permanenza nel SI Cobas, nei cui confronti questo gruppo ha sempre preteso e rivendicato una completa autonomia decisionale e organizzativa, tale da far apparire la loro adesione come un mero espediente per ottenere una copertura sindacale nell’unico ambito lavorativo in cui essi sono presenti (gli appalti della manutenzione stradale della Campania).

Nella controreplica al documento del coordinamento provinciale di Napoli, gli estensori del documento adducevano, a riprova del “disprezzo” verso le loro posizioni il fatto che si sarebbero estese “… le accuse al comitato contro la gestione autoritaria della pandemia cui ci onoriamo di appartenere (s.n.). Sfugge ai piccoli burocrati (s.n.) estensori delle osservazioni che il suddetto comitato sostiene le nostre identiche posizioni e altrettanto non vi sono ragioni per infamarlo da ignoranti o in malafede (s.n.)…”. Questo il linguaggio e il metodo di confronto “franco e militante” che Banchi Nuovi riservava e proponeva al SI Cobas. Pensiamo che tali affermazioni si commentino da sole e ci portano ad affermare tranquillamente che di tali “militanti” non sentiremo certo la mancanza…

Peraltro non si può non notare che, mentre gli estensori del documento “si onoravano” di appartenere al suddetto Comitato, evidentemente lo stesso “senso di appartenenza” non li pervadeva riguardo al sindacato al quale formalmente appartenevano al momento della stesura del testo: un sindacato i cui organi dirigenti sarebbero infestati da “piccoli burocrati” e la cui politica avrebbe sposato la linea del governo, mettendo “in discussione la collocazione nel campo dell’opposizione antagonista al capitalismo”.

Nell’assumere in pieno il documento di risposta redatto dal Coordinamento Provinciale di Napoli, riteniamo opportuna in questa sede una disamina più attenta dell’impianto politico del documento di Banchi Nuovi e delle posizioni in esso contenute, in quanto riteniamo tale testo paradigmatico ed esplicativo della superficialità e delle madornali semplificazioni e distorsioni analitiche presenti nella quasi totalità delle aree sindacali, politiche e sociali che in questi mesi si sono fatte folgorare sulla via dell’antivaccinismo e del complottismo “militante”, partendo da considerazioni di merito che in questi mesi sono rimaste inevitabilmente sullo sfondo, ma costantemente presenti a livello embrionale sia nei testi di agitazione e propaganda che nelle nostre iniziative e azioni di lotta.

Innanzitutto, partiamo con un dato oggettivamente inconfutabile: con buona pace dei nostri critici, il contrasto alla gestione capitalistica della pandemia ha rappresentato da subito l’architrave della nostra azione sindacale e politica, e da subito lo sforzo del SI Cobas è stato volto a costruire le condizioni per identificare e praticare con la lotta un percorso collettivo di difesa della salute e della vita dei lavoratori capace di fronteggiare i diktat delle istituzioni e dei padroni. L’aver praticato l’astensione dal lavoro in condizioni difficilissime ha rappresentato non soltanto un fondamentale strumento di difesa per i lavoratori organizzati con noi, ma anche una preziosa indicazione di metodo e di prospettiva per tutti i proletari: un’indicazione che ha reso la nostra organizzazione capace di contrastare la pandemia e la sua gestione borghese in modo chiaro e identificabile da tutti.

Lo stesso è avvenuto in tutti i successivi passaggi della crisi pandemica, ivi compresa l’opposizione al green pass, in cui il SI Cobas ha unito le prese di posizione, l’agitazione e l’attività pratica, fin dalle prime azioni contro l’obbligo vaccinale per i sanitari stabilito dal decreto Draghi. Oltre a denunciare con forza il carattere autoritario del provvedimento, abbiamo fatto ogni sforzo per difendere i lavoratori colpiti, organizzarne la difesa sul piano vertenziale e legale, costruire rapporti di solidarietà con gli altri lavoratori per combattere la divisione che il decreto attizzava. E così abbiamo fatto in occasione dello sciopero del 15 ottobre e in svariate azioni di lotta successive, rivendicando, a volte con successo, la gratuità dei tamponi per i lavoratori non vaccinati. Certo: gratuità dei tamponi. Il documento di Banchi Nuovi, a proposito, grida allo scandalo, riprendendo le sgangherate considerazioni dei “pasdaran anti-green pass”, secondo i quali questa rivendicazione sarebbe in realtà un tranello, utile a distogliere dal vero obiettivo che consisterebbe “nel ritiro puro e semplice del green pass”, mentre la gratuità “corrisponde alla sua generalizzazione”.

Ben diversamente, il “ritiro puro e semplice (s.n.) del green pass” corrisponde alla prassi di chi se ne infischia della pandemia, lascia che essa faccia il suo corso, utilizzando in modo assolutamente falso la circostanza reale per cui il vaccino riduce i contagi senza essere in grado di bloccarli completamente.

Il sofisma, ormai ben noto, è appunto il seguente: se un vaccinato può contagiare, allora il requisito vaccinale è inutile. Dal punto di vista logico, è una sciocchezza analoga al dire: se fermarmi col rosso non garantisce che io non abbia incidenti, allora i semafori sono inutili…

Ma il punto politico è ben altro: il ritiro “puro e semplice” del green pass – come si esprime il documento di Banchi Nuovi – soddisfa quanti identificano in questo provvedimento non un elemento della gestione capitalistica della pandemia, cui i proletari e le organizzazioni di classe devono rispondere contrapponendo appunto il loro percorso collettivo di difesa dalla pandemia stessa, ma una norma abrogata la quale ogni problema è risolto. E’ la filosofia della “libertà di scelta”, come se la difesa della salute e della vita di milioni di proletari si debba arrestare di fronte ai sacri confini dell’individuo che sceglie e opera “in piena libertà”. La rivendicazione della gratuità dei tamponi, allora, lungi dall’essere una mera rivendicazione economicistica, traccia un discrimine fondamentale: impone che le misure di prevenzione e di difesa della salute siano a carico dei padroni e, allo stesso tempo, identifica una prospettiva autonoma di difesa per tutta la classe, che parte dal dato reale: una pandemia è in corso e le rivendicazioni proletarie devono rappresentare il modo migliore per difendersi, rigettando sulle classi dominanti quelle contraddizioni che governo e padroni fanno agire contro di noi. Riconoscere la possibilità per il lavoratore che non voglia vaccinarsi di sottoporsi al tampone senza pesare sul proprio salario costituisce anche la condizione migliore per affrontare il discorso sull’utilità di vaccinarsi, svincolandolo dalla sudditanza ai diktat governativi.

Battersi per strappare ai padroni l’onere della spesa per i tamponi non dev’essere la strada per “aggirare” la questione vaccinazione, ma per poterla sostenere da un punto di vista di classe. E questo significa, come abbiamo fatto, inserire la rivendicazione dei tamponi gratuiti (e della gratuità di tutti gli altri presidi di difesa sanitaria, a partire dalle mascherine FFP2) all’interno di quella per il tracciamento di massa di tutta la popolazione, a prescindere dallo status vaccinale, di cui non si è vista nemmeno l’ombra, e che invece rappresenta uno strumento essenziale per individuare e circoscrivere i focolai di contagio.

Stando così le cose, chiediamo agli estensori del documento: di che cosa stiamo parlando? quale sottovalutazione, se non addirittura “totale non considerazione”, della “gestione autoritaria della pandemia” andate denunciando?

La risposta è fin troppo chiara. Come abbiamo detto più volte, il SI Cobas ha condotto la battaglia contro la gestione capitalistica della pandemia con chiarezza e determinazione ma non all’interno di una prospettiva no-vax, che è invece il quadro di riferimento del documento di Banchi Nuovi. Lo abbiamo fatto, cioè, senza alcuna concessione alle posizioni negazioniste, complottiste e reazionarie che costituiscono l’ossatura stessa di quel variegato movimento che ha fatto della lotta alla “dittatura sanitaria” la propria bandiera, sventolando come rivendicazione distintiva della propria battaglia la “libertà di scelta” del singolo individuo, da contrapporre al tentativo di poteri forti non ben identificati di instaurare una società del “controllo totale”, che corrisponderebbe a quel dominio reale del capitale di cui solo oggi si vedrebbero i tratti

distintivi, magicamente palesatisi con le questioni “green pass” e obbligo vaccinale, vero alfa e omega, secondo tale lettura, di ogni nefandezza.

Il colmo della spudoratezza, poi, consiste nell’accusare il SI Cobas di non aver dato battaglia alla gestione autoritaria della pandemia, accusandolo di aver fatto da sponda a questa stessa gestione.

Non siamo solo in presenza di una menzogna palese, ma di un gioco delle tre carte vero e proprio, volto a gettare fumo negli occhi per occultare il dato fondamentale: il SI Cobas non si è mai sognato di scendere in piazza a sostenere, neppure criticamente, un qualsivoglia schieramento “pro-vaccini” che avesse al suo interno forze anche solo lontanamente riconducibili a quelle che sostengono il governo Draghi.

Il veleno negazionista

Neanche una parola invece, da parte degli estensori del documento di Banchi Nuovi, sulla partecipazione alle manifestazioni di piazza in compagnia di sovranisti e fascisti, la peggiore feccia nazionalista, né essi hanno trovato modo di denunciare i caporioni neofascisti di Forza Nuova e delle altre sigle di estrema destra distintisi a Roma per aver organizzato l’assalto alla sede della CGIL: NON alla Confindustria, NON alla sede di una qualsivoglia altra associazione padronale, NON a Palazzo Chigi, NON, cioè, alle sedi di coloro che portano per intero la responsabilità di decine di migliaia di morti in più per aver mantenuto l’apertura di fabbriche, magazzini, ecc., infischiandosene che i proletari morissero sui posti di lavoro perché i padroni potessero continuare a macinare profitti as usual.

E, con una significativa coincidenza, nelle piazze così fieramente oppostesi alla “dittatura sanitaria”, per mesi ha risuonato il grido “libertà, libertà”… Per tutto un anno, questo slogan, insieme a quello di “apriamo tutto”, è stata la parola d’ordine di padroni grandi e piccoli, sfruttatori di ogni tacca, vera e propria genìa di parassiti cui non è mai fregato nulla della salvaguardia della salute e della vita in generale, e dei proletari in particolare, se questa cozzava contro i loro interessi economici. La libertà da essi rivendicata era quella di continuare a sfruttare forza lavoro in nero a pochi euro al giorno, sulla base dell’assunto: perché il “grande padrone” può tenere aperto tutto e continuare ad accumulare mentre io, piccolo sfruttatore, non posso fare altrettanto?

La realtà, che anche qui occorre ribadire, è che nelle piazze no-vax (pure o travestite da “opposizione al green pass”) i raggruppamenti neofascisti e le tendenze organicamente reazionarie non si sono “infiltrati” subdolamente per deviare il movimento verso i propri obiettivi, ma si sono spesso posti come forze decise ad assumere la direzione del movimento stesso, il quale, tranne che in sparute minoranze, quando non li ha seguiti, li ha però tollerati ed accettati come legittima componente della piazza. E’ il carattere intrinsecamente reazionario delle posizioni no-vax che ha favorito la spontanea convergenza di fascisti e reazionari, che hanno colto nei deliri di questa corte dei miracoli il terreno fertile e naturale per la loro propaganda e la loro azione politica, al cui interno è da sempre parte costitutiva un irrazionalismo di fondo.

Bisogna essere davvero miopi per non vedere che le pulsioni espresse in quelle piazze sono espressione dello stesso brodo di coltura che in questi anni ha mescolato il sovranismo, il complottismo e l’antimodernismo di matrice cattolica ultra tradizionalista e che è alla base dell’ondata reazionaria e razzista con la quale la nostra organizzazione (che internazionalista lo è non solo a parole) ha dovuto fare ripetutamente i conti dentro e fuori dai luoghi di lavoro.

Da questo punto di vista, è alquanto singolare che nessuno dei fan del movimento “contro la dittatura sanitaria” si sia mai domandato il perché quelle piazze non fossero mai minimamente partecipate dai lavoratori immigrati, ma fossero composte solo da italiani bianchi (e in larga parte in età alquanto avanzata…).

Così come è del tutto singolare che nessuno abbia mai provato un minimo imbarazzo ad incensare piazze nelle quali, oltre al tricolore, campeggiavano sistematicamente cartelli di sostegno a Donald Trump o alle frange più oscurantiste del clero, oppure a celebrare le gesta dei camionisti senza neanche essere a conoscenza del fatto che le suddette manifestazioni traggono linfa vitale dalla rete “Go fund me”, nota per i propri legami coi cospirazionisti di Q-anone con le frange più radicalmente razziste e antiabortiste del clero capitanate da Monsignor Viganò; non a caso, la quasi totalità dei sindacati e delle organizzazioni di classe canadesi hanno più volte evidenziato che tali proteste non avevano nulla a che fare con le lotte dei lavoratori…

Lungi dall’essere “inspiegabile” o “assurdo”, quest’irrazionalismo corrisponde perfettamente alla funzione sociale e politica che le forze più reazionarie hanno il compito di esercitare. La costruzione di una “narrazione” – come si usa dire adesso – fondata su presupposti fantasiosi e irreali serve infatti egregiamente al compito di costruire nemici immaginari e una “pseudo-spiegazione” degli accadimenti sociali destituita di ogni fondamento e, proprio per queste caratteristiche, in grado di indirizzare la collera degli sfruttati, o anche semplicemente il loro malcontento, la loro sacrosanta sfiducia nelle istituzioni, la loro estraneità, se non ancora ostilità, alle classi dominanti, verso obiettivi fasulli capaci di preservare il sistema capitalistico, mettendolo al riparo dalla mobilitazione di classe. E’ una funzione tanto più necessaria, come carta di ricambio del dominio capitalistico, quanto più la crisi complessiva dell’attuale modo di produzione avanza e trova sempre meno possibilità di risoluzione. E se non è la strada obbligata, è certo una possibile strada che la borghesia ha a sua disposizione per far deragliare la rabbia proletaria, facendo sì che essa si rivolga contro gli stessi sfruttati anziché contro gli sfruttatori.

L’assonanza di metodo, e nei casi peggiori anche di contenuto, fra le leggende oggi circolanti nelle piazze, sui social e sui siti no-vax circa i “poteri forti” che sarebbero i mandanti di un controllo sociale totalitario in fieri (Big Pharma, Bill Gates, ecc.) e, per non fare che un esempio, i miti fondatori della propaganda antisemita (il presunto strapotere della “finanza ebraica” desiderosa di assoggettare tutte le nazioni o il fantomatico “protocollo dei savi di Sion” assurto a vero e proprio manifesto programmatico di gran parte della cloaca negazionista), questo immondo mescolare elementi veritieri all’interno di un’impostazione schiettamente reazionaria (i cosiddetti “nuclei di verità” brillantemente evidenziati nel testo “ Qdicomplotto” di Wu Ming), è del tutto evidente a chi voglia vedere le derive in corso. Non è dunque a caso che la galassia delle destre internazionali, senza bisogno di alcun “complotto preventivo”, ma riconoscendolo ad istinto, ha sposato il negazionismo come il proprio quadro di riferimento naturale.

Oggi come ieri, ogni cedimento alla demagogia, ogni ciarlataneria, ogni lettura della crisi dei rapporti sociali che prescinda dal materialismo per aderire ad una visione metafisica del potere come elemento privo di nesso coi rapporti di classe ha in sé i rischi di una degenerazione reazionaria, di cui il movimento no-vax ha dato oggi un assaggio piccolo ma significativo: piccolo, perché le nubi che si stagliano all’orizzonte sono purtroppo ben più minacciose di quelle che oggi possiamo osservare; ma significativo, perché capace di prefigurare la capacità di trascinamento verso lidi reazionari di settori non trascurabili degli sfruttati, privi da lunghissimo tempo di punti di riferimento classisti.

E, come dicevamo prima, nel documento di Banchi Nuovi, dietro l’insostenibile accusa di esserci piegati alla “narrazione governativa della pandemia”, troviamo invece tutta la narrazione, questa sì davvero tossica, dell’ideologia no-vax, a partire dalla tesi negazionista che considera il covid sostanzialmente come una influenza stagionale. Tralasciamo l’affermazione falsa secondo cui noi riterremmo il SARS-CoV2 “un pericolo paragonabile a quello di altre epidemie dei secoli scorsi” (a quali epidemie ci si riferisca non è dato sapere: la “spagnola”? Ebola? La peste di manzoniana memoria? Mistero… E dove lo avremmo sostenuto? Mistero ancora più fitto…). La falsità serve solo a dare una parvenza di senso, per contrapposizione, alla tesi che il covid sia più o meno un’influenza stagionale, che è poi la chiave di lettura dominante tra i no-vax.

L’assunto negazionista, che Banchi Nuovi fa proprio, è il punto di partenza di tutto il documento, cui si collegano via via tutte le altre tesi che da due anni ci siamo abituati ad ascoltare e che spaziano su ogni terreno, dove uno stuolo di “esperti”, ovviamente “non asserviti al potere”, pontificano su ogni questione, incuranti solo della realtà che è sotto gli occhi di tutti. 5.900.000 di morti nel mondo, 150.000 circa in Italia, un tasso di letalità che nel nostro paese è al 2,05%, ma che in altre nazioni lo supera ampiamente (Brasile 2,78%, Russia 2,94%, Ungheria 3,12%, Bulgaria 4,12%, per non dire del Messico 7,48%, del Perù 8,78%, dell’Ecuador 6,09%, dell’Egitto 5,62%, del Sudan 7,07%, dello Yemen 19,56 ecc.) sono dati considerati inattendibili a seguito di manipolazioni statistiche quando non semplicemente falsi.

Prima di proseguire, vale la pena ricordare che i dati sopra citati sono tratti dalle stime ufficiali. Ma recentemente The Lancet ha pubblicato uno studio condotto dall’Institute for Health Metrics and Evaluation degli Stati Uniti che stima possibile una mortalità globale per covid di 18,2 milioni di individui, il triplo di quella ufficiale. Lo studio è tanto più significativo perché prende in considerazione ben 191 paesi e territori, ne confronta la mortalità in eccesso nel 2020 e 2021 rispetto agli 11 anni precedenti (non solo agli ultimi 5 come in altre precedenti indagini) e utilizza i dati contenuti nei siti web governativi, nel World Mortality Database, nello Human Mortality Database e nell’European Statistical Office. Dai dati, elaborati attraverso modelli matematici, risulta un tasso reale di decessi di circa 120 morti ogni 100.000 abitanti, rispetto a quello ufficiale che si attesta a 39,2, per una massa complessiva di circa 18,2 milioni di morti. Per l’Italia, l’ipotesi, che necessita di ulteriori conferme, è di 259.000 decessi anziché 137.000 (dati a dicembre 2021).

Riprendendo il discorso, un confronto con l’influenza stagionale mostra che ogni anno in Italia si ammalano di influenza dai 5 ai 6 milioni di persone e che il tasso di letalità si attesta sullo 0,1%. La letalità del Covid, dunque, nel nostro paese, è circa 20 volte quella dell’influenza. Non ci sembrano due livelli paragonabili. Ma con serenità olimpica, il documento di Banchi Nuovi ne deduce che “trattandosi di un nuovo virus, ancora non adattatosi all’organismo umano presenta, nella sua fase iniziale, una particolare virulenza”. Non c’è problema, dunque, ancora qualche anno, qualche centinaio di migliaia di morti in più e la pandemia sarà solo un ricordo: Boris Johnson non poteva dirlo meglio.

Sulla base di questo assunto, a febbraio-marzo 2020, anziché praticare l’astensione dal lavoro, lottare e mobilitarci per chiudere magazzini e aziende, avremmo dovuto lasciare che tutto rimanesse aperto (lockdown per l’influenza?) e preoccuparci, semmai, di contrastare chi subdolamente terrorizzava la popolazione.

Ma nelle stesse righe in premessa, troviamo un altro dei leit motiv negazionisti, a nostro avviso tra i più odiosi e intollerabili, tanto più se profferiti da chi si dichiara anticapitalista: “muoiono soltanto gli anziani”. In sostanza Banchi Nuovi, per indicarci la retta via, non trova di meglio che andare a pescare nella melma dell’eugenetica “darwinista”, secondo la quale la selezione della specie è un meccanismo naturale e immodificabile, e quindi se gli anziani, i fragili e i “non produttivi” crepano di CoViD… pazienza!

Senza scomodare analogie storiche a dir poco inquietanti, in questi due anni ci sembra già di averle sentite queste cose, soprattutto dalle parti di Viale dell’Astronomia, laddove pochi mesi dopo, all’epoca delle riaperture con “rischio calcolato” del governo Conte, qualcuno si spinse a dire che occorreva riaprire e che, appunto, “se qualcuno muore, pazienza”.

Ma i dati sulle morti e sulle ospedalizzazioni, già di per se sufficienti a rendere l’idea dell’infondatezza e della pericolosità delle “tesi” riduzioniste, mostrano in realtà solo la punta dell’iceberg, in quanto non tengono conto degli effetti legati alla cronicizzazione e ai postumi della malattia noti come “long covid”.

A tal riguardo, i risultati degli studi e dei dati raccolti negli ultimi mesi dai più disparati centri di ricerca certificano come almeno un quarto della popolazione vada incontro a disturbi e complicazioni di medio- lungo periodo, con decine e decine di sintomi di varia entità e gravità: dalle semplici cefalee e perdita dell’olfatto ai disturbi cognitivi e dell’apprendimento, passando per affaticamento, compromissioni funzionali, danni respiratori e polmonari, patologie cardiovascolari e fino ad arrivare a casi di emorragia, embolia e trombosi venosa profonda. Secondo un indagine svolta sulla base della banca-dati del sistema sanitario svedese, nel primo mese dopo il contagio il rischio di trombosi aumenta di 5 volte, e il rischio di embolia addirittura di 33 volte! Che dire? Davvero niente male per un virus che sarebbe “poco più pericoloso di una semplice influenza”…

Ovviamente, nel suddetto documento non potevano mancare le considerazioni sulle cure adeguate, che esisterebbero ma non sono state somministrate. Gli estensori del documento si premurano di dirci che addirittura si tratta di cure con “farmaci da prontuario”, che “tanti medici hanno somministrato” con ottimi risultati (essendo la letalità del covid del 2% circa, è ragionevole pensare che gli “ottimi risultati” siano in qualche modo legati al 98% residuo, o no?). Evidentemente si è trattato di un complotto ben congegnato che, nonostante i “tanti medici” di buona volontà, ha coinvolto la stragrande parte del personale sanitario – a cominciare da quelle centinaia di medici e infermieri morti in corsia – a quanto pare ingaggiata nella realizzazione di un gigantesco esperimento di sterminio.

In realtà, trattandosi di un virus nuovo, sono state via via sperimentate tutte le cure e gli interventi, dagli antivirali usati per l’HIV ai cocktail di antibiotici, dal cortisone all’eparina a basso peso molecolare, dal plasma iperimmune agli anticorpi monoclonali e, progressivamente, una serie di questi farmaci sono stati utilizzati non solo nel trattamento ospedaliero ma anche in quello domiciliare. Tuttavia, nessuna di queste cure è risultata risolutiva contro il Covid. Diversi medicinali, soli o combinati fra loro, sono in grado di controllare, con beneficio più o meno grande, specifiche manifestazioni della malattia, ma nessuno si è finora mostrato in grado di interferire con il meccanismo fondamentale della replicazione virale, che rappresenta il cuore del problema per sconfiggere il SARS-CoV-2. Chi straparla di cure esistenti ma non somministrate, di proprietà miracolose dell’idrossiclorochina, della vitamina C e D, quando non dell’echinacea, è costretto poi a rifugiarsi nel più bieco complottismo, che pretende di denunciare le malefatte del capitalismo non per mezzo della critica dei rapporti di classe, ma attraverso il preteso smascheramento di oscure manipolazioni, dove sul banco degli accusati non sta mai il modo di produzione capitalistico nel suo insieme, ma specifici interessi capaci di imporsi nella società.

Qual è la ragione per cui una pandemia che mette in pericolo il sistema capitalistico, aggravandone la crisi latente, che lo getta in una recessione mondiale sconvolgendone i già precari equilibri, dovrebbe essere affrontata dalle classi dominanti non col tentativo di metterla sotto controllo al più presto con le cure disponibili, ma evitandone l’applicazione allo scopo di realizzare “un grandioso esperimento di disciplinamento e controllo sociale”? Qual è la logica che sostiene un tale ragionamento, se non una concezione metafisica del potere capitalistico, che ha a che fare più coi libri di fantascienza che con la realtà? Come si fa a leggere in tal modo la realtà se non si è prigionieri di una chiave interpretativa priva dei più elementari criteri di classe, in cui il Potere può tutto e muove tutto, in una sorta di Truman Show globale?

E delle due l’una: o tutto era già preordinato in una cospirazione ben congegnata, o la borghesia è dotata di un potere soprannaturale che le permette, nel momento in cui irrompe un evento di tale portata, di muoversi come un sol uomo per organizzare “esperimenti sociali” anziché arrabattarsi alla meglio per uscire dalla crisi. In realtà, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, questa pandemia ha mostrato in maniera inequivocabile come le principali potenze si siano mosse in ordine sparso e navigando a vista, ciascuna prigioniera dei propri particolarismi e dei propri (precari) equilibri sociali e politici interni: una fotografia dello stato dell’arte lontana anni-luce sia dalla retorica della “governance globale” strombazzata ai quattro venti dalla propaganda liberal-democratica, sia dalle allucinazioni visionarie sul deep State, il complotto pluto-giudaico-massonico e simili castronerie.

Non possiamo poi trascurare che, per quanto sia evidente il carattere di classe della sanità, esso non consiste nel mettere a punto protocolli terapeutici riservati agli esponenti delle classi dominanti ed altri destinati alle classi sfruttate. I proletari certamente non hanno i mezzi per permettersi cure tempestive, per pagarsi costosi specialisti in grado di evitare le “liste d’attesa” del SSN, né per farsi operare nei centri d’eccellenza, magari all’estero, e così via. Ma si pensa veramente che se il covid fosse stato curabile “con farmaci da prontuario” questi non sarebbero stati usati, coinvolgendo giocoforza in questo fantomatico esperimento sociale gli stessi rappresentanti delle classi dominanti?

Tutti i principali centri di ricerca del mondo, tutte le case farmaceutiche studiano e ricercano – non certo per filantropia ma per il proprio profitto, come tutte le imprese capitalistiche – una cura per il covid da affiancare ai vaccini. Un medicinale, la “pillola della Merck”, è già in distribuzione e si vedrà la sua efficacia; per non lasciare insoddisfatto nessun segmento di “consumatori”, in queste settimane è stato messo in commercio il vaccino Novavax a proteine ricombinanti, con lo scopo di convincere la fetta di esitanti spaventati dalla tecnologia a mRNA.

Ma la ricerca riguarda tutte le categorie di farmaci, da quelli che potrebbero agire bloccando l’ingresso del virus nelle cellule (compresa la bromexina, che è un semplice sciroppo per la tosse), agli antivirali (sia quelli come il Remdesivir, che si è dimostrato poco efficace, e con il quale era stato curato Trump, forse anche lui vittima dei poteri forti che impedivano l’utilizzo dei semplici “farmaci da prontuario”; sia quelli che interferiscono con le proteine virali), agli anticorpi monoclonali (messi quasi tutti fuori gioco dalla variante Omicron), agli antinfiammatori non steroidei e ai glucocorticoidi. Confondere la distruzione della medicina territoriale, che ha lasciato senza alcuna assistenza migliaia di contagiati dal Covid, e che abbiamo denunciato nel modo più energico, anche nell’ambito del convegno nazionale organizzato ad aprile 2021, con la volontaria disapplicazione di cure mediche esistenti mostra una assoluta incomprensione di quanto avvenuto e una disarmante puerilità nel leggere le contraddizioni sociali.

Da questo punto di vista, la sponsorizzazione contenuta nel documento di Banchi Nuovi nei confronti del “mercato alternativo” delle cosiddette cure domiciliari, oltre ad avallare pratiche da apprendisti stregoni (queste sì davvero “sperimentali”…) fondate sull’illusione di aver trovato la “pozione magica” capace di garantire la guarigione anche per le forme più gravi di CoViD, denota una concezione alquanto singolare dell’“anticapitalismo” e della lotta alle multinazionali farmaceutiche. Solo per limitarsi all’esempio dell’idrossiclorochina, spacciata come rimedio miracoloso da larga parte degli imbonitori cui Banchi Nuovi delega i destini dellla lotta al “sistema”, questo prodotto è commercializzato col marchio Plaquenil in regime di semi-monopolio da Sanofi, multinazionale francese con un fatturato che sfiora i 40 miliardi e un utile netto di 2,8 miliardi, e che figura al settimo posto nella classifica mondiale delle Big Pharma per fatturato: quindi non proprio un ente di beneficenza!

Dietro i roboanti proclami sulla lotta alla “dittatura sanitaria” e al “disciplinamento sociale” si celano dunque presunte “soluzioni” del tutto interne al sistema capitalistico (e non potrebbe essere altrimenti), vale a dire una variante in salsa negazionista della solita solfa sotto-riformista del “capitalismo dal volto umano”, con in più l’aggravante che i rimedi alternativi per la cura del CoViD non hanno alcunché di naturale, né di equo né tantomeno di solidale, essendo prodotti da quelle stesse Big Pharma contro cui si vorrebbe indirizzare la lotta: una deriva decisamente ingloriosa per chi si arroga il diritto di elargire patenti di “antagonismo” in casa altrui…

Una “requisitoria” di questo tipo, nel disperato tentativo di smontare l’intero impianto della nostra critica e della nostra opposizione alla gestione capitalistica della pandemia e di riscrivere daccapo l’abc dell’antagonismo al sistema, finisce per strizzare l’occhio (pur senza esplicitarlo apertamente nel documento) alle più ossessive paranoie della brodaglia complottista, prime tra tutte l’infame equiparazione del personale sanitario (ivi compresi quegli infermieri delle terapie intensive e sub-intensive ridotti allo stremo durante il picco pandemico e tuttora sfruttati e spremuti come limoni con salari da fame) a complice e fiancheggiatore più o meno consapevole di un assassinio di massa pianificato dalle élites. Quando si entra nella dimensione parallela delle fantasie di complotto è difficile uscirne, ed è molto più facile diventare prigionieri di tali allucinazioni in un crescendo senza fine…

In soldoni, dunque: il covid è un’influenza, muoiono “solo” gli anziani, la stragrande maggioranza dei decessi è dovuta alla dolosa mancata applicazione delle cure esistenti, il terrore nella popolazione è stato alimentato ad arte, “i lockdown erano immotivati”, le mascherine inutili, il distanziamento una vessazione gratuita e così via.

Dato questo quadro d’analisi, è allora evidente che il green pass, anziché essere combattuto per motivi di merito (scarsa efficacia sanitaria, attacco alle condizioni di vita dei proletari, divisione fra i lavoratori, via libera alle aperture dovunque, smantellamento delle poche misure di prevenzione prese dalle aziende, trasformazione della pandemia da problema sociale in problema individuale), viene osteggiato in nome del restringimento delle libertà personali, senza più alcun riferimento alla pandemia. Da strumento di “gestione capitalistica della pandemia” esso si trasforma in una manifestazione di puro dispotismo e la pandemia cessa di essere un evento reale che la borghesia affronta secondo i suoi interessi di classe, per assumere le caratteristiche di un mero “pretesto” per gettare fumo negli occhi e “imporre una torsione autoritaria delle istituzioni e del potere politico”, pur in presenza di un livello di combattività proletaria fra i più bassi e di una governance capitalistica che non incontra nella classe ostacoli di alcun genere. Tale torsione si renderebbe necessaria perché “non ci sono assolutamente margini per una soluzione welfaristica … e nemmeno per una liberista”. Non sappiamo come gli estensori del documento di Banchi Nuovi si immaginino la crisi capitalistica, i modi della borghesia per tentare di farvi fronte e i tratti salienti del capitalismo odierno, ma vediamo che le loro tesi riecheggiano fuorvianti interpretazioni teoriche già avanzate in passato.

A proposito, ad esempio, del passaggio dal dominio formale al dominio reale del capitale, esso viene periodicamente riproposto come l’“ultimo grido” delle trasformazioni del modo di produzione capitalistico pur essendo ormai acquisito da almeno un secolo e mezzo. Oppure si leggono le difficoltà della valorizzazione del capitale nei termini di una impossibilità assoluta, che può essere affrontata solo con l’intervento diretto della coercizione politica, aprendo così la strada ad una concezione del potere come deusexmachina,che manipola a suo piacimento i meccanismi di funzionamento del modo di produzione

capitalistico. Per non dire delle successive derive che, su tali basi, hanno finito per dilatare oltre ogni misura la nozione di “valorizzazione del capitale”, marginalizzando il ruolo del proletariato ed esaltando quello di altri strati sociali ad esso estranei, quando addirittura non è l’intera “società civile” che si pretende contrapposta al sistema capitalistico, così trasformato in una mera “escrescenza sociale” che si rivolge “contro tutti”. Da qui, il passo all’esaltazione dei populismi di ogni sfumatura, e per il loro tramite al nazionalismo più o meno rivestito di panni “sociali”, il passo è breve.

Quel che è certo è che, mentre veniamo accusati di riproporre “una visione del rapporto capitale lavoro a dir poco parziale e datata”, non possiamo che constatare quanto le tesi di Banchi Nuovi rimandino ad inaccettabili chiavi di lettura aclassiste che, dietro un radicalismo di facciata, hanno sempre finito per disarmare i proletari sia sul piano teorico che su quello pratico, consegnandoli all’offensiva delle classi dominanti.

Il movimento “no-green pass”: tra mito e realtà

Nel suo documento di dicembre, Banchi Nuovi ci “esortava” a prendere parte alle proteste contro il lasciapassare obbligatorio, invitandoci a non avere la puzza sotto al naso per la sua composizione “spuria” ed evidenziando come questo movimento abbia via via ingrossato le proprie fila fino a coinvolgere ampi settori di proletari.

In questa descrizione c’è un fondo di verità che non abbiamo mai messo in discussione. Come SI Cobas abbiamo infatti più e più volte sottolineato che l’introduzione del lasciapassare obbligatorio sui luoghi di lavoro avrebbe inevitabilmente messo in moto ANCHE spezzoni di proletariato resistenti o esitanti alle vaccinazioni, spinti nelle piazze da una crescente sfiducia nei confronti dello Stato e della sua ipocrita e fallimentare gestione della crisi pandemica.

Non vi è dubbio che le cose siano andate esattamente così. Non a caso, lo scorso 15 ottobre il SI Cobas ha proclamato uno sciopero nazionale in concomitanza con la mobilitazione lanciata dai portuali di Trieste: lo abbiamo fatto “senza puzza sotto al naso”, ma abbiamo anche dovuto constatare che le timide spinte classiste espresse in quella piazza si sono spente nel giro di qualche giorno, travolte non solo dalla repressione statuale, ma anche e soprattutto dal ben più poderoso e preponderante peso dell’interclassismo e del negazionismo.

Ma Banchi Nuovi, senza guardare la realtà dei fatti, ci ha accusato di non aver investito con sufficiente convinzione nella lotta “di popolo” contro il green pass…

Poiché alcuni di noi conoscono bene, e non da ieri, i veri estensori del documento firmato Banchi Nuovi, sappiamo che gli ispiratori di questo gruppo sono da alcuni decenni alla ricerca di un “nuovo soggetto” capace di cambiare il corso della storia e di sostituire il “vecchio e datato” proletariato nel ruolo di antagonista del capitale: tale ricerca ha riguardato negli anni i soggetti più disparati, dal movimento “no global” a quelli ambientalisti, arrivando addirittura alla Lega Nord (sic!) e, sul piano internazionale, ai vari Gheddafi, Milosevic, Assad e analoghi campioni di “antimperialismo”… Una ricerca spasmodica che puntualmente, ed inevitabilmente, si è impantanata su un binario morto…

Ora è la volta del movimento di opposizione alla “svolta autoritaria”, domani toccherà a qualche nuova entità più alla moda (magari, dato che i riflettori si sono nel frattempo spostati sulla guerra imperialista in Ucraina, il nuovo baluardo della lotta al sistema saranno i circuiti rossobruni a sostegno di Putin…).

In questo disperato e funereo errare, quel che più colpisce è l’atteggiamento di perenne indifferenza e di sufficienza nei confronti delle lotte operaie, prime tra tutte quelle condotte dal SI Cobas, nei cui riguardi il documento ribadisce (a parole) il proprio sostegno, ma senza mai valorizzare o anche soltanto menzionare le lotte e le mobilitazioni portate avanti in questi anni in condizioni di quasi totale isolamento e che, malgrado ciò, hanno portato a casa importanti conquiste immediate e tenuta aperta sul piano nazionale una prospettiva di classe anticapitalista.

Per tutto il periodo in cui Banchi Nuovi ha aderito formalmente al SI Cobas, sulla rete e sui social non vi è stata traccia della benché minima presa di posizione a sostegno della miriade di lotte e di scioperi portate avanti a livello nazionale, neanche di fronte alla brutale repressione subita dai compagni e lavoratori in questi anni: eppure, a quanto pare, Banchi Nuovi ha una buona dimestichezza col mezzo informatico, se è vero che negli ultimi mesi questi canali sono stati utilizzati quasi unicamente per… gettare fango e veleno sul SI Cobas, nel mentre si esaltavano le “eroiche gesta” dell’interclassismo e del negazionismo reazionario…

Questo movimento (ma sarebbe più appropriato parlare di un gruppetto politico) ha letteralmente ignorato gli scioperi del SI Cobas ANCHE sul tema del green pass, tacendo sul fatto che quegli stessi scioperi (al contrario delle marce inoffensive del sabato pomeriggio cui essi prendevano parte) sono riusciti in molte aziende a fare in modo che i costi dei tamponi venissero posti a carico dei padroni, salvo obiettare (in questo caso sì con non poca “puzza sotto al naso”) che accettare i tamponi equivaleva ad accettare il ricatto del green pass!

Gira e rigira, queste posizioni di principio, tese ad enfatizzare oltremisura i movimenti delle mezze classi e a sottostimare il movimento reale dei lavoratori e dei proletari, non fanno altro che svelare una profonda sfiducia (e per certi versi un totale disprezzo) verso ogni forma di iniziativa autonoma e indipendente dei proletari, i quali per i fini strateghi di Banchi Nuovi dovrebbero autocondannarsi per sempre a marciare alla coda di altre classi e in nome di interessi altrui.

I fatti hanno svelato nel giro di pochi mesi l’inconsistenza del movimento “no-green pass”, il quale si è sciolto come neve al sole non appena le piazze hanno iniziato a rifluire e l’interesse dei loro “guru” (Paragone, Mattei, Fusaro, ecc.) si è spostato verso i lidi della geopolitica o le mai sopite aspirazioni elettorali…

Da questo punto di vista le piazze del 14, del 15 e del 19 febbraio sono state quanto mai eloquenti: da un lato il tentativo di qualche sindacatino (con Banchi Nuovi al seguito) di tenere artificiosamente in vita i brandelli di un movimento oramai al tramonto, nella speranza di raccogliere qualche briciola caduta dalla tavola di altri sindacati, e che si è risolto quasi ovunque in presidi di testimonianza di poche decine di persone; dall’altro il SI Cobas, che a partire dal tema del green pass, ma non limitandosi ad esso, ha messo in piedi iniziative partecipate e combattive, come a Napoli e Milano il 14 febbraio e soprattutto con la manifestazione di migliaia di lavoratori svoltasi a Bologna il 19 febbraio.

Al contrario di chi vorrebbe bollare la nostra condotta come “pilatesca”, il SI Cobas ha espresso il suo punto di vista ed è sceso concretamente in campo anche su un tema difficile come il green pass; ha portato a casa risultati minimi ma concreti nella difesa materiale dei diritti dei lavoratori non vaccinati e ha indicato all’insieme dei proletari (inclusi i vaccinati) come anche quella battaglia fosse parte di una più generale critica del sistema di sfruttamento capitalistico.

Per parte nostra, abbiamo da sempre (e in tempi non sospetti) sostenuto che l’avanzare della crisi tenderà ad agitare sempre più le acque e spingere nella mischia anche settori consistenti di piccola borghesia e delle mezze classi in rovina: ma mentre altri utilizzano strumentalmente questa tendenza per porre i proletari al guinzaglio del populismo interclassista, noi ci poniamo l’obbiettivo opposto, e cioè di costruire un forte polo d’attrazione capace di calamitare anche altri segmenti sociali colpiti dalla crisi, ma a partire da una chiara identità classista, anticapitalista e internazionalista.

A partire da queste discriminanti elementari e in un contesto tutt’altro che favorevole, il SI Cobas ha fatto tutto il possibile per sviluppare un’opposizione di classe al greenpass, portando avanti tale battaglia in una situazione di quasi totale isolamento e trovandosi sotto gli attacchi incrociati provenienti sia dal versante “pro-greenpass”, sia dalla galassia negazionista. Coloro i quali vorrebbero darci lezioni, fingono di ignorare che la nostra organizzazione si è letteralmente fatta in quattro durante tutto il biennio pandemico, fronteggiando la scure repressiva dello stato e le rappresaglie padronali, nel mentre buona parte dei ribelli alla “dittatura sanitaria” se ne stavano comodamente dietro a un PC a farsi risucchiare ed allucinare dalle più bizzarre fantasticherie complottiste.

Tanto rumore per nulla

A chi ci rimprovera di non aver fatto abbastanza contro il greenpass, seminando l’illusione di poter guidare o influenzare, in questa fase e con gli attuali rapporti di forza, un movimento come quello dei bottegai, viene da chiedere: cos’hanno fatto questi “grilli parlanti” negli ultimi anni contro l’intensificazione dello sfruttamento sui luoghi di lavoro, contro i licenziamenti di massa, il caporalato, i contratti-pirata, l’attacco sistematico ai diritti e alle agibilità sindacali, contro l’escalation repressiva e securitaria che ha colpito indiscriminatamente militanti e attivisti e/o contro le leggi razziste e xenofobe nei confronti dei proletari immigrati? E cos’hanno fatto, prima e durante la pandemia, contro i devastanti attacchi alla sanità pubblica e territoriale, contro l’utilizzo strumentale delle norme antiassembramento, contro le aperture indiscriminate e/o contro il mancato rispetto dei protocolli di tutela della sicurezza e della salute sui luoghi di lavoro? La risposta, nella quasi totalità dei casi è: niente. E questo basta e avanza per svelare la strumentalità e la ciarlataneria che è alla base di tali “critiche”.

D’altronde, i fatti di queste settimane hanno oggettivamente fatto venir meno l’intero oggettodelcontendere: come già accennato, il governo Draghi (così come i suoi omologhi europei) ha avviato in queste settimane l’iter di progressiva abolizione del greenpass rafforzato per l’accesso al lavoro e a tutte le attività di natura sociale e ludica (eccezion fatta per il personale medico e per l’accesso alle RSA), e a breve verrà meno anche l’obbligo vaccinale per gli over-50. Tali misure sono state adottate dal governo senza alcuna pressione delle piazze (oramai svuotatesi del tutto già da diverse settimane): se davvero il certificato verde rispondesse a un piano dittatoriale e di disciplinamento sociale, verrebbe da chiedersi per quale motivo lo stato vi rinuncia spontaneamente, nel bel mezzo di una pandemia che continua a macinare contagi e decessi, e per giunta in un contesto di escalation bellica. Come volevasi dimostrare: le fantasie di complotto hanno le gambe cortissime…

Alla luce di ciò, sorge spontaneo un quesito ancor più stringente: ma poi, in definitiva, questo trambusto e questa escalation di invettive e di scomuniche cosa ha portato concretamente in dote ai “militanti contro la “svolta autoritaria”? Quanto ha realmente attecchito l’intervento “anticapitalista” nelle piazze negazioniste? Quanto ha inciso questo intervento rispetto allo scopo di sottrarre le “masse ribelli” all’influenza del populismo e delle destre reazionarie?

Quando si sostiene una tesi con un accanimento e una virulenza analoghe a quelle assunte da Banchi Nuovi e dai circuiti politico-culturali ed essa collegati, porsi simili domande e compiere un bilancio onesto e sincero dei percorsi intrapresi dovrebbe rappresentare il “minimo sindacale”. La realtà dei fatti ci dice che chiunque in questi mesi si sia avventurato nei meandri del negazionismo e del complottismo, non ha spostato di una virgola le parole d’ordine e gli obbiettivi di tali movimenti e non è riuscito neanche ad intercettare e ad attrarre in un orbita anticapitalista le componenti più proletarie delle piazze no-vax; casomai ha finito, volente o nolente, per contribuire alla crescita dei consensi elettorali futuri per il partito di Paragone o per analoghi carrozzoni populisti. Nel frattempo, in nome di una sterile rincorsa al populismo interclassista, si sono sottratte forze ed energie utili alla costruzione di un vero fronte di classe contro le politiche di sfruttamento, contro il carovita e contro i licenziamenti: da un punto di vista “militante”, è difficile immaginare un esito peggiore… Ne valeva la pena?

Il nodo dei vaccini

E arriviamo al punto dei vaccini, sui quali la coincidenza con le posizioni no-vax è completa. Del resto, il negazionismo e il complottismo che costituiscono l’ossatura del documento di Banchi Nuovi non lasciano altra strada. Innanzitutto, gli attuali vaccini anticovid “non sono dei veri vaccini (poiché questi sono definiti tali in quanto contengono una componente del patogeno depotenziata, diversamente dai farmaci che si vogliono imporre) e… essi per la prima volta vanno ad interagire a livello di massa con il materiale genico dichi lo assume. Dei farmaci che non hanno potuto essere testati, come avviene con tutti i medicinali, per poterne valutare non solo la reale efficacia, ma soprattutto gli effetti collaterali. Essi infatti sono stati verificati con simulazioni al computer e in laboratorio, mentre la sperimentazione vera e propria sarà fatta attraverso la loro inoculazione di massa. Nel frattempo, sulle migliaia di casi di patologie, anche letali, manifestatesi dopo la vaccinazione è scesa una cappa di piombo di cui non si può parlare per non vanificare la narrazione del vaccino magico”. E ancora, il SI Cobas è accusato di aver criticato il governo di limitare la diffusione del vaccino “… ai soli paesi occidentali ed invocarne la somministrazione alla popolazione di tutto il pianeta, dimostrando così un malinteso senso di internazionalismo e la subordinazione ideologica alla propaganda mainstream”.

La prima tesi è alquanto bizzarra e, francamente, ridicola. Il “vero” vaccino deve contenere una “componente del patogeno depotenziata”, altrimenti non è tale. Non sappiamo da dove gli estensori del documento ricavino questa loro granitica certezza, ma ci spiace deluderli. Il “vaccino” è una sostanza che ha il compito di attivare le difese immunitarie dell’organismo, “mimando” il contatto con il virus senza correre i rischi connessi all’infezione. Che è precisamente ciò che fanno questi vaccini, come quelli che inattivano o attenuano i patogeni contro i quali sono rivolti. Per attivare le difese immunitarie, che è il processo base di ogni vaccino, occorre che l’organismo umano entri in contatto con il materiale virale. Nel caso dei vaccini a mRNA, il contatto avviene dopo che l’informazione genetica in esso contenuta permette alle nostre cellule di sintetizzare la celebre proteina Spike (che è solo una piccola parte del materiale genetico del virus), permettendo così l’attivazione delle difese immunitarie. Ma, se la “tecnica” dell’mRNA è effettivamente innovativa, lo stesso non si può dire per il meccanismo di fondo che produce l’immunizzazione, che rimane non solo lo stesso dei vaccini precedenti, ma identico a quello di tutti i processi potenzialmente infettivi che investono quotidianamente il nostro organismo e che sono combattuti e respinti (quando va bene) dal nostro sistema immunitario. Ciò cui allude il documento, riprendendo le tesi no-vax che vanno per la maggiore, è che i vaccini “del passato” usavano il virus “naturale” (più o meno attenuato), quelli a mRNA usano “materiale genico”, due parole che servono a mettere in allarme il lettore.

E infatti, subito dopo, si dice che gli attuali vaccini anticovid “interagiscono a livello di massa con il materiale genetico di chi li assume”. In modo impreciso, il testo intende dire che l’mRNA inoculato con il vaccino si integra nel DNA delle nostre cellule, il che non ha alcun fondamento. Il DNA risiede nel nucleo cellulare e, quando l’organismo deve sintetizzare una proteina (fatto che avviene normalmente miliardi di volte e senza il quale la vita stessa sarebbe impossibile), esso stacca quella parte del corredo genetico che possiede le relative informazioni e questo, sotto forma di mRNA, raggiunge i ribosomi, che sono corpuscoli presenti nel citoplasma cellulare e solo lì, attraverso un meccanismo che implica diversi altri passaggi, si dà vita alla sequenza di aminoacidi che costituisce la proteina. Ma l’mRNA si degrada velocemente e non si ritrascrive in DNA, cioè non si integra nel nostro genoma, come accade, con un processo noto come trascrittasi inversa, solo nel caso dei retrovirus (come l’HIV).

In ogni caso, se i vaccini anticovid modificassero davvero il DNA, non si vede perché questo non dovrebbe succedere anche coi vaccini tecnicamente più “tradizionali” (che anzi mettono le nostre cellule in contatto con una porzione ben più ampia del materiale genetico virale) o, semplicemente, nel caso di infezione naturale, dal momento che il processo è lo stesso. Si suggerisce invece l’idea falsa che solo i vaccini a mRNA mettono l’organismo umano (“per la prima volta”, udite, udite) in contatto con materiale genetico estraneo e che sia questa specificità a rappresentare il pericolo mortale da cui si vuole mettere in guardia. E tale obiezione, che riposa appunto su un assunto falso, trascura anche di prendere in considerazione i vaccini anticovid non a mRNA, sia quelli a vettore virale prodotti in Occidente, sia quello cubano cosiddetto “a subunità proteica”, o quelli “a proteine ricombinanti” come il Novavax.

Si continua quindi con la questione del carattere sperimentale dei vaccini, che sarebbero stati “verificati con simulazioni al computer o in laboratorio, mentre la sperimentazione vera e propria sarà fatta attraverso la loro inoculazione di massa”. Anche qui, si rilanciano le tesi no-vax senza neanche un tentativo minimo di verifica. Prendendo in considerazione solo i due vaccini a mRNA prodotti da Pfizer e Moderna, i trials clinici hanno coinvolto due gruppi di 22720 volontari ciascuno per Pfizer e due gruppi di circa 15000 volontari ciascuno per Moderna. La tesi sulle “simulazioni al computer” è dunque priva di fondamento. Dire che la sperimentazione vera e propria sia rappresentata dall’inoculazione di massa mostra una preoccupante incapacità di comprensione: per ogni farmaco, solo la somministrazione su larga scala può far emergere tutti i possibili effetti collaterali, perché nessun “campione”, per quanto vasto e costruito nel migliore dei modi, può dare la certezza di intercettare fenomeni rari e lo stesso vale per gli effetti a lungo termine. Vale anche la pena di sottolineare che nel testo si dice che i vaccini attuali non sono stati testati “come avviene con tutti i medicinali”: si tratta quindi di un complotto in piena regola, se case farmaceutiche ed enti di controllo non hanno fatto ciò che fanno “normalmente”… E il complotto continua, se addirittura “…si contano a migliaia le patologie anche letali manifestatesi dopo la vaccinazione, su cui è scesa una cappa di piombo e di cui non si può parlare”.

Nel convegno organizzato ad aprile 2021, oltre che motivare sul terreno di merito la nostra opposizione al decreto Draghi sull’obbligo vaccinale per i sanitari, abbiamo sostenuto che la farmacovigilanza è un terreno su cui l’auto-attivazione dei proletari in difesa della salute e di una sanità degna di questo nome avrebbe molto da fare, nonostante le grosse difficoltà da affrontare. E questo perché la pluridecennale assenza di medicina territoriale, la perdita della nozione stessa di prevenzione primaria, la concentrazione di ogni funzione sui grandi ospedali ecc. rende ovviamente molto problematica un’opera di monitoraggio che deve necessariamente coinvolgere la massa della popolazione. Ma questo non ha nulla a che fare con le sparate senza fondamento sulle inesistenti “migliaia di morti” da vaccino e sul “silenzio imposto”. Tanto più se ci riferiamo non ai modesti effetti collaterali legati fisiologicamente alla vaccinazione, ma ai rari casi gravi avvenuti e su cui non solo non è calata alcuna cappa di piombo, ma si è semmai registrata una mediatizzazione eccessiva.

In ogni caso, bisogna non avere occhi per non riconoscere che la somministrazione di massa dei vaccini anticovid ha dimostrato in modo inequivocabile che essi forniscono una protezione molto importante contro le forme gravi della malattia, abbattendo drasticamente ospedalizzazioni, terapie intensive e decessi. Considerate tutte le classi di età, i vaccini contro il covid, in media, riducono dell’89,7% i rischi di ospedalizzazione, del 94,1% quelli di finire in terapia intensiva e del 90,8% il rischio di decesso.

Per rimanere in Italia, basti pensare che il 70% dei malati di covid in terapia intensiva sono persone non vaccinate, sebbene la popolazione non vaccinata sia un decimo di quella vaccinata. E il numero dei decessi e dei ricoveri nei reparti ordinari non è ceto paragonabile a quello di un anno fa, pur con un numero di gran lunga superiore di contagi.

Nella tabella che segue si possono osservare i dati ISS sui tassi d’incidenza e il rischio relativo di diagnosi, ospedalizzazioni, terapie intensive e decessi tra non vaccinati, vaccinati con ciclo incompleto, completo e con terza dose , divisi per fasce d’età (dati a gennaio 2022). Il negazionista di turno probabilmente ci obietterà che ci “fidiamo” dei dati ufficiali. Peccato però che quando abbiamo interrogato al riguardo medici e infermieri “del nostro campo” (e non certo simpatizzanti di Draghi) tale quadro ci è stato confermato in pieno.

Allo stesso modo, laddove vi siano condizioni demografiche paragonabili per l’età media della popolazione, i decessi crescono al decrescere dei tassi di vaccinazione.

Se spostiamo un minimo l’angolo di visuale sul piano internazionale i dati smentiscono gli antivaccinisti in maniera ancor più impietosa. La tabella che pubblichiamo sotto mostra la “graduatoria” mondiale dei morti di CoViD per milione di abitanti a fine gennaio, così come pubblicata da worldofmeters.info, principale database di statistiche mondiali. I numeri, più che eclatanti, si possono definire inquietanti, in quanto certificano che, eccezion fatta per il Perù che ha dovuto fare i conti con una vera e propria mattanza, i primi undici posti sono occupati dai paesi dell’Est Europa, noti per avere tassi bassissimi di vaccinazione e per essere le roccaforti del negazionismo più nazionalista e reazionario. L’Italia occupa la venticinquesima piazza, terza tra i paesi a capitalismo sviluppato, preceduta solo… dagli Stati Uniti di Trump e Biden e dal Brasile di Bolsonaro!

Diverso, invece, è il discorso sui contagi. Sia i dati forniti dal ministero della salute israeliano, sia lo studio (pubblicato sul New England Medicine Journal) condotto in Qatar su un alto numero di persone e sulla base di un’attività di testingroutinario la più alta al mondo, dimostrano che al quinto mese dalla seconda dose la capacità del vaccino di prevenire il contagio crolla al 22% circa. E proprio questa circostanza, fra l’altro, dovrebbe far riflettere su una delle tante assurdità, diffuse dalla propaganda no-vax: da una parte si ipotizzano conseguenze micidiali “a lungo termine” a seguito della vaccinazione, ma contemporaneamente si mettono sotto accusa i vaccini attuali per la loro incapacità di fornire un’immunità sterilizzante, cioè di combattere non solo la malattia ma anche la possibilità di contagio, pretendendo di dedurre da questa incapacità il fatto che non sono “veri vaccini”. Insomma, vaccini a velocità variabile e selettivi: micidiali nei danni, labili nei benefici…

Come abbiamo visto, il documento di Banchi Nuovi arriva poi ad accusarci di “un malinteso senso di internazionalismo” e di “subordinazione ideologica alla propaganda mainstream”. Questo perché abbiamo denunciato l’operato del governo italiano e di tutte le potenze imperialiste per essersi accaparrate la stragrande maggioranza delle dosi di vaccino disponibili, rendendole quasi del tutto inaccessibili ai paesi poveri. E a più di un anno dall’avvio della campagna vaccinale, mentre in Italia il 63,7% della popolazione superiore ai 5 anni ha già fatto la terza dose, i paesi a basso reddito hanno ben altra situazione. Parlando di ciclo vaccinale completo, siamo al 1,2% in Yemen, al 4,7% in Siria, al 9.6% in Afghanistan, al 38,3% in Giordania, al 14,3% in Iraq, al 26,8% in Sudafrica, all’1,4% in Etiopia, al 12,4% in Libia, ecc. Non diversamente da quanto avvenuto per l’HIV, per non fare che un esempio, povertà, condizioni di vita pessime, alto costo dei vaccini (i brevetti non solo non sono stati aboliti, non sono neanche stati temporaneamente sospesi), tutto concorre a far sì che “l’imperialismo dei vaccini” faccia sentire la sua morsa implacabile sulle popolazioni dei paesi arretrati. E di fronte a questa situazione, si ha il coraggio di affermare che il nostro sarebbe un malinteso senso di internazionalismo. Quello vero, presumiamo, consisterebbe nel riservare la vaccinazione solo ed esclusivamente ai paesi ricchi, dal momento che i vaccini sarebbero dannosi e causerebbero migliaia di morti. Rimane un dubbio: si renderanno conto i paesi poveri della fortuna che è capitata loro? Da sempre sfruttati e depredati di ogni loro risorsa, finalmente potranno affrancarsi dalla loro sottomissione al neocolonialismo e all’imperialismo, grazie al fatto che le grandi potenze hanno deciso di suicidarsi vaccinando in massa la propria popolazione (borghesia compresa) e risparmiando tale sofferenza ai paesi da loro dominati. I Palestinesi, ad esempio, sono stati gentilmente risparmiati da Israele che, mentre si prepara a somministrare la quarta dose ai propri cittadini, si guarda bene dal distribuire i vaccini a Gaza e li fa entrare col contagocce anche in Cisgiordania. Davvero una fortuna insperata! Ci sfugge però il perché gli estensori del documento di Banchi Nuovi, invece di perdere tempo ad attaccare il malinteso senso di internazionalismo del SI Cobas, non si adoperino più attivamente per propagandare la necessità di tenere i paesi poveri al riparo dal rischio vaccinale. Forse un residuo di pudore è rimasto in chi scrive simili oscenità!

Comunque si consultino i dati, sostenere l’inutilità, se non addirittura la pericolosità, dei vaccini anticovid è una tesi assurda e ridicola, smentita dai dati provenienti da una campagna vaccinale di oltre 5 miliardi di inoculazioni.

Del resto, come abbiamo visto nel breve excursus sulla storia dei movimenti di opposizione alle vaccinazioni, vale la pena ribadire che essi, indipendentemente dalle motivazioni che li sostenevano, sono sempre usciti sconfitti dalla prova dei fatti, a partire da quelli che iniziarono a opporsi alla vaccinazione contro il vaiolo messa a punto da Jenner nel 1796. Ricordiamo ancora che in Italia, quasi un secolo dopo la scoperta di Jenner, Carlo Rauta, professore di materia medica dell’Università di Perugia, fondò la Lega italiana contro la vaccinazione, il cui scopo era opporsi all’obbligatorietà della vaccinazione. La Lega riprendeva i timori allora diffusi contro la pratica vaccinale, paure e pregiudizi suscettibili, in particolari condizioni, di sconfinare apertamente nel complottismo, come avvenne durante la prima guerra mondiale, quando la vaccinazione antivaiolosa venne accusata di essere un mezzo del governo per sterminare i bambini e risparmiare i sussidi alimentari che avrebbe dovuto pagare nel caso in cui il capofamiglia fosse al fronte. E anche allora, l’antivaccinismo militante contribuiva a sviare le proteste,pur intrecciate alle sofferenze delle masse, verso obiettivi fasulli e autolesionistici, che si traducevano in un danno ulteriore per gli sfruttati, ottenendo per altro l’effetto paradossale di accreditare il governo come rappresentante dell’interesse collettivo della popolazione.

Sulla “non neutralità” della scienza

In tutto il testo di Banchi Nuovi, gli estensori lanciano spesso l’accusa al SI Cobas di aver accettato le tesi dominanti della scienza ufficiale “asservita al potere”. Inutile dire che, anche in questo caso, l’accusa non ha fondamento e serve solo a confondere le acque, allontanando i dubbi, più che motivati, che siano gli autori delle accuse ad accreditare come scientifiche teorie senza alcuna base razionale.

Noi abbiamo più volte sottolineato la necessità di costruire una critica materialistica alla “scienza ufficiale”, distinguendo però rigorosamente quest’opera, non certo facile, da proclami generici “un tanto al chilo”, che mischiano indifferentemente la denuncia dell’intreccio perverso fra interessi capitalistici, enti di controllo, apparati di governo, ecc. con il contenuto stesso della ricerca scientifica e i risultati cui essa perviene.

Un simile modo di procedere finisce per accreditare la tesi secondo cui tutta la scienza è al servizio del capitale, e la ricerca scientifica in campo medico è un apparato integralmente a libro paga delle casefarmaceutiche. Se queste finanziano gli enti di controllo e le riviste scientifiche su cui vengono pubblicati gli studi soggetti a peer review, certamente ciò è fonte di corruzione e distorsioni a vari livelli. Ma da questo non possiamo dedurre meccanicamente l’inattendibilità degli studi stessi. La peer review, nonostante i condizionamenti, rimane pur sempre un metodo che permette a migliaia e migliaia di ricercatori, università, istituti, centri studi di tutto il mondo di vagliare le ipotesi avanzate, verificare la congruità dei metodi di sperimentazione, discutere e sottoporre a critica i risultati raggiunti. Quando ad esempio la somministrazione del vaccino AstraZeneca fece insorgere casi di trombocitopenia superiori all’atteso in una certa classe d’età, decine di centri studi si attivarono per scoprirne la causa e alla fine un team di ricercatori della Cardiff University riuscì a identificare il fattore scatenante. Il processo di affinamento delle conoscenze può quindi riuscire a farsi strada nonostante i pesanti condizionamenti cui la ricerca è sottoposta, le lotte a coltello fra le majors farmaceutiche, la pervasività della corruzione. Riconoscere ed essere quanto mai guardinghi nei confronti di tali fenomeni, non deve tuttavia spingerci ad accreditare strumenti “alternativi” che tali certamente non sono. Dubbi ancora maggiori sorgono quando presunti studi scientifici vengono resi noti attraverso “appelli” sui social media o su stampa e televisione, anche da personaggi che pur avrebbero le possibilità di attivare i canali ufficiali, come nel caso del premio Nobel Luc Montagnier o di Robert Malone, certamente ben inseriti nell’establishment e (il secondo) anche negli apparati militari.

D’altronde, quali sono gli insigni “medici e studiosi antisistema” alla cui fonte Banchi Nuovi preferisce abbeverarsi? Leggendo il loro documento, appare chiara qua e là la scopiazzatura, tra le altre, delle tesi del “professor” Giulio Tarro, espulso già negli anni ‘80 dalla Società Italiana di Immunologia Clinica e Allergologia, sostenitore della tesi bislacca della modifica del Dna attraverso i vaccini e (sarà un caso?) presidente onorario del micropartito Alleanza di Centro, che alle regionali dello scorso anno ha sostenuto il candidato di destra Stefano Caldoro…

Considerare il mondo scientifico come asservito tout-court al capitale, tradisce un’incomprensione dei meccanismi che presiedono ai rapporti fra scienza e capitalismo, laddove corruzione e conflitti d’interesse sono ben presenti, ma non esaustivi nel definire l’assoggettamento della scienza al sistema dominante. Questo rapporto di assoggettamento è infatti contraddittorio: da un lato, esso è il risultato di input che non possono essere messi sotto controllo e che scaturiscono dal “sottosuolo” dei rapporti sociali capitalistici, dall’altro ciò non significa che ogni progresso della conoscenza sia totalmente sussunto agli imperativi del capitale. Ancora una volta: la borghesia tenta di governare i processi sfruttando il suo status di classe dominante, ma non è – fortunatamente – dotata di una capacità di controllo assoluta, che le permetterebbe qualunque cosa. Ecco perché una critica alla “scienza ufficiale” materialisticamente fondata non può assumere semplicemente le vesti di “un’altra scienza”, quella “che non ci raccontano”, ma deve mettere capo ad una revisione più complessa. Non si tratta di “svelare retroscena” e “confutare risposte”, ma di formulare domande diverse, dalle quali potranno scaturire risposte in grado di aprire nuovi campi di indagine e nuove impostazioni metodologiche, pervenendo ad una critica degli stessi fondamenti epistemologici attuali. E in quest’opera, siamo convinti che una parte di medici, infermieri, operatori sanitari e ricercatori potranno entrare in relazione con i proletari ed affiancare la lotta dei lavoratori più coscienti per difendere la propria vita e la propria salute.

Allo stesso tempo, l’auto-attivazione dei settori di classe non può limitarsi alla difesa della salute sui posti di lavoro, anche se questo sarebbe già un enorme passo avanti. Essa deve investire anche questioni essenziali come ad esempio la pressione sulle reti di farmacovigilanza o la ricerca scientifica. Quest’ultima, abbiamo detto, rappresenta un nodo cruciale. Ricerca scientifica non significa soltanto indagare e comprendere i meccanismi biologici, chimici, ecc. che stanno alla base di un determinato fenomeno. La ricerca scientifica è la risposta che si dà a determinate domande. Se noi poniamo domande inerenti sempre più alla prevenzione, alla qualità dell’esistenza, ai danni che il sistema capitalistico arreca alla vita umana, alla natura non umana e all’ambiente, noi avremo una ricerca scientifica meno prona agli interessi del profitto, volta non a fornire l’ennesima medicina o vaccino contro uno dei tanti virus che il modo di produzione capitalistico avrà strappato dal suo isolamento per trasformarlo nella causa di una nuova pandemia, ma a scongiurare che questo avvenga, una ricerca scientifica suscettibile di ispirare ed affiancare le lotte dei lavoratori per una sanità preventiva, universale, gratuita, che miri realmente al benessere collettivo e non a tamponare i disastri di questo sistema.

Se oggi la ricerca scientifica, al pari di tutte le altre “forze produttive”, si converte di continuo in “forza produttiva del capitale”, contrapposta ai lavoratori e alla stragrande maggioranza della popolazione, è perché è costretta ad esistere solo come attributo del capitale, della sua potenza e della sua continua necessità di valorizzazione. Quasi sempre, non sono le risposte che essa dà ad essere “false”, sono le domande cui risponde che portano le stimmate delle esigenze del capitale. Non è un caso che essa sia legata a filo doppio all’attività delle aziende capitalistiche che ne sfruttano i risultati e questo legame non possa essere spezzato nemmeno attraverso il finanziamento statale dell’attività di ricerca, dal momento che essa rimane prigioniera in partenza degli input e delle richieste che provengono dalle imprese del settore e dalle esigenze del sistema capitalistico in generale. Ne è prova il basso afflusso di fondi per la ricerca pura, cioè per quella ricerca che è svincolata dall’obbiettivo di mettere a punto un qualche prodotto da vendere sul mercato. Il meccanismo perverso di cui è parte integrante l’attuale ricerca scientifica in campo medico (ma, mutatis mutandis,il discorso vale anche per gli altri settori) ignora inevitabilmente tutto ciò che riguarda le cause di fondo delle malattie per concentrarsi, illusoriamente ma “profittevolmente”, sulla messa a punto di nuovi “rimedi” per tamponare le conseguenze di una vita sempre più disumana. La sopravvivenza del sistema capitalistico, legata in misura crescente all’aggressione violenta agli ecosistemi e al depredamento intensivo delle risorse naturali, produce malattie e pandemie (una nuova era di pandemie è data ormai per scontata da tutti coloro che si occupano di questi problemi) e la risposta che il sistema conosce è solo la medicalizzazione progressiva della vita umana, a sua volta fonte di lucro per le imprese del settore.

E’ certamente ancora troppo poco e troppo generico per fondare materialisticamente una critica della scienza e di quella medica in particolare, ma è un punto di partenza necessario, che non fa di noi degli ingenui assertori del progresso tout court, che non vedono, o quantomeno sottovalutano, le nefandezze dei colossi farmaceutici, ma che inquadrano la denuncia e la lotta contro di essi come una lotta per rovesciare un intero sistema sociale e non per “smascherare” progetti occulti di dispotismo totalitario.

Aprile 2022

SI Cobas nazionale