Riceviamo e pubblichiamo dalle compagne del Comitato 23 settembre questo contributo, già disponibile sulla loro pagina (vedi qui):
Dagli Stati Uniti due nuovi atti di guerra contro le donne
L’attacco alle lavoratrici e ai lavoratori ha fatto negli ultimi anni un duplice salto di qualità, col Covid dimostrando gli effetti del sistema capitalista a livello globale e l’incapacità da parte del sistema di farvi fronte, e più recentemente con la guerra che non è un fenomeno nuovo, ma che oggi ci riguarda direttamente, con la partecipazione diretta dell’Italia e la forsennata propaganda che l’accompagna.
Quindi il primo punto che vorrei mettere in luce è che la difesa dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori oggi più che mai non può limitarsi a rivendicazioni sindacali o di movimento, ma, per essere efficace, deve attrezzarsi anche sul piano politico e ideologico, poiché siamo sotto pressione per pagare non solo i costi della crisi ma anche quelli della guerra, spinti a vedere nei proletari degli altri paesi non solo dei concorrenti, ma anche dei nemici, nel tentativo di renderci non solo narcotizzati e polverizzati, ma subordinati e arruolati.
Il secondo punto da mettere a fuoco è l’aumento esponenziale del controllo e della subordinazione delle donne e l’azione per normalizzare il loro essere riproduttrici, merce di scambio e prede di guerra. Se questo controllo è un tema ricorrente nell’azione dei governi, bisogna dire che lo è molto meno nell’azione dei sindacati e dei movimenti. Io credo che sia necessario in mezzo a tanta geopolitica e in previsione dello sciopero del 20 maggio, porre l’attenzione sulla guerra interna, che ha presentato anch’essa un salto di qualità, che va visto e ricompreso nelle motivazioni dello sciopero.
E’ utile perciò dare conto di quel che succede in questi giorni nel paese che è l’epicentro del capitalismo mondiale: il paese guida (tuttora), l’anticipatore, dove l’attacco alle donne si è trasformato in guerra dichiarata. Un attacco che prosegue da decenni per smantellare il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza assistita, sancito del lontano 1973 a seguito dei grandi movimenti sociali delle donne, dei neri e contro la guerra del Vietnam: l’ultima stagione di movimenti vittoriosa negli Stati Uniti.
Ora una fuga di notizie ha svelato che la Corte suprema, che è la massima autorità giuridica degli Stati Uniti, ed è ora dominata dalle destre più oscurantiste che vi si sono insediate da ben prima della presidenza Trump, ha deciso di affossare la legge che consentiva l’aborto dando via libera alle più svariate leggi e provvedimenti restrittivi emanate dai singoli stati. Citerò solo il caso del Texas, in cui una legge ha previsto che l’aborto sia ammesso solo nelle prime sei settimane di gravidanza, (quando una donna non sa neanche se è incinta o no) e ha istituito la modalità della delazione, per cui i vicini di casa, parenti, amici o colleghi di lavoro possono denunciare le donne che hanno abortito, e dove l’aborto non è consentito neanche nei casi di stupro o incesto. Un provvedimento che va inquadrato nel sistema sanitario degli Usa che è, come sappiamo, totalmente privatizzato, e colpisce tutte le donne ma in particolare quelle più povere, le donne afroamericane o ispaniche, e che è effetto della crescente influenza della estrema destra religiosa e laica negli Stati Uniti e non solo.
Parlavo di salto di qualità: dal moralismo e la “difesa della vita”, dal trincerarsi dietro l’autonomia degli Stati, all’affermazione, al più alto livello istituzionale, del controllo sulle donne, sulla loro riproduzione e del disprezzo per la loro salute. Una linea politica che si ricollega naturalmente a ciò che succede anche qui, a cui come Comitato abbiamo contribuito a rispondere, sostenendo la lotta per la riapertura dei consultori come momento collettivo di controllo sulla salute, per la difesa dei diritti delle donne e non solo.
E’ però semplicistico pensare che la questione si basi sulla contrapposizione tra movimento per la vita e diritto di scelta. Gli Usa sono all’avanguardia anche in questo. E’ una notizia di questi giorni: Jeff Bezos, il patron di Amazon, la più potente multinazionale del mondo, non uno qualunque, dunque, ha avuto l’idea diabolica di superare la diatriba diritto o non diritto, dichiarando di voler pagare le sue dipendenti che intendono abortire. E’ uno che i conti li sa fare e manda al diavolo la visione strategica del calo delle nascite e dell’invasione dei colorati che i figli li fanno. E’ meglio spendere quattro soldi subito che trascinarsi dietro gravidanze, permessi, assenze, indennità e quant’altro. Questa decisione, del tutto complementare alla visione strategica generale propria della Corte Suprema (o della sua maggioranza), rappresenta anch’essa un salto di qualità nella guerra contro le donne, che passa dalle condizioni sociali e di lavoro che rendono problematica la scelta di maternità, all’istigazione all’aborto coatto da parte della più grande azienda del mondo. Qualcosa ci dice che questo esempio potrebbe essere facilmente seguìto in Italia e ovunque.
Richiamo, per finire, gli elementi fondamentali di questo processo storico in atto. Il primo: il passaggio definitivo dall’ideologia alla pratica, nella guerra interna contro le donne: le lavoratrici, le precarie, le disoccupate, le afroamericane, le ispaniche, le donne più povere. Il secondo: il carattere strutturale di questa guerra interna, che non è fatta da sette religiose ma a livello istituzionale ad altissimo livello, in modo lungimirante, ed è funzionale alla guerra di lunga durata in atto, e per i padroni, come risposta alla necessità immediata di realizzare profitti che la crisi sta erodendo. Il terzo: il carattere trasversale, anche rispetto alla guerra, del rafforzamento dello schieramento nazionalista all’insegna di “dio, patria e famiglia”. Il quarto: il carattere internazionale: dagli Usa alla Russia, dalla Polonia all’Ungheria, con una buona presa anche nell’intera Europa. Questo carattere internazionale scavalca gli schieramenti bellici, e la dice lunga sul carattere inter-imperialista della guerra in atto.
Il quinto elemento fondamentale da considerare è, però, la risposta a queste aggressioni. In molte città degli Stati Uniti sono state messe in atto manifestazioni immediate: non solo di donne ma anche di moltissimi giovani e lavoratori. Forse abbiamo qualcosa da imparare da questa mobilitazione corale, che dimostra la consapevolezza del carattere strategico di questo attacco: una consapevolezza condivisa anche dallo stato, che ha risposto con una pesante repressione, pestaggi e arresti, come dimostra il video che abbiamo postato.
Il sesto punto è la capacità del capitale di muoversi su più livelli, anche su questo terreno, che noi dobbiamo denunciare con uguale forza. Come abbiamo detto più volte come Comitato, noi non difendiamo il diritto all’autodeterminazione come un punto di principio ideologico slegato dall’insieme delle rivendicazioni economiche della classe e dalla lotta politica contro la guerra e il governo che vi partecipa. La lotta per l’autodeterminazione deve andare al di là della rivendicazione della scelta individuale e deve collegarsi alla lotta per la salute, per il diritto alla maternità, per il diritto all’IGV assistita, per una sanità pubblica e gratuita.
Tutti questi elementi dovranno convergere nella lotta che il Comitato 23 settembre sta sostenendo per ridare vita a strutture pubbliche smantellate nel tempo dove collettivamente le donne, i giovani e chiunque ne ha il bisogno, possano ricevere informazioni e indicazioni competenti e gratuite e auto-educarsi collettivamente al controllo e alla lotta per i propri interessi, che sono opposti a quelli del capitale in qualunque modo essi si manifestino. Una lotta che oggi si incentra sulla parola d’ordine “guerra alla guerra” che deve trasformare ogni lotta e lo sciopero del 20 maggio in un’azione di disfattismo attivo.
(Intervento della compagna Paola a nome del Comitato 23 Settembre, all’assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi in preparazione dello sciopero del 20 maggio)
Comitato 23 settembre