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[FIRENZE] Le bugie dei “grandi” della moda han le gambe corte. Gli operai: tessile realtà di sfruttamento, rappresaglie e violenza

LE BUGIE DEI “BIG” DELLA MODA

HANNO LE GAMBE CORTE

Dopo l’iniziativa sindacale di fronte al salone #PittiFilati lo scorso giovedì, in cui i lavoratori della #RitorcituraDuemila e della #GH di Prato denunciavano l’indifferenza di #Filpucci, #Millefili, #LanificiodellOlivo,

#Pinori e #IndustriaItalianaFilati di fronte alle condizioni di lavoro nelle loro filiere di fornitura, abbiamo potuto leggere sui giornali locali le dichiarazioni delle aziende committenti.

“E’ falso che il Lanificio dell’Olivo lavori con queste aziende, negli ultimi due anni ho fatto due o tre prove da 1.000 euro su un fatturato di 22 milioni di euro.

Siamo di fronte a un attacco insensato” dichiarava l’ad Fabio Campani.

Faceva eco Raffaella Pinori: “Siamo bersaglio di una strumentalizzazione”, sostenendo che l’ultimo rapporto di committenza con la Ritorcitura Duemila dell’omonimo Gruppo risaliva al 2019 e che si era trattato di un campione da 1.400 euro.

Filpucci, invece, si difendeva così: “Con riferimento all’esercizio 2021 della Ritorcitura, a fronte di un fatturato annuo di circa 600mila euro, quello rivolto verso Filpucci è pari a soli 8.521 euro”.

Non ci ha stupito, però, ricevere in data 27 gennaio, lo stesso giorno in cui queste dichiarazioni apparivano su tutti i giornali, una pec per conto della Ritorcitura Duemila, in cui si definisce la denuncia dei lavoratori davanti al salone internazionale di moda “palesemente diretta a screditare il nome della mia cliente accostandovi anche i di lei clienti strategici quali Filpucci, Industria Italiana Filati, Pinori Filati, Millefili, Lanificio dell’Olivo”.

Secondo la Ritorcitura, l’iniziativa sindacale ha prodotto “ingenti danni (quantificabili addirittura in una diminuzione del 60% del fatturato della mia assistita)”, presumibilmente legati alla sospensione delle commesse da parte di quegli stessi committenti ora impegnati a negare ogni rapporto con il proprio terzista.

Arrivando addirittura ad agitare lo spettro di licenziamenti e cassa integrazione dovuti alla “fuga” dei loro committenti strategici.

Delle due l’una: o queste aziende non hanno rapporti – o, se ce li hanno, si tratta di campioni – con la ditta montemurlese, oppure si tratta di “clienti strategici”, le cui commesse rappresentano il 60% del fatturato dell’azienda.

La verità, ancora una volta, è quella denunciata dai lavoratori: anche nelle filiere del c.d. “distretto dell’eccellenza” – quello dei codici etici e della presunta sostenibilità – si nasconde lo sfruttamento.

Ogni volta che in questi anni abbiamo raccontato una verità scomoda siamo stati accusati di essere bugiardi e strumentalizzatori.

Ci siamo abituati.Ma questa volta le bugie (quelle dei “big” della moda) hanno avuto le gambe davvero cortissime.

È l’ora di finirla con le ipocrisie. I committenti si assumano le proprie responsabilità.

La rappresentante del Consorzio Promozione Filati di Confindustria Toscana Nord si chiede “quali strumenti possano essere messi in atto rispetto alle condizioni di lavoro in cui opera il personale delle lavorazioni”, sostenendo di non poter “certo fare il giro di tutte le lavorazioni e intervistare i lavoratori entrando in una proprietà privata”.

La questione può essere sintetizzata così.

Per tutto l’anno queste aziende inventano mille e più uno modi per vantare pubblicamente la propria capacità di controllo della filiera come garanzia di sostenibilità sociale.

Poi, il giorno che dei lavoratori terzisti denunciano di essere sfruttati, scopriamo dalle stesse aziende committenti che non hanno nessuna capacità di controllo e non possono garantire nulla sulla regolarità del lavoro presso i terzisti.

Per noi le cose sono due: ai committenti resta la responsabilità di intervenire per garantire i diritti nelle proprie filiere.

O, se non ne sono capaci, che internalizzino le lavorazioni e assumano alle proprie dipendenze chi fino ad oggi è stato “sfruttato conto terzi”.

Cioè per conto loro

.Queste aziende dicono di essere gli ambasciatori internazionali del “Made in Italy”: qualcuno vuole davvero che questo marchio diventi sinonimo di sfruttamento?

30 gennaio

S.I. Cobas Prato e Firenze


LA VOCE DEI LAVORATORI SFRUTTATI

DEL “MADE IN ITALY”

su Il Fatto Quotidiano

In occasione di questa edizione di Pitti Filati, il consorzio Feel the Yarn ha lanciato il concorso #FeelThePeople, per promuovere la responsabilità sociale nelle filiere di produzione.

Ma del consorzio fanno parte proprio Filpucci, Pinori Filati, Lanificio dell’Olivo SpA, Millefili, Industria Italiana Filati Spa: per produrre i loro filati, questi operai hanno fatto turni di 12 ore per 7 giorni la settimana, hanno lavorato a nero e senza i più elementari diritti come la malattia o le ferie.

Sono infatti tutte aziende committenti della Ritorcitura Duemila e/o della Gh, dove da mesi sono aperte vertenze per rivendicare contratti da 8 ore per 5 giorni la settimana.

Sappiamo che chi compra il MADE IN ITALY pensa che sia diverso dal MADE IN PAKISTAN, IN CHINA, IN BANGLADESH… che sia sinonimo di diritti ed etica del lavoro.

Ma a Prato, a 15 minuti dal salone di Pitti Immagine, migliaia di lavoratori pakistani, bengalesi, cinesi, africani, lavorano nelle stesse condizioni di sfruttamento di chi produce filati nel “terzo mondo”.

Cosa vuol dire allora MADE IN ITALY, se questi grandi brand dei filati si disinteressano delle condizioni di lavoro nelle loro filiere, appaltando le lavorazioni a piccole aziende – veri e propri sweatshop – in cui vengono sfruttati?

Se davvero l’obiettivo è FEEL THE PEOPLE, queste aziende devono immediatamente intervenire per la regolarizzazione dei loro terzisti e dei lavoratori che producono i loro filati, e quindi di rispettare davvero i loro “Codici etici”, facendo sì che non siano solo carta straccia.

Grazie a Pietro Barabino per il servizio:

https://www.facebook.com/SiCobasFirenze/videos/1916812692009882

28 gennaio

S.I. Cobas Prato e Firenze