Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
Iran.
La rivolta delle donne, e non solo
Da una settimana l’Iran è percorso da accese e partecipate manifestazioni in decine di città. La protesta di piazza è contro la morte violenta di Mahsa Amini, una giovane studentessa universitaria arrestata martedì 13 a Teheran dalla “polizia morale” e morta il venerdì successivo in un ospedale della capitale. Benché le autorità neghino qualsiasi forma di violenza, i parenti e alcuni legali non hanno dubbi: Mahsa, arrestata per un uso “non appropriato” del velo (qualche ciocca di capelli era scoperta), è stata picchiata e forse torturata in un centro di rieducazione, ed è deceduta a seguito delle violenze subite dalla polizia.
Dopo qualche anno di ammorbidimento dei controlli sotto la presidenza Rouhani (2013-2021), la “polizia morale”, particolarmente invisa – con mille e una ragioni – alle donne, si è sentita autorizzata ad esercitare la propria attività con più zelo di prima a seguito dell’elezione di Raisi, esponente dell’ala più conservatrice del clero islamico. Ai rappresentanti di questa congrega le misure attuali non bastano; pretendono che vengano fissate sanzioni per ogni tipo di violazione dell’obbligo di portare il velo – un obbligo che non ha nessun serio fondamento religioso. E già hanno ottenuto che le amministrazioni e gli enti statali possano licenziare le dipendenti che sui profili social postano immagini non conformi alle “leggi islamiche”. Qualche settimana fa, sempre su pressione degli ambienti più retrivi del patriarcalismo di stato, il governo ha dichiarato che sta lavorando all’installazione di apparecchi per il riconoscimento facciale sui mezzi di trasporto, così da poter identificare le donne che “trasgrediscono”. Sono già 7 anni, del resto, che Teheran ha cominciato a far uso delle carte di identità biometriche – in linea con l’ossessione securitaria dei “nemici” paesi occidentali. Possibile immaginare qualcosa di più soffocante per le donne (e per tutti)? O pratiche e metodiche del genere sono soffocanti solo quando applicate a “noi”, cittadine e cittadini appartenenti alla “razza superiore” di Occidente?
La tragica fine di Mahsa, appartenente ad una famiglia di forti tradizioni religiose e che non era un’attivista della causa delle donne, è stata la scintilla di una nuova, grande protesta di massa in tutto l’Iran. Più forte in Kurdistan, nella sua città natale Saqqez e nella capitale Sanandaj, dove la polizia è stata messa in fuga dai dimostranti; ma vigorosa anche in tante altre città, da Isfahan a Tabriz a Rahst, incluse quelle con una solida tradizione filo-regime come Qom e Mashad. Nel capoluogo dell’Azerbaijan occidentale, Oshnavieh, dove la popolazione è a maggioranza curda, è stato proclamato lo sciopero generale, e pare che i dimostranti abbiano “preso il potere” sbaraccando tutte le autorità istituzionali del luogo. In non pochi centri minori della protesta, come Divandareh e Dehglan, si sarebbero viste vere e proprie scene di guerra con l’uso di armi automatiche da parte della polizia. [Usiamo il condizionale perché sono poche le notizie che ci sono arrivate direttamente dall’Iran; ci serviamo per lo più, come fonti, di militanti anti-capitalisti espatriati dall’Iran che hanno mantenuto contatti interni.]
In prima fila in queste proteste, tuttora vive nonostante la repressione statale abbia fatto decine di morti (oltre 30 quelli ‘ufficiali’) e molte centinaia di feriti, le donne: per lo più giovani donne. La cosa non deve sorprendere. Le donne iraniane ebbero una parte già nella “rivoluzione costituzionale” del 1905, poi nella lotta contro il regime dello Scià, ed ebbero una parte ancora più rilevante nell’insurrezione del 1979 – ma è toccata loro l’amara sorte di essere espropriate dei possibili avanzamenti della propria condizione, legati ai sommovimenti alla cui vittoria avevano contribuito, e relegate ad una posizione di subordinazione, se non di vera e propria minorità sociale. Come ha notato Fatemeh Sadeghi, il regime degli ayatollah ha usato la guerra tra Iran e Iraq per imporre come indiscutibile “il discorso machista secondo il quale i maschi erano destinati a battersi per l’islam e l’onore della nazione, e alle donne spettava occuparsi della casa e dell’educazione dei figli. Questo modo di pensare ha favorito l’accettazione e l’amplificazione di pratiche [umilianti per le donne] come il matrimonio temporaneo, il sigeh, o – in certi strati della società – la poligamia. La morte di molti uomini al fronte ha giustificato queste pratiche” come “doveri patriottici”. Nonostante ciò, la sorda e diffusa resistenza delle donne all’oppressione istituzionale ha prodotto due risultati sorprendenti della massima importanza: per le donne di tutte le classi sociali, il verticale abbattimento del numero di figli, passato da una media di 6,5 nel 1982 ad una media di 2,1 nel 2019; e per le donne dei ceti medi e di piccoli strati del proletariato, la crescita altrettanto verticale dei livelli di istruzione.
L’attuale moto di protesta è un movimento interclassista in cui hanno un ruolo significativo le universitarie. Lo slogan “donne, vita, libertà” ben ne rappresenta le aspirazioni – e viene gridato anche da donne che portano lo hijhab, cosa questa di grande interesse perché indebolisce la falsa linea divisoria tra credenti e non credenti, tra osservanti tradizionalisti e credenti non osservanti delle tradizioni. Alle dimostrazioni non prendono parte, però, soltanto donne e studentesse universitarie dei ceti medi; partecipano anche strati proletari scontenti delle proprie condizioni di esistenza, sono stati gridati slogan come “pane, non velo”, e l’ostilità di massa nei confronti dei luoghi e dei mezzi simbolo del potere ha portato a forme di protesta non esattamente borghesi: piccole barricate, incendio o distruzione di auto della polizia, assalto a municipi e – sembra – a due moschee. Non a caso Raisi ha parlato di “anarchici” (non mancano nelle manifestazioni giovani vestiti di nero al modo dei black bloc), come a suo tempo al-Sisi parlò di “trotskisti”, manovrati dall’estero inutile dire… Lo sfaccendato abituato a misurare il grado di purezza chimica dei movimenti sarà pronto, non ne dubitiamo, a liquidare la protesta come, al fondo, borghese. Ma chi conosca qualcosina della realtà sociale dell’Iran, sa che tra le donne degli strati superiori delle classi medie è invalsa da anni la prospettiva definita dei “progressi sereni” (individuali) attraverso l’accesso all’occupazione (spesso statale), all’istruzione (l’Iran è il paese al mondo con la massima sproporzione, a favore delle donne, tra universitarie e universitari), allo sport, alla musica, al cinema, all’arte, alla poesia, alla lettura, al trucco “esagerato”, etc., e non certo attraverso la lotta radicale di massa, le barricate e gli scontri con la polizia, sfidando manganelli, gas lacrimogeni, proiettili e quant’altro.
Nelle piazze di questi giorni le rivendicazioni più diffuse sono lo scioglimento della “polizia morale”, delle milizie paramilitari, la fine dell’obbligo del velo (bruciarlo in piazza è una forma nuova di protesta, almeno in tempi recenti), la punizione dei colpevoli della morte di Mahsa – ma nelle dimostrazioni si esprime anche una ostilità profonda al potere islamista in quanto tale, con il grido frequente di “morte al dittatore”, “morte a Khamenei”, a preconizzare la fine del regime oppressore. Fiamma Nirenstein, donna di punta in Italia del femminismo imperialista, ricollega le proteste in corso al movimento del 2009 che contestò l’elezione di Ahmadinejad, e che ha rappresentato il momento più alto della tendenza riformatrice e aperta verso l’Occidente interna all’establishment iraniano, sperando che questa volta il movimento riesca a lasciare un segno più profondo.
Sennonché, vedi cocca, questo moto è più radicale di quello del 2009, e di mezzo tra il 2009 ed oggi ci sono stati in Iran movimenti operai e proletari di grande portata. La scena sociale odierna in Iran, determinata dai profondi mutamenti di quella internazionale, non è affatto la replica di quei giorni in chiave ancora più favorevole ai riformatori pro-occidentali (e magari ai sogni revanscisti dei discendenti di Reza Palhevi). Le proteste degli strati sociali più deprivati contro la disoccupazione e l’inflazione del 2017-2018 che hanno coinvolto più di 70 città minori dell’Iran (con 25 morti e almeno 3700 arrestati) e sono stati i primi ad esprimere un rifiuto radicale dell’intero apparato di potere islamista; l’ancor più tumultuosa esplosione del novembre 2019, nata contro il vertiginoso aumento del prezzo del carburante, e divenuta una protesta contro il governo e anche, per la prima volta, contro lo stesso Khamenei, con i dimostranti proletari e diseredati capaci di rispondere alla sanguinosa repressione statale con l’assalto a centinaia di filiali di banche (anche alla Banca centrale); il movimento di scioperi operai nell’industria petrolifera e le proteste popolari per la mancanza d’acqua del dicembre scorso – tutto questo c’è di mezzo tra il 2009 e l’oggi. Difficile, perciò, molto difficile che si realizzi il sogno della Nirenstein e, ben al di sopra di lei, dei vari Biden e Macron che cercano di speculare sull’“intollerabile” uccisione di Mahsa Amini, proprio loro che hanno prodotto e continuano a produrre montagne di cadaveri femminili e maschili in ogni angolo della terra. Mai come ora il loro “umanitarismo” e il loro “femminismo” appaiono osceni, e con scarso mordente.
Il potere iraniano ha così ben percepito la potenza della sfida contenuta in questa nuova rivolta con protagoniste le donne che – dopo un primo tentativo di disinnescare le piazze con le condoglianze alla famiglia di Mahsa, la promessa di serie indagini sull’accaduto, interrogazioni parlamentari, etc. – ha messo in moto un processo di mobilitazione di piazza irregimentata andata in scena ieri, venerdì 23 settembre. E allo stesso tempo si prepara ad incrudelire la repressione, temendo che una qualche forma di cedimento possa incoraggiare il moto sociale ad alzare il tiro, e la sua durata possa essere d’innesco alla scesa in campo della massa del proletariato e degli sfruttati.
Per quanto ci riguarda, siamo dalla parte del moto di ribellione di questi giorni. Le rivendicazioni delle donne sono sacrosante. L’oppressione contro cui si rivoltano intollerabile. Certo, a noi piacerebbe molto che non si limitassero all’obbligo del velo e alla denuncia della nefasta polizia morale (Gast-e Ershad, denominata “pattuglia della morte”), e attaccassero anche tutti gli altri aspetti dell’oppressione femminile, come ad esempio il matrimonio provvisorio o la prostituzione, dolori riservati entrambi alle donne degli strati poveri della società iraniana. Ma poiché siamo contro tutte le forme di oppressione sociale, modesti allievi in questo, e non solo in questo, del Che fare? di Lenin, non restiamo affatto neutrali in questo scontro, certi del suo valore liberatorio, e in aggiunta del fatto che ne prepara e ne evoca uno di carattere ancora più generale, con ancora più donne e ancora più sfruttati in campo di quanti ce ne siano oggi, e con la prospettiva del rovesciamento rivoluzionario della repubblica borghese islamica.
Quelli degli ultimi anni sono stati tutti moti fortemente spontanei perché il potere islamista ha operato dopo il 1979 contro le avanguardie del proletariato e i comunisti rivoluzionari una repressione non meno spietata di quella dello Scià, con un vero e proprio eccidio di militanti rivoluzionari, disperdendo i sopravvissuti ai quattro angoli del pianeta, ed esponendoli nella diaspora, di regola, ad un processo di occidentalizzazione e socialdemocratizzazione. Ma oggi le democrazie occidentali sempre più in crisi e sempre più permeate da “valori” propri dell’Internazionale nera contigui a quelli dei Raisi-Khamenei, hanno ben poco da offrire materialmente e come “modello sociale” sia alle donne iraniane che alle masse iraniane in rivolta, specie alle più sfruttate e oppresse tra loro.
La spontaneità dei moti degli ultimi anni è anche il loro limite, la loro intrinseca debolezza per quanto forti d’impeto e di partecipazione essi siano. Ma la ripresa in grande della attività degli sfruttati e degli oppressi, e delle donne iraniane in rivolta che ne sono parte, costituisce la premessa indispensabile per la riformazione di un’organizzazione rivoluzionaria di partito che sappia accompagnare e guidare quella nuova gigantesca sollevazione che travolgerà gli usurpatori dell’insurrezione del 1979.
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