Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dalle compagne del Comitato 23 settembre, già disponibile sulla loro pagina (vedi qui):
10 aprile, una giornata di riflessione e di bilancio
sull’uso capitalistico della pandemia,
nella prospettiva di lotta a difesa della salute di tutte e tutti
A due anni dall’inizio della pandemia, la nostra denuncia delle ricadute sulla salute delle donne e su come batterci per una sanità che veda al centro la prevenzione e la gratuità, e come obiettivo immediato la riapertura dei consultori, è stato l’oggetto dell’intervento di una compagna del Comitato 23 Settembre all’assemblea che qui riportiamo:
Trarre un bilancio onesto del periodo pandemico tutt’altro che passato, a distanza di un anno ed inquadrando diversi aspetti, ci consente non soltanto sviluppare un’ analisi complessiva aderente alla realtà ma anche di inquadrare prospettive e terreni di lotta sui quali agire.
Concentrerò il mio intervento sulla “questione femminile”, come elemento di fondo della lotta e terreno ineluttabile per la costruzione di un fronte di classe.
Le donne, in particolare quelle proletarie, sono state le “vittime di elezione” della crisi sociale ed economica innescata dalla pandemia da covid-19, che secondo alcuni non è neanche esistita, pur lasciando sul terreno milioni di morti, che ha funzionato da vero e proprio catalizzatore di tutte le criticità preesistenti, amplificandole e accelerandole, fino a delineare un quadro che oggi non possiamo fare altro che definire allarmante.
Innanzitutto, durante gli ultimi due anni, si è realizzato un vero e proprio stillicidio di quei posti di lavoro precari e ultra precari (lavoro somministrato, occasionale, a progetto, a tempo determinato) che rappresentano la principale tipologia occupazionale per le donne; secondo le statistiche Inail, nel 2020/2021 sono circa 876.000 i posti di lavoro femminile persi in ragione dei mancati rinnovi di contratto e degli abbandoni “volontari obbligati”, che in punti percentuali corrispondono a più del 90% del totale.
I dati dell’istituto chiaramente non ricomprendono le fattispecie del lavoro nero, riguardante circa 3 milioni di persone che producono un valore economico di 77,8 miliardi di euro all’anno; di queste, si stimano in 1 milione 352 mila le donne, pari a più del 45% del totale nell’occupazione irregolare (dati Isfol).
Tra il 2020 e il 2021 centinaia di migliaia di donne (proletarie) con figli in età scolare, che prima della pandemia riuscivano a racimolare un salario seppure al nero, hanno visto sfumare rovinosamente la possibilità di sostentarsi sotto i colpi delle chiusure delle piccole attività commerciali, dell’interruzione delle attività nel settore terziario, dell’imposizione della dad come unica soluzione per contenere i contagi, dll’incapacità del governo ad individuare strumenti efficaci di welfare diretto e indiretto quando ce ne sarebbe stato più bisogno.
Chiaramente l’aspetto del lavoro rappresenta soltanto lo scoperto apicale della condizione di incatenamento delle donne a forme di vessazione e sopraffazione che sono articolate a tutto tondo e la cui intensità aumenta esponenzialmente nelle classi subalterne.
Alla violenza di genere che miete ogni anno centinaia di vittime (solo nel periodo gennaio –novembre 2021 sono state 109 le donne uccise dai partners), si somma una consolidata e costante violenza istituzionale, attuata attraverso la totale corrosione dei pochi diritti sociali strappati con le dure lotte dei decenni 60/70.
Infatti tutto il corollario del welfare indiretto, dai servizi scolastici a quelli per la salute, sono diventati un miraggio sempre più labile e un piano di azione sempre più estraneo nell’intervento delle amministrazioni ad ogni livello.
Ne sono un esempio lampante i presidi medici territoriali, ovvero i consultori, istituiti dalla legge 405.
Così come disegnati dalla norma del 1975, questi avrebbero dovuto essere presidi capaci di garantire una funzione preventiva, oramai inesistente, della sanità pubblica. I servizi offerti dai consultori, già numericamente scarsissimi rispetto alle indicazioni della legge (in Italia sono in tutto 1800 quando dovrebbe essercene uno ogni ventimila abitanti), sono insufficienti sia in termini di quantità che di qualità, contribuendo alla criticizzazione o alla cronicizzazione dei problemi di salute: con la trasformazione delle unità sanitarie in aziende è stata razionalizzata una direzione dell’intervento istituzionale nella salute pubblica volta a curare le malattie e non a limitarne l’insorgenza, e quindi diametralmente opposta a quella necessaria.
Anche laddove presenti, i consultori risultano spesso di difficile praticabilità, con tutto quel che ne consegue in termini di salute complessiva: mentre in origine era possibile recarsi in queste strutture senza appuntamenti o prescrizioni mediche, oggi il sistema sanitario ridotto a ricettificio costringe ad attese di mesi, per prestazioni sanitarie prive di ogni cura per la persona, erogate in serie e da cui estrarre esclusivamente un preciso valore economico; un sistema che tutto concede all’impossibilità di fatto di accedere anche a tutti quegli indispensabili servizi psicologici legati ai rapporti sociali e familiari, oltre a quelli legati alla salute riproduttiva.
Se pensiamo alle malattie esclusivamente femminili (come l’endometriosi) o alla crescente sterilità il cui trattamento è diventato sempre più preda della privatizzazione e della speculazione ai danni delle donne, osserviamo che i costi delle cure ricadono interamente sulle economie delle donne colpite, integrando una pesantissima discriminazione di classe nel diritto basilare ad una esistenza dignitosa, dal momento che non sono riconosciute dal SSN; se pensiamo al tema dell’aborto, osserviamo che è riconosciuto per legge ma nei fatti viene quotidianamente negato tanto più alle donne proletarie che, considerata la percentuale degli obbiettori di coscienza presenti nelle strutture “pubbliche”, non hanno possibilità di accesso a questa pratica medica perché non hanno i mezzi economici per interrompere le gravidanze in strutture private.
L’impossibilità di acquistare farmaci costosi e non prescrivibili, di eseguire visite specialistiche, di pagare esami diagnostici o clinici: questa è la quotidianità di milioni di donne. Un disciplinamento sociale alla rassegnazione e alla passiva accettazione della sofferenza che era già pienamente compiuto prima della crisi pandemica da covid 19: questo è un elemento incontrovertibile e che rende evidente l’infondatezza di tutte quelle avvilenti storpiature teoriche, pure in voga nei movimenti di opposizione alla gestione della pandemia da parte del governo, secondo le quali l’esercizio di disciplinamento sociale sarebbe stato il succedersi di lock down e divieti imposti ad arte sotto l’egida dell’emergenza pandemica. In realtà siamo stati accompagnati nel tempo sull’orlo di un baratro, dove la gestione capitalistica della pandemia ha rappresentato soltanto una spinta, potente ma non sola e non ultima.
Rispetto a questo scenario è chiaro che il tema della salute, inscindibile dal tema del caro vita che pure deve essere messo al centro del nostro dibattito e della nostra azione in ogni luogo di lavoro ed in ogni territorio, rimane un aspetto fondamentale su cui costruire percorsi di lotta che tengano conto non soltanto della valanga rappresentata dalla pandemia, ma anche e soprattutto delle cause che avevano reso disconnesso e franabile il “suolo sociale”.
Da attiviste, lavoratrici, disoccupate e studentesse che contribuiscono quotidianamente alla costruzione di lotte politiche e sociali, lo scorso 8 marzo a Napoli, abbiamo dato seguito alle proposte lanciate precisamente un anno fa nell’assemblea del 17 aprile; nel quartiere di Bagnoli abbiamo occupato un consultorio che era stato dismesso definitivamente proprio poco prima dell’inizio della pandemia: una riprova tangibile di quanto affermato finora rispetto al ruolo svolto dall’insufficienza delle strutture, del personale e dei presidi territoriali nella catastrofe covid, così come è stato fatto a Milano dalle altre compagne del Comitato 23 Settembre.
Oggi, nelle more di quell’ipoteca sul futuro delle giovani generazioni che è il PNRR, qualche briciola cade anche sul consultorio di Bagnoli e l’amministrazione dà esecuzione ai lavori di ristrutturazione; per quel che ci riguarda è un momento cruciale nel quale intervenire, rivendicandone non la mera riapertura, ma la sua funzionalizzazione in chiave di presidio territoriale capace di dare reale sostegno ai bisogni primari di una popolosa comunità.
Il tema è non tanto l’affermazione della necessità di una sanità pubblica, ma la definizione di quale modello di sanità pubblica riteniamo necessario: gratuito, di qualità ed efficace nel garantire la cura per non ammalarsi, piuttosto che la cura della malattia.
Attraverso l’intensificazione delle lotte sociali, costruendo percorsi che siano in grado anche di riappropriarsi e di moltiplicare pratiche di autodifesa quali gli osservatori popolari per il controllo dal basso dei processi, i comitati per l’autoriduzione delle bollette, e la stessa capacità di autorganizzazione dei lavoratori.