Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
Israele:
la strage dei giovani palestinesi ribelli
(nel silenzio del mondo di sopra)
Appare oggi (23 febbraio) sui giornali l’esito dell’ultima operazione condotta ieri dall’esercito di Israele nella città di Nablus per assassinare (il termine robotico è: neutralizzare) i giovani palestinesi Hussan Assalim e Walid Dachil, militanti della Fossa dei Leoni, e Muhammad Alà Fatah, membro della Jihad islamica, accusati di essere coinvolti in attacchi armati anti-israeliani. Poiché a presidio della casa in cui i tre militanti erano asserragliati e avevano deciso di resistere erano accorse molte persone, per poterla abbattere l’esercito israeliano ha falciato altri 8 palestinesi e ne ha feriti 102.
Questa tipica operazione da truppe di occupazione coloniale – contro cui è ora in corso uno sciopero generale in tutta la Cisgiordania – è soltanto l’ultima di una serie che ha fatto dall’inizio dell’anno 61 morti tra i palestinesi, in gran parte giovani o giovanissimi. Solo per ricordare i caduti dell’ultimo mese: il 20 gennaio, a Jenin, viene colpito a morte Adham Jabarin, e insieme con lui un insegnante, Jawad Bawakna, colpevole di aver soccorso Jabarin morente. Il 25 gennaio nel campo profughi di Shuafat (Gerusalemme Est) un palestinese è ucciso durante una protesta volta a impedire la demolizione della casa di Uday Tamini, un giovane militante della lotta armata. Il giorno dopo, a Jenin, 9 palestinesi vengono uccisi in un’operazione terroristica di cosiddetto anti-terrorismo, lo stesso giorno in cui moriva a Gaza un ragazzo di 13 anni, Nayef Oweidat, vittima dei bombardamenti sulla città dell’agosto scorso (che uccisero 17 ragazzi). Il 6 febbraio, nel campo profughi di Aqabet Jaber (Gerico), 5 giovani palestinesi combattenti sono assassinati in un raid dell’esercito di Israele, e i loro corpi portati via per sfregio. Il 9 febbraio, nella zona orientale di Nablus, viene ucciso Hamza Ashkras, 17 anni. Due giorni dopo un altro giovane, Hassan Rabaya, è assassinato nei pressi del campo profughi di Al Fawwar (Hebron). L’11 febbraio un gruppo di coloni attacca i palestinesi a Qarawat Bani Hassan uccidendo Mithkal Rayan. Il 13 febbraio unità militari israeliane uccidono nel campo profughi di Jenin Qusay Waked, di 14 anni, mentre nello stesso giorno muore a Nablus Amir Ihab Bustami, 21 anni. Il giorno successivo, nel campo profughi di Faraa, l’esercito israeliano uccide Mahmoud Al Ayidi, anni 17. Il 20 febbraio nel campo profughi di Balata (Nablus) cade, colpito alla testa dall’esercito, Muntaser Ashua, 16 anni. Nel mezzo di questa catena di esecuzioni e uccisioni la rappresaglia a Gerusalemme Est di un giovane attentatore palestinese, Alkam Khairi, senza nessuna affiliazione politica, a sua volta ucciso dalla polizia, con 8 morti ebrei.
Da almeno un anno i governi e l’esercito israeliano hanno riattivato alla grande la pluridecennale politica di “eliminazione mirata” che ha come bersaglio i gruppi di giovani ribelli palestinesi armati nati dopo l’Intifada dell’unità del maggio 2021 – i più noti, ma non certo i soli, sono il Nido delle vespe, che ha il suo centro di organizzazione nel campo profughi di Jenin, e Areen al-Ususd (La Fossa dei Leoni) basata a Nablus. Ciò che accomuna questi gruppi è la convinzione che ormai i palestinesi “non hanno nulla da perdere”, essendo definitivamente tramontata la prospettiva “due popoli, due stati”. Questa ipotesi, ogni tanto evocata in modo vuoto dalla diplomazia internazionale, è divenuta da molto tempo addirittura ridicola dopo che il territorio palestinese è stato ridotto dallo stato di Israele e dal movimento dei coloni a meno del 2% di quello originario, ed è per di più totalmente frammentato – con l’eccezione del bantustan-carcere a cielo aperto di Gaza.
La massiccia Intifada dell’unità è stata, in effetti, una svolta sociale e politica nella storia della resistenza delle masse oppresse palestinesi allo stato di Israele. Perché è stata la prima ad intrecciarsi con uno sciopero generale, e la prima ad imporre “dal basso” che le divisioni politiche che oppongono tra loro le diverse fazioni palestinesi, fossero lasciate in secondo piano. Come ha scritto Mariam Barghouti, quella sollevazione ha messo in luce come tanto la corrottissima Autorità nazionale palestinese intorno ad Abbas, quanto la stessa dirigenza di Hamas, “mostrano una crescente disconnessione dalla realtà vissuta palestinese, così come le strutture diplomatiche in base alle quali i leader [di al-Fatah e Hamas] operano al fine di garantire la propria sopravvivenza, rilevanza, o controllo frazionale”.
L’epicentro della resistenza palestinese al colonialismo israeliano si è inesorabilmente spostato sempre più a fondo nelle masse sfruttate e nella componente giovanile di esse, mentre la storica burocrazia collaborazionista e privilegiata di al-Fatah è sempre più screditata e odiata, e la dirigenza di Hamas continua a perdere quel credito che aveva conquistato sul campo di battaglia, e ad agire sempre più come una normale autorità amministrativa che distribuisce i sussidi che arrivano dai monarchi “benefattori” del Golfo o, meno, dall’Iran. Tanto al-Fatah che Hamas sono accusate di rimanere passive quando Israele compie le sue “eliminazioni mirate” in Cisgiordania o nella striscia di Gaza, e qualche volta perfino a collaborare con il nemico, o comunque a prendere di mira, con arresti e perfino con attentati (è successo a Jenin ad Abu Daboor), i giovani militanti della causa palestinese che hanno deciso di intraprendere la lotta armata contro l’occupante.
Ancora Mariam Barghouti: “L’aspirazione della popolazione palestinese a vivere in modo indipendente, libero e con il controllo sul proprio destino è il principale motore di questo periodo di scontro armato. Ma mentre i riflettori sono ora puntati sui gruppi armati, la popolazione palestinese in generale si è impegnata in un confronto aperto con le autorità israeliane. L’impunità della violenza dei coloni e la persistente espansione degli insediamenti non fanno che alimentare la rabbia e il risentimento e provocare una marea di inquietudine collettiva”.
Sulla violenza terroristica dello stato di Israele e dei suoi coloni, il “mondo di sopra”, sia quello di Biden e Meloni, sia quello di Putin e Xi, non ha nulla da dire, se non, nel primo caso, condannare “inorriditi” qualche occasionale rappresaglia palestinese, e nel secondo, al massimo, raccomandare ad Israele di non eccedere nella sua brutale violenza. Ma anche nel “mondo di sotto” la disattenzione, se non l’indifferenza, si sono fatte strada. Muovendoci anche in questo campo controcorrente, noi torniamo invece ad affermare che con il passare dei decenni e la crescente differenziazione di classe della società palestinese, la causa nazionale palestinese e il suo contenuto sociale non solo anti-coloniale ma anche anti-borghese, si stanno sempre più strettamente intrecciando. Non siamo già all’aperta lotta di classe contro le leadership borghesi corrotte o addomesticate, ma la traiettoria è segnata – per quanto la parola d’ordine dell’unità nella lotta a Israele contenga ancora l’illusione di un accordo generale e trasversale alle fazioni politiche ed anche (forse) alle diverse classi sociali che sarebbe, invece, la fine di questo risveglio della lotta palestinese, armato e non armato.
Quanto poi ai cittadini israeliani che in queste settimane stanno riempiendo le piazze israeliane contro la riforma della giustizia voluta da Netanyahu, che sottomette la magistratura all’esecutivo, ha perfettamente ragione Gideon Levy a dire ai dimostranti: supponiamo che vinciate voi contro Netanyahu. E poi? “Anche se ce la doveste fare, a restare in piedi non sarà la democrazia, bensì l’apartheid”. Fin quando la parte non sfruttatrice della società israeliana resterà indifferente all’oppressione dei palestinesi, le toccherà in sorte di sperimentare giorno dopo giorno una crescita di dispotismo dei propri governanti anche nei loro confronti. Militarismo chiama dispotismo. Questo, le centinaia di coraggiosi refusnik (sarvanim) israeliani l’hanno compreso da tempo. Troppo poco, però, troppo poco perché possa diventare concreta la prospettiva di una solidarietà tra la parte non sfruttatrice, e soprattutto quella sfruttata, della società israeliana, che non si riduce certo a 600-700 persone, e le masse oppresse della Palestina. Eppure non c’è altra via d’uscita da questa interminabile guerra e dalle connesse tragedie, senza che lo stato coloniale di Israele venga spezzato, e sulle sue rovine e su quelle dei non meno dispotici regimi borghesi arabi, fiorisca quella Federazione sovietica dei popoli liberi del Medio Oriente antivista dalla superba Terza Internazionale dei primi anni – la sola nella quale potranno convivere in pace lavoratori arabi ed ebrei.