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[ITALIA] Elezioni 2022: una squallida sarabanda in tempi di guerra

Riceviamo e pubblichiamo dai compagni della Tendenza internazionalista rivoluzionaria questo contributo, già disponibile sul sito della redazione Il Pungolo Rosso (vedi qui):

Elezioni 2022: una squallida sarabanda in tempi di guerra

– TIR

Tutti insieme per esprimere, con Comunione e speculazione, la loro “passione per l’uomo”…

Le campagne elettorali sono la fiera delle promesse insostenibili: un campionario di inganni, raggiri, menzogne, truffe di là da ogni immaginazione. Ma la campagna elettorale in corso, dominata com’è dall’essere nel mezzo di una crisi epocale del sistema capitalistico, è più truffaldina della media. Con una guerra in Ucraina dalla durata illimitata in corso (e altre all’orizzonte), con il prezzo del gas alle stelle, con i tassi di sconto e i debiti pubblici e privati in crescita, con la recessione in arrivo e una siccità record, con ogni tipo di manovre speculative in agguato, i margini di reali concessioni ai proletari da parte dei governi, e nella fattispecie di un governo come quello italiano, sono minimi. Se non inesistenti. I partiti in gara non possono rinunciare alle iperboliche promesse, è questo il gioco nelle elezioni. Ma, a differenza di tempi oramai lontani di relativa calma, sono obbligati a ricorrere, in varie forme, a retoriche nazionaliste o ultra-nazionaliste che vincolano i possibili benefici per i lavoratori alla loro disciplinata partecipazione alla concorrenza all’ultimo sangue tra aziende e tra paesi che la crisi sta acutizzando. I confini sono quelli della guerra e dell’economia di guerra.

Da qui le vagonate di demagogia nazionalista o social-nazionalista messe in campo dai vari partiti sui social, le tv, la stampa (i comizi servono solo di contorno) per conquistare il voto, sempre più passivo e passivizzato, di lavoratori e lavoratrici. Non da oggi in questo genere di demagogia primeggiano le destre, che vantano una lunga esperienza nell’intossicare i “popoli” con il miraggio di fantomatiche rinascite nazionali, se del caso perfino di imperi o Reich millenari, sulla pelle di altre nazioni. Accade così pure in questa campagna elettorale, sebbene siamo ancora lontani dai livelli di delirio patriottico di un secolo fa.

Le destre: un mix di frodi e veleni

L’intera propaganda acchiappavoti delle destre fa perno, con una pluralità di proposte, su flat tax, pensioni minime a 1.000 euro, raddoppio dell’assegno unico, quota 41 per la pensione, oltre che sulla illimitata copertura statale delle perdite delle imprese, etc. Dal momento che queste misure richiedono impegni di spesa per molte decine di miliardi di euro (Salvini ne reclama 30 per i soli provvedimenti tampone immediati) e le stesse destre vogliono un taglio netto delle entrate dello stato a favore di capitalisti e ceti abbienti, si tratta di spesa in deficit. Smaccata la truffa ai danni dei proletari (chi paga il debito di stato? chi ne incassa gli interessi?), e facile l’accusa del partito di Draghi: portate l’Italia alla bancarotta, ad un nuovo 2011 al quadrato.

Non appena, però, il Financial Times ha reso noto che “gli Hedge Fund stanno preparando la più grande scommessa speculativa contro l’Italia dal 2008”, la starlette del momento, al secolo (d’Italia) Giorgia Meloni, si è precipitata a precisare alla Reuters: con me i conti pubblici italiani “non corrono rischi”. Nessuno “può immaginare di rovinare le finanze del Paese”. La prossima legge di bilancio rispetterà ogni parametro richiesto. Non intendiamo fare “cose pazze”, “distruggere o lasciare l’Europa”. Vogliamo solo “difendere gli interessi nazionali, come fanno già la Francia e la Germania”. Il commento del finanziere di Algebris Serra è appropriato: “Giorgia Meloni ha capito che un conto è fare campagna elettorale in Italia, un altro parlare ai mercati e agli investitori”. Il viaggio a Londra che la biforcuta compirà per recarsi a rapporto dai pescecani della City, la farà maturare ulteriormente.

[Attenzione: questo non esclude che in un contesto ancor più drammatico dell’attuale, la banda-Meloni, altre formazioni della destra più estrema, o la stessa Lega, possano tornare a declamazioni e iniziative “patriottiche” più fortemente polemiche nei confronti dell’UE. Al momento le diverse opzioni atlantista, euro-atlantica, europeista, “sovranista” si mescolano tra loro, anche nei singoli partiti, senza una contrapposizione netta tra frazioni del capitale. Sebbene per ora prevalgano nettamente le prime due, un incontrollabile precipitare degli eventi ai danni degli interessi del capitalismo nazionale, da tempo in via di indebolimento, e una completa ridislocazione delle alleanze tra stati a livello internazionale, potrebbero dare ossigeno a opzioni “sovraniste” oggi minoritarie nei maggiori partiti borghesi, e perfino a espressioni politiche marginali tipo Italexit.]

Nella demagogia patriottarda, però, identificare la causa di tutti i mali sociali in un nemico esterno è essenziale. Per cui, messa un po’ la sordina alle invettive contro la UE, è partita la nuova crociata di FdI e Lega (con Forza Italia a ruota) contro gli immigrati “clandestini”. Sono loro la nostra rovina: invasori, ladri, distruttori di identità, stupratori, scrocconi, malavitosi. Vanno fermati con un gigantesco blocco navale e/o affondati nei barconi prima che arrivino a contaminare il nostro santo suolo – al modo della corvetta militare Sibilla che il 28 marzo 1997, davanti ad Otranto, affondò la carretta del mare albanese Kater I Radesh con 120 emigranti a bordo… al governo c’erano Romano Prodi e l’anti-razzista Ulivo. Una volta vinta questa grande guerra, tutto volgerà al bello, statene sicuri.

C’è una quota di frode anche in questa lurida campagna contro gli immigrati “clandestini” perché la destra, al pari del centro-sinistra, li ritiene indispensabili sia come forza-lavoro a zero diritti, sia come facile capro espiatorio. E ha preso provvedimenti su provvedimenti, da ultimo i decreti-Salvini, per creare decine di migliaia di immigrati privi di permesso di soggiorno, non essendo mai sufficienti quelli che ci sono. Non c’è solo frode, però. C’è una studiata semina di veleni rivolta alla massa dei proletari italiani di nascita per approfondire la loro divisione dagli immigrati, già alimentata dalla concorrenza sul mercato del lavoro e da una ricca tradizione culturale coloniale e di razzismo istituzionale. Il messaggio delle destre è duplice: guerra agli immigrati “clandestini” (si nominano i “clandestini”, ma si intende tutti) per scagliare i proletari autoctoni contro i proletari immigrati; soppressione del reddito di cittadinanza, per mettere i proletari occupati contro disoccupati e marginali. E data l’atomizzazione e la passività dell’insieme del proletariato, il messaggio sta in qualche misura funzionando.

Meloni e Salvini sanno che ove andassero al governo avrebbero a loro disposizione risorse limitatissime per rispondere al malcontento sociale accumulatosi in decenni di sacrifici. Per questo stanno portando nella campagna elettorale anche temi ideologici ed “etici” il cui peso non va assolutamente sottovalutato. Il trittico dio/patria/famiglia della Meloni e i “credo” salviniani rilanciano l’offensiva dell’Internazionale nera, che fa dell’oppressione delle donne un perno della sua politica, e intende rispondere a suo modo allo svuotamento di senso di una vita composta, per la grande maggioranza dei salariati, di lavoro alienato e consumo di merci. Ma continua a fare i suoi danni anche la retorica neo-liberista cara ai berluscones alla Briatore che criminalizza l’“assistenzialismo”, il “non-lavoro” come fosse una scelta dei disoccupati, lo statalismo (solo, però, se si tratta di prestazioni sociali per i lavoratori, i regali di stato alle imprese sono sempre graditi).

Il partito di Draghi: altre frodi, altri veleni

Contro le destre che hanno il vento in poppa, si muove il composito partito di Draghi, il quale – come si è visto a Rimini – a tutto pensa fuorché ad accettare la fine prematura della sua era come presidente del consiglio, o come presidente della Repubblica in pectore, sospinto com’è con intatta determinazione dai poteri forti occidentali e gran parte di quelli nazionali. I suoi agit-prop di Pd, Iv e Azione propongono di prolungare in eterno l’agenda Draghi. Per renderla appetibile al “popolo” debbono falsificare i fatti avvenuti sotto il governo di questo “vile affarista” (copyright by Cossiga) che hanno eletto a loro dio. Accade così che il rimbalzo del 2021-22 dalla più grave recessione degli ultimi decenni, che è stato favorito dal tonfo del 2020 e da una straordinaria messe di prestiti e aiuti a fondo perduto dell’UE, viene venduto come se fosse il miracolo di super-Mario capace di trasformare in oro tutto ciò che tocca. La scelta iper-atlantista nella guerra in Ucraina viene spacciata per messa in sicurezza dell’Italia, mentre è vero il contrario: l’Italia si appoggia e si stringe in modo ancor più organico al bellicismo statunitense e degli alleati della NATO, il che ci precipita nel vortice del riarmo globale e della moltiplicazione dei conflitti bellici alla scala mondiale. I dati puramente congiunturali sull’occupazione estiva sono presentati come prova di efficacia sociale del governo uscente; in realtà sotto questo esecutivo è avvenuta un’incontrollata espansione dei lavoratori poveri, del precariato, dei morti sul lavoro. E da questo esecutivo il padronato ha ricevuto un formidabile regalo con il colpo di mano che ha escluso la responsabilità in solido dell’appaltante, incentivando l’uso e l’abuso degli appalti e delle finte cooperative da parte delle grandi imprese. Un taglio del cuneo fiscale a tal punto insignificante che neppure il segretario della UIL si sente di intestarselo, è diventato per Letta&Co. l’inizio di un cammino inesistente verso l’“equità fiscale”. Il tripudio per aver cominciato ad azzerare la dipendenza dal gas russo maschera che si è aggravata la dipendenza dagli Usa, e oscura l’ingentissimo incremento di costi materiali ed ecologici che il passaggio dal gas russo a quello liquefatto comporta. Un blocco di falsificazioni da cinici demagoghi di professione.

L’agenda Draghi sponsorizzata da Letta, Calenda e Renzi anche davanti ai proletari è un compendio dell’aggressivo bellicismo NATO, del sostegno incondizionato all’oppressione e all’apartheid israeliano contro i palestinesi, della politica anti-inflazionista blocca-salari della BCE, e delle misure e azioni spezza-scioperi volute da Confindustria e multinazionali, in cui l’esecutivo Draghi si è distinto. Un’agenda anti-operaia, anti-proletaria non meno di quella delle destre. Al suo centro c’è la fede nelle massime istituzioni interne/internazionali dello sfruttamento capitalistico, e la difesa delle loro norme e dei loro obiettivi come intangibili. Sentite il neo-Pd Cottarelli: “Il vincolo di bilancio diventerà più stretto nei prossimi anni [a tutela dei creditori – n.]. Gli spazi di bilancio andranno inevitabilmente a ridursi. Diventa allora fondamentale usare le più limitate risorse in modo oculato”. Il veleno, un veleno mortale per i lavoratori che accettano di berlo, è qui nel presentare come naturali, inevitabili, le leggi storiche irrazionali strangolatorie dell’economia e della finanza capitalistica. Merce, capitale, profitto, debito, credito, bancarotta, accumulazione del capitale, produttività del lavoro, competitività… per i democratici borghesi “di larghe vedute” contrari alla flat tax come Cottarelli, sono questi i chiodi con cui crocifiggere il lavoro vivo in eterno. Esattamente come per i democratici o semi-democratici/semi-fascisti favorevoli alla flat tax.

Non è un antidoto a questi veleni la retorica anti-fascista/anti-razzista di un partito che ha la primogenitura dei centri di detenzione (Turco-Napolitano) e della loro esternalizzazione (Minniti) e sta diffondendo oggi una russofobia guerrafondaia, reazionaria, demente quanto la sua storica islamofobia. Anche in questo caso i nemici che “ci” rovinano sono all’esterno: la Russia, la Cina, un certo islamismo. Altrettanto vuota è la retorica di Pd&soci sui “diritti civili”, che suona finanche oltraggiosa se è separata dalle condizioni materiali del loro esercizio – come la difesa a parole del diritto all’aborto da parte di chi per decenni ha approvato senza battere ciglio i tagli alla sanità pubblica, e davanti allo svuotamento della legge 194 del 1978 per il dilagare dell’obiezione di coscienza tra i medici, davanti alla chiusura a raffica dei consultori e dei centri anti-violenza, si è voltato dall’altra parte senza alzare un dito. In realtà dietro queste vuote retoriche democratiche c’è la totale accettazione dei rapporti sociali che penalizzano le donne e uno smaccato classismo che lascia l’esercizio dei “diritti” formalmente universali a chi si può permettere di comprarli.

Insomma, la scelta tra il partito di Draghi e le destre che è davanti ai lavoratori e alle lavoratrici il prossimo 25 settembre, è la scelta tra la padella e la brace. Del resto, le convergenze tra l’agenda Draghi e l’agenda Meloni crescono giorno dopo giorno, dietro e davanti le quinte.

I Cinquestelle sono diventati “progressisti”?

Con abilità l’ultimo Conte ha smarcato i residui Cinquestelle dall’abbraccio con il governo Draghi, il Pd e le destre per presentarsi in solitario come il campione degli umiliati e degli offesi. E per accreditarsi tale, ha imbandito un bel piatto ricco di proposte “dalla parte” dei lavoratori: rafforzamento del reddito di cittadinanza, salario minimo per legge a 9 euro l’ora, fine degli stage gratuiti, misure contro la precarietà, perfino riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. “I progressisti siamo noi”, rivendicano i suoi seguaci.

Difficile, però, dimenticare che il “progressista” Conte che sta oggi, con le parole del tempo di elezioni, “dalla parte dei lavoratori”, è lo stesso che si è prostrato nel 2018 ai boss della logistica e dell’industria varando con orgoglio i decreti Salvini rivolti sia contro gli immigrati che contro le lotte operaie. Lo stesso che per non intralciare gli interessi delle imprese, ha condotto una politica di contrasto al covid fallimentare, pagata amaramente proprio dagli operai e dagli strati sociali subalterni. Lo stesso che durante la pandemia si è ben guardato dal toccare gli interessi delle imprese farmaceutiche e dall’intralciare l’ulteriore processo di privatizzazione e mercatizzazione della sanità. Lo stesso che, con il suo Movimento, è stato fino a ieri parte integrante del governo Draghi e alleato del Pd, che solo oggi scopre essere insensibili alle grida di dolore degli emarginati e degli oppressi. Lo stesso che, seppure con qualche mal di pancia, ha approvato la politica di radicalizzazione della guerra in Ucraina dell’esecutivo in carica e il massacro sociale dell’ultimo biennio.

Anche a voler, per assurdo, dimenticare tutto ciò e credere per un attimo alla sincerità di tale conversione sulla via di Montecitorio, basta scorrere il programma elettorale del Movimento 2050, di cui Conte è a capo, per scoprire che il suo “cuore e coraggio” sono comunque e sempre, al di là e al di sopra di tutto, per l’Italia. Per lo sviluppo del capitalismo italiano. Per le istituzioni borghesi che vanno ripulite per renderle più legittimate e forti. Per le imprese cui bisogna “garantire liquidità” così da agevolare gli investimenti con risorse pubbliche. Per l’iper-produttiva industria 4.0 dell’odiato Calenda. Per la NATO e il maggior protagonismo in essa dell’imperialismo italiano – testualmente: per una “solida collocazione dell’Italia nella Alleanza atlantica e nell’Unione europea, ma con un atteggiamento proattivo e non fideistico, che renda l’Italia protagonista nell’ambito dei vari consessi”. Per il “progetto di difesa comune europea”. In breve per potenziare e razionalizzare la mega-macchina di sfruttamento e discriminazione, nazionale e internazionale, che produce moltitudini di quegli umiliati e offesi di cui l’avvocato del popolo pretende di volersi assumere la difesa. Ancora una volta demagogia e frode.

Viene in mente la brillante sentenza di Lenin: “Decidere una volta ogni qualche anno quale membro della classe dominante debba opprimere, schiacciare il popolo nel parlamento: ecco la vera essenza del parlamentarismo borghese, non solo nelle monarchie costituzionali ma anche nelle repubbliche democratiche”. [Dopo le presidenze Napolitano e Mattarella, l’Italia d’oggi è una via di mezzo tra i due tipi.]

Gli “anti-sistema” funzionali al sistema

Il circo elettorale vede in campo poi una pluralità di liste “anti-sistema”, “alternative”, che se per sistema si intende il capitalismo (e se no, che cosa?), di realmente anti-sistema, di alternativo alle forze borghesi maggiori non hanno, in effetti, nulla. Anzi.

Non abbiamo tempo da perdere per passarle in rassegna una per una, coi relativi capi/cape politici/che in più casi da vaudeville. Ci limitiamo alle tre che hanno qualche consistenza: Italexit di Paragone, Italia sovrana e popolare di Toscano&Rizzo, Unione popolare di De Magistris. E notiamo subito che c’è un elemento di fondo che le accomuna:l’assunzione degli interessi degli autonomi e delle piccole-medie imprese manifatturiere, del terziario, culturali come asse della difesa e dell’affermazione nel mondo di un’Italia che non sia solo quella delle élite, dei grandi potentati capitalistici, e sia invece l’Italia di tutti, dell’intero “popolo”, pienamente democratica, fedele al mitico dettato costituzionale. Sia anche l’Italia dei lavoratori quindi, purché questi stiano al loro posto subalterno di braccia e nervi operanti per i sovrani interessi della nazione. Il manifesto dell’unica delle tre liste di sinistra ha un’espressione programmatica stupenda che marca questa subalternità: “ricompensare e rispettare il lavoro” – punto n. 1 della Sintesi del programma di Unione popolare. Tornate sull’espressione: ricompensare e rispettare il lavoro… Anche se, proponendo “un nuovo modello di sviluppo con al centro la cultura”, UP ci fa pensare che – ove mai si realizzasse tale modello – il lavoro con scarsa “cultura”, non essendo al centro, ne risulterebbe penalizzato, ricompensato (UP garantisce generosamente un salario anche ai lavoratori con modesta istruzione), ma forse non troppo rispettato…

Comunanza di prospettive di fondo non è identità. Ognuna delle tre formazioni ha infatti la sua, o le sue, culture politiche di riferimento.

Italexit accrocchia i temi identitari storici di Lega e Cinquestelle, espressione entrambi di una concezione dei rapporti sociali iper-individualista, con quelli dei no vax più radicali. La sua proposta caratterizzante è uscire dall’euro e dall’UE per affermare “la sovranità politica, democratica ed economico-monetaria della Repubblica italiana”. Ma se gli si chiede “per andare dove?”, la risposta è la seguente: per edificare una nuova repubblica che applichi “le aliquote fiscali oggi in uso in Irlanda, Lussemburgo e altri paradisi fiscali riconosciuti dall’Unione europea”, con aliquota fissa del 15% a chi produce Made in Italy. Frode, quindi. Frode spudorata. Il “sovranismo” di questi bari consiste nell’uscire dall’euro e dalla UE per divenire un ennesimo paradiso per i capitali globali e per quelli nazionali, ponendoci tutti – il proletariato per primo – sotto il loro tallone di ferro più di quanto non sia già ora. La vicenda della Brexit, a meno di tre anni dalla partenza, parla chiarissimo con la raffica di scioperi in corso contro l’accresciuta sovranità sul lavoro delle imprese private e di stato, che sta producendo un impoverimento di massa. L’avventuriero Paragone può esibire il suo furbo “no armi all’Ucraina”, ma la sua prospettiva, che non prevede l’uscita dalla NATO, è quella già ben tracciata dalla vicenda Brexit: militarismo, razzismo, ulteriore schiavizzazione dei lavoratori. Anche la sua postura “contro la dittatura sanitaria” significa solo: pandemia o non pandemia, tutto aperto! Il far denari dei piccoli accumulatori, come quello dei grandi, non dev’essere intralciato da nessun ostacolo – è il verbo di Confindustria e di Bonomi. Anti-sistema? Un buffone di corte a libro paga del sistema.

Italia sovrana e popolare è una mistura “rosso”-bruna che unisce il PCI di Rizzo con altri 14 organismi di matrice cattolico-popolare o fascistoide nel nome di un’Italia “finalmente sovrana”. In un mercato mondiale in cui la stessa sovranità del dollaro è oramai messa in discussione, questi patrioti da barzelletta innalzano la bandierina della “sovranità monetaria” di una rediviva lira. Uno dei loro fan che si pretende addirittura comunista, presenta la prospettiva di ISP in questo modo:

“Il programma di Italia Sovrana e popolare. Intanto “Sovranità” non è “Tripoli bel suol d’amore” [sicuro?], ma l’uscita dall’anglosfera (…). Quindi Nemico: UE e NATO… azione: uscita. Sul concreto, nazionalizzazione dei settori strategici, pianificazione… tutti elementi che la compagneria ha perso per strada (…). E badate bene che qui non si tratta del programma massimo dell’ennesimo partitino dottrinario, il comunismo subito e la dittatura del proletariato [non ne dubitiamo]. In ISP, di fatto, c’è una visione che coincide con i passaggi di una transizione a un’economia socialista: piano e nazionalizzazione, ma in relazione con le esigenze della piccola e media imprenditoria, uno dei target del grande capitale finanziario e multinazionale. Discorsi che si sono fatti nei sabati di lotta contro le restrizioni…”.

L’adepto di ISP che scrive se la prende con l’Unione popolare perché nel suo programma non si vede “il nemico” (di classe). Vero. Pessima cosa. Tuttavia ISP riesce a fare di peggio perché in un paese che è stato da cinque secoli parte integrante del colonialismo storico con le sue punte avanzate Venezia e Genova, che è entrato da un secolo nel club dei paesi imperialisti, e tale rimane nonostante il suo relativo declino, identifica il primo nemico contro cui battersi solo ed esclusivamente all’esterno. Il suo programma ultranazionalista è uscire dall’anglosfera per contare di più come Italia da una “posizione neutrale” sul mercato mondiale, a tutela del capitalismo imperialista nazionale mortificato oggi dagli Stati Uniti e dalla UE, con un occhio di riguardo alla piccola e media impresa, mortificata dal capitale finanziario. Che un simile programma, portato avanti in unità con formazioni che assumono il card. Viganò a punto di riferimento culturale e Trump e il trumpismo a fari di civiltà, possa “di fatto” aprire la strada alla transizione al socialismo, è un delirio da disperati (o degenerati). Sono, questi, gli ultimi rantoli della nefasta idea togliattiana di un fronte popolare tra classe operaia e ceti medi produttivi. Dentro una prospettiva ultra-nazionalista del genere, per i lavoratori c’è l’unico destino di soldati della patria in tuta o in divisa per altre memorabili imprese in giro per il mondo. Per le donne, c’è il “welfare familiare” perché stiano a casa a figliare per la patria sovrana. Che deve essere libera – s’intende – dalla “contaminazione” degli immigrati, contro i quali Ancora Italia, perno di quest’alleanza “rosso”-bruna, esprime posizioni infami quanto quelle della Meloni e di Salvini. ISP: una piccola colata di melma che – per quanti si dicono di sinistra – viene da lontano. E sicuramente la cosa sta facendo riflettere a fondo i compagni che avevano nutrito illusioni sul PCI di Rizzo.

Quanto all’Unione popolare di De Magistris, si tratta di un’alleanza (Rifondazione, Potere al popolo, Dema) che è già ben definita dalla scelta del suo capo politico: un demagogo che pretende esprimere “un pensiero nuovo a sinistra” affastellando un po’ di rivendicazioni immediate accattivanti all’interno di una prospettiva di recupero della “sovranità nazionale” declinata in senso pacifista, e con l’immancabile richiamo al “riscatto del Sud”. Anche qui la solita solfa: una sinistra davvero nuova non può limitarsi a parlare a operai e pubblici dipendenti, deve rivolgersi anche “al vasto mondo dei professionisti, delle partite Iva, dei lavoratori autonomi. Dobbiamo pensare anche alle piccole e medie imprese [quelle in cui molto spesso il lavoro viene torchiato a sangue]. Vanno sostenute. Meno burocrazia e più incentivi, se creano lavoro e rigenerazione urbana, riqualificazione”. Spaccio di sinistrismo e popolarismo a buon mercato.

Del resto, in dieci anni di proclami roboanti e pose da “rivoluzionario”, De Magistris non è riuscito a risolvere nessuna delle emergenze sociali e ambientali della città partenopea, a cominciare dalla vertenza dei disoccupati 7 novembre, a proseguire con il problema-rifiuti, la devastazione delle periferie, le condizioni sempre più precarie dei lavoratori del Tpl e delle altre partecipate del comune. Anzi, in nome della “rigenerazione urbana”, ha favorito ulteriormente i processi di gentrificazione con l’espulsione di altri proletari dal centro storico e la sua completa trasformazione in una vetrina a uso e consumo della speculazione immobiliare. Sono forse stati i tagli dei governi centrali a guida Pd ad impedire la vantata “svolta ribelle” nel capoluogo campano, come obiettano i suoi fan? Se così fosse, questo sarebbe il segno più nitido del fallimento della retorica municipalista cara all’ex-sindaco di Napoli, e di quanto siano inconsistenti le declamazioni sulla possibilità di riformare il sistema capitalistico e le sue macchine amministrative partendo dalle “istituzioni di prossimità”. L’unico esito tangibile di 10 anni di amministrazione De Magistris è stata la cooptazione nelle stanze del potere di buona parte delle strutture di “movimento”, dei centri sociali e dell’“estrema sinistra” cittadina, favorendo la spinta alla pace sociale, alla delega alle istituzioni, alla passivizzazione. Altro che protagonismo dal basso!

Se questo è il “modello” prescelto dalle forze riunite in UP, non stupisce il corteggiamento fatto da UP ai Cinquestelle e a Sinistra italiana, alleata del Pd, per dare vita insieme a un “terzo polo” distinto dal Pd nella kermesse elettorale, ma pronto, passate le elezioni, ad allearsi con il Pd per “bloccare le destre”. Uno spettacolo visto e rivisto da decenni che ha fatto danni incalcolabili al movimento proletario, e prodotto sontuosi utili proprio a quel grande capitale che, a parole, si vorrebbe limitare, se non addirittura “colpire”.

E i proletari, che fine hanno fatto?

Una larga (o larghissima?) quota di operai/e e di proletari/e, al pari di molti giovani orientati a sinistra, non voterà per i partiti borghesi né per le formazioni di matrice piccolo-borghese. Un buon segno, da sottolineare. Una prima, embrionale presa di coscienza che in un modo o nell’altro i protagonisti della sarabanda elettorale in corso non hanno nulla di serio da dire a chi è costretto a consumare la propria vita producendo merci e plusvalore per il capitale. Ciò deriva dalla loro natura di classe anti-operaia, e specificamente dal fatto che tutti si rivolgono prioritariamente ai ceti medi e piccolo-borghesi, che costituiscono da sempre la turbolenta massa di manovra per la formazione dei governi del grande capitale, almeno di quelli che passano per le elezioni, e non dalla semi-monarchia presidenziale. Nelle “visioni” di costoro – tutti senza eccezioni, da Letta a Meloni, da Salvini a Paragone, da Calenda a De Magistris – i proletari (cui pure si rivolgono in seconda battuta) non sono altro che strumenti animati di lavoro e/o carne da cannone, tanto più in una crisi verticale del sistema quale l’attuale. Per i lavoratori restare a distanza da simili imbonitori, non farsi incantare dalla loro demagogia, è salutare.

Sull’astensione operaia/proletaria che dovrebbe essere in ulteriore crescita, viene invece messa la sordina. I giornali draghiani/Pd (la Stampa, Repubblica) stanno anzi facendo il tentativo di presentare l’ascesa di FdI come fosse addirittura un prodotto operaio. In due superficiali inchieste su Monfalcone e Mirafiori Griseri la racconta al modo in cui dei suoi pari d’America di fede clintoniana presentarono l’approdo di Trump alla Casa Bianca come se fosse stato portato a spalle lì dai minatori, anziché da potenti frazioni dell’establishment imperialista e dalla marea furente del ceto medio bianco suprematista in preda al panico. Senonché quelle stesse inchieste accertano che i voti operai a Meloni sono per lo più di disperazione – “abbiamo provato tutti, non ci resta che provare lei”. Ragionamenti, spesso, di ex-votanti leghisti delusi. Il voto di molti operai alle destre non è una novità. Rispetto agli anni ‘90 una novità, però, c’è: allora dietro il voto di interi settori operai alla Lega c’era un senso di appartenenza (spesso con la doppia tessera FIOM) attiva, convinta, in certi casi militante. Oggi non ci sono più sedi, né manifestazioni – tutto ha congiurato ad allontanare la massa dei proletari dalla partecipazione attiva alla vita politica, pure a quella delle destre, atomizzandola. Il che dà forza alla tesi menzognera: “è ormai impossibile parlare di ‘classi sociali’. Ne restano giusto frammenti, ormai quasi privi di coscienza e destino” (M. Giannini su La stampa del 28 agosto). Tempo liquido, società liquida, classi liquide, dissolte – resta tutto nelle mani della sola classe solidamente dotata di “coscienza e destino”, quella al potere.

Per noi le cose stanno diversamente. Non vediamo la scomparsa delle classi. Al contrario, siamo al diapason della polarizzazione di classe da decenni. Né vediamo la sospensione degli antagonismi di classe e della lotta di classe. Nessuno ha il potere di decretarla. Certo, oggi in Italia la classe operaia e il proletariato sono frammentati, dispersi, in una condizione di nullità politica. Anche i più combattivi tra i proletari, votino o no, forse sognano di poter tornare ad un normale sviluppo capitalistico. Ma l’inghippo è che una tale possibilità è preclusa. Lo scoppio della guerra tra Nato e Russia in Ucraina rappresenta una svolta da cui non si tornerà indietro. Intrecciata com’è ad altre catastrofi economiche ecologiche sanitarie sociali, segna una crisi, un caos sistemico senza precedenti nella storia del capitalismo. Dopo un secolo ritorna in scena – non diciamo per l’oggi immediato – l’alternativa tra le soluzioni finali radicali: una nuova guerra mondiale o la rivoluzione sociale internazionale. Di questo si discute in alto, se è vero che una fanatica bellicista come la Truss, quasi certamente il prossimo premier britannico, dichiara d’essere pronta a schiacciare il bottone del nucleare, applaudita dai suoi assatanati supporter. Guardate in questa luce, le schermaglie e i sondaggi elettorali per accertare le percentuali che avranno il 25 settembre le diverse componenti della destra, i diversi partiti di Draghi o le forze minori in vario modo “sovraniste”, sono bazzecole di nessun conto. Non sono le urne il luogo delle decisioni fondamentali. E tanto meno il mezzo per il riscatto e la liberazione degli sfruttati.

Noi siamo sicuri che assisteremo anche in Italia all’esplosione della conflittualità di classe tanto a lungo scomparsa, benché non è dato sapere come e dove essa si determinerà. Se con la dinamica ora in corso nel Regno Unito o in altro modo. Se nel prossimo autunno o dopo. Per quel poco che sta a noi, richiamiamo alla necessità di riprendere le lotte, e appoggiamo tutte le iniziative che vanno realmente in questa direzione.

Sul piano politico primario – che è oggi quello della “guerra alla guerra” – lavoriamo insieme ad altri organismi alla costituzione di un’area internazionalista militante che si ponga come punto di riferimento delle risposte di lotta alle politiche belliciste dello stato italiano, della NATO e della UE. Mai come ora, in tempi di guerra, di economia di guerra, di feroci nazionalismi, è discriminante e vitale affermare con forza la comunanza di interessi dei proletari di tutti i paesi. E fare di questo principio storico concreto del movimento comunista il perno della lotta ai capitalisti, ai loro stati, al capitalismo – anzitutto ai “nostri” capitalisti, al “nostro” stato, al “nostro” imperialismo.

Siamo al fianco del SI Cobas che, rompendo con i calcoli elettoralistici di altri settori del sindacalismo di base, ha rilanciato la proposta dell’unità d’azione dei proletari combattivi ovunque collocati, nella prospettiva di un autunno di grandi lotte contro il carovita, la guerra, lo sfruttamento, le devastazioni – un rilancio che assume un significato anche politico per i suoi obiettivi, i suoi bersagli, la sua logica.

E intendiamo intervenire in modo più attivo nello scontro ideologico tra visioni della società contrapposte: è tempo di rafforzare l’iniziativa di contrasto all’Internazionale nera! L’oppressione delle donne non è una questione settoriale, tanto meno di nicchia. E’ una questione generale, anche se in molti stentano a capirlo. Il tentativo di riaffermare con la forza delle leggi e delle ideologie reazionarie il vecchio patriarcalismo in putrefazione va combattuto contrapponendogli la prospettiva di rapporti sociali nuovi, liberati dal comando della merce e dall’oppressione di genere, per una riproduzione sociale in cui finalmente natura e umanità, Nord e Sud del mondo, si possano riconciliare.

Ed è tempo di chiedere ai militanti ecologisti un passo in avanti verso l’inequivoca identificazione del capitalismo come radice ultima delle catastrofi ecologiche in corso, e favorire la confluenza delle loro proteste in un movimento generale volto alla distruzione del capitalismo, prima che il capitalismo distrugga le basi della civiltà umana.

Il lavoro non manca.

3 settembre

Tendenza internazionalista rivoluzionaria