Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
La rivoluzione d’Ottobre,
primo attacco a tutto campo
all’oppressione della donna
Il poster (del 1920) dice: “ecco ciò che la rivoluzione di Ottobre ha dato alle donne operaie e contadine” – in primo piano i simboli del lavoro extra-domestico (il martello, la falce); in secondo piano, indicati dalla mano della donna, gli asili, le biblioteche, i circoli delle lavoratrici.
In tempi in cui potenti meccanismi sistemici agenti sulla nostra psiche cercano di cancellare del tutto la funzione della memoria, in tempi di corrosivo revisionismo storico anti-comunista, ci è sembrato utile invitare chi ci segue ad un ripasso della storia reale, non adulterata, del movimento rivoluzionario proletario che da quasi due secoli si batte contro il capitalismo e sempre riemerge come la fenice dalle proprie ceneri. In questo testo si spiega che nella storia dell’umanità il primo assalto a tutto campo alla condizione di oppressione della donna è avvenuto solo con la Rivoluzione di Ottobre – è forse il caso di ricordare a certi disperati o mascalzoni matricolati che osano scambiare Putin per un Che Guevara o un Lenin del XXI secolo che il “modello di società” putiniano-meloniano è letteralmente antitetico, anche in questo campo, a quello della Rivoluzione d’Ottobre? No, non servirebbe a nulla. Ma ai giovani che si affacciano oggi alla militanza conoscere bene il passato della rivoluzione e della controrivoluzione serve, e come! (Red.)
Nel momento in cui inizia a prender forma di nuovo un embrione di movimento di lotta mondiale delle donne, è utile tornare sulla sola grande esperienza avveniristica del passato che si pose il compito della integrale liberazione della donna: la rivoluzione proletaria d’Ottobre. Negli anni 1917-1923 essa gettò in Russia, nelle condizioni più avverse, le premesse giuridico-politiche e “ideali” di tale liberazione. Il trionfo della controrivoluzione non le diede il tempo e il modo di andare oltre le prime premesse e alcuni arditi esperimenti, ma quanti preziosi insegnamenti se ne ricavano tutt’oggi!
Rivoluzione francese e Comune di Parigi
C’è una netta linea di demarcazione tra la politica della rivoluzione borghese e quella della rivoluzione proletaria nella “questione femminile”, e prima dell’Ottobre l’ha tracciata la Comune di Parigi.
La rivoluzione francese attrasse le donne nel movimento generale anti-feudale, ma solo per conferire loro il titolo puramente onorifico di cittadine (di secondo rango) senza né libertà né eguaglianza con i veri e soli cittadini, i proprietari borghesi dell’altro sesso. Le risvegliò, certo, ma allorquando le loro avanguardie più combattive andarono a dare man forte agli arrabbiati e ai proto-comunisti di Babeuf, le rispedì brutalmente a casa sopprimendo i loro club e condannando la loro attivizzazione politica come contraria alla natura (e cioè: alla natura del nuovo ordine sociale borghese). “Non è pensabile che le donne esercitino i diritti politici. Da quando in qua è consentito alle donne di abiurare il loro sesso? Di diventare uomini? Da quando in qua è dignitoso vedere delle donne che abbandonano le pie cure della casa, la culla dei figli per venire sulla pubblica piazza, alla tribuna, nell’arengo a compiere dei doveri che la natura ha attribuito agli uomini?”. Parole non di un bilioso feudale spodestato, ma del portavoce della Convenzione, la stessa che negò i più elementari diritti politici agli operai e ai popoli coloniali, esplicitando fin dall’inizio la reale e immodificabile sostanza di oppressione di classe, di razza e di sesso del preteso universalismo giuridico borghese.
La Comune, invece, fece appello all’unione fraterna dei proletari e delle proletarie per realizzare il totale rivolgimento dei rapporti sociali borghesi, sopprimere tutti i privilegi, ogni forma di sfruttamento, e sostituire “il regno del lavoro a quello del capitale”. E coerentemente organizzò le donne, e sollecitò le donne ad auto-organizzarsi, perché partecipassero in prima persona all’instaurazione e alla difesa, anche militare, della prima forma storica di dittatura del proletariato. Che fu anche la prima forma di potere politico a prendere delle misure per demolire la struttura della famiglia tradizionale entro cui la donna era asservita, a avviare in massa le donne al lavoro produttivo extra-domestico, a socializzare delle quote di lavoro domestico, a parificare i figli naturali e quelli legittimi. In poche settimane la scena pubblica di Parigi fu così ripulita dalle legioni di prostitute-cocottes, le schiave di lusso delle classi sfruttatrici, che l’infestavano degradando l’immagine sociale della donna, e conquistata dalle “vere donne di Parigi, eroiche, nobili e devote come le donne dell’antichità” (Marx). Le donne ribelli, combattenti per sé e per tutto l’esercito degli sfruttati, che solo la rivoluzione comunista non ha ragione di temere, ma sa e deve chiamare alla propria causa, che è la loro stessa causa.
Questo stesso processo si riprodusse ad una scala più ampia di tempo e di numeri nel corso della rivoluzione russa. Di mezzo vi era stata, in Russia, in Germania e in altri paesi d’Europa, l’opera di propaganda e di agitazione a favore dell’emancipazione sociale della donna compiuta dalla Seconda Internazionale sia tra le masse femminili che nel proletariato. Un’opera efficace, che molto si giovò dei contributi storici e teorici di Engels e di Bebel, pur se tutt’altro che unanime, date le resistenze organiche delle tendenze riformiste interne all’Internazionale già alla semplice piena parificazione di diritti tra uomo e donna, e tanto più al massiccio ingresso delle donne nel vivo della lotta al capitalismo e alla sua istituzione familiare. Nonostante questo boicottaggio, nonostante i costumi millenari che avevano plasmato la donna alla passività e all’obbedienza ai suoi signori e padroni, in Russia l’apporto del proletariato femminile alla rivoluzione fu forte e determinante; non solo nel delegittimare lo zarismo e il suo mondo vetero-patriarcale, ma proprio nella fisica demolizione di esso e nella creazione del potere sovietico. Perciò, a differenza di una certa critica di parte femminista, noi non vediamo nelle misure rivoluzionarie prese dalla Russia sovietica “in favore della donna” la graziosa elargizione statale fatta dall’alto a una componente sociale immobile e chiamata dal nuovo potere all’immobilità, ma il frutto del rivolgimento rivoluzionario del proletariato mondiale nel suo insieme e, inseparabilmente, dell’azione svolta da un’agguerrita avanguardia di donne inquadrate o influenzate dal partito bolscevico e dalla Terza Internazionale, protese a risvegliare le masse femminili ad una nuova forma di esistenza. Nonché, si capisce, l’esito di una battaglia delle donne (operaie e non) mai estintasi, nonostante le grandi difficoltà, prima e dopo la Comune.
Parità giuridica e lotta all’economia domestica
Il primo passo del potere sovietico fu, naturalmente, l’abolizione di tutta la legislazione discriminatoria nei riguardi della donna. Due decreti del 19 e 20 dicembre 1917 tolsero al marito quelle prerogative di capo della famiglia, che in un paese come l’Italia, in cui si continua a sputare veleno sulla rivoluzione russa ogniqualvolta si può (soprattutto da sinistra), sono rimaste in vigore fino a vent’anni fa. Per la prima volta fu riconosciuto alla donna il “completo diritto all’indipendenza economica e sessuale”. La donna potè decidere se conservare o meno, sposandosi, il proprio nome, e dove eleggere il proprio domicilio. Il divorzio fu reso più agevole, poiché a provocarlo era sufficiente la volontà di uno solo dei coniugi. Fu del pari facilitata la possibilità di ricorrere all’aborto con un’adeguata assistenza. Fu tutelato il diritto della donna a vedere riconosciuti i propri figli naturali e costretti i relativi padri a pagare gli alimenti. La piena parità con l’uomo in fatto di diritto al voto era stata conseguita già nella rivoluzione di febbraio; e anche in questo caso fu la Russia rivoluzionaria, non la Gran Bretagna patria del suffragismo piccolo-borghese, il primo, grande paese al mondo a introdurla. Ma il valore di questa completa, e fino ad allora inaudita, eguaglianza nei diritti tra l’uomo e la donna non venne affatto enfatizzato, poiché era chiaro ai bolscevichi che le sole leggi non potevano bastare a modificare il ruolo della donna nella divisione sociale del lavoro; bisognava attaccare, e a fondo, questa stessa divisione classista e sessista del lavoro. Lenin, giugno 1919:
“La donna, nonostante tutte le leggi liberatrici, è rimasta una schiava della casa, perché è oppressa, soffocata, inebetita, umiliata dai piccoli lavori domestici, che la incatenano alla cucina, ai bambini e ne logorano le forze in un lavoro barbaramente improduttivo, meschino, snervante che inebetisce e opprime. La vera emancipazione della donna, il vero comunismo incomincerà [si noti bene] soltanto allora, dove e quando incomincerà la lotta delle masse (diretta dal proletariato che tiene il timone dello Stato) contro i piccoli lavori dell’economia domestica, o meglio dove incomincerà la trasformazione in massa di questa economia nella grande economia socialista.”
Ecco il grande compito economico-sociale che la rivoluzione proletaria si diede: la lotta contro la meschina, soffocante gabbia della piccola economia domestica. Un compito di importanza, e di difficoltà, ben superiore a quello della parificazione giuridica. Perché solo con la soppressione del lavoro domestico femminile (e non certo con la sua remunerazione) la donna potrà esser restituita alla pienezza della sua naturale socialità e a un rapporto con l’uomo che non sia soltanto tra eguali, bensì anche e primariamente tra liberi. E perché tale soppressione può avvenire solo all’interno di un’economia socialista, la cui instaurazione il marxismo non statalista di Lenin assegna alla lotta “dal basso” degli sfruttati (di entrambi i sessi) non meno che alla leva del potere proletario sovietico, e per la quale la abolizione della proprietà giuridica della terra e delle fabbriche era condizione necessaria, ma non sufficiente. [Una tale soppressione è, invece, impossibile al capitalismo, anche al capitalismo più sviluppato e accentrato, che infatti non ha abolito, bensì maggiormente funzionalizzato a sé e meccanizzato, la schiavitù del lavoro domestico; e che per questo non può far attingere alla donna la reale eguaglianza con l’uomo neppure al semplice livello salariale, condannandola, oggi come ieri, a fungere da forza-lavoro di riserva o di secondo rango; e che, nel mantenere la donna in questa duplice condizione di inferiorità sociale, la mantiene anche nella condizione di oggetto sessuale, passivo o “auto-attivo” al modo dei burattini, sempre e comunque al servizio delle superiori esigenze del maschio individuale o della “collettività dei maschi”, a loro volta alienati da sé stessi e dalla propria “essenza umana” – questi tre “aspetti” dell’oppressione della donna sono tra loro, in concreto, inseparabili e altrettanto fondamentali per definire la condizione complessiva di soggezione sociale della donna nel contesto del capitalismo. Il riformismo, invece, ha preteso che bastasse assicurare alla donna il lavoro da salariata fuori della casa per far decadere in modo automatico anche gli altri aspetti della sua oppressione. Quanto tale impostazione sia mistificante l’abbiamo sotto i nostri occhi.].
Ma in Russia la rivoluzione non si limitò a darsi il compito di sopprimere il lavoro domestico solo al mero livello programmatico. Sebbene nelle condizioni di arretratezza, indicibile miseria e disorganizzazione conseguenti alla guerra e alla guerra civile che l’isolamento internazionale esasperava, avviò la costruzione di mense comunali, lavanderie collettive, giardini e nidi d’infanzia, etc., indispensabili per trasferire realmente alla società quelle funzioni di allevamento della prole e di cura alle persone che nello straricco Occidente dei nostri giorni vanno sempre più riprivatizzandosi (senza esser mai diventate effettivamente sociali nei fini e nei mezzi). In taluno di questi asili si sperimentarono anche nuovi metodi di trattazione dei problemi della vita (e della morte) scevri dalle paure, dalle angosce competitive, dalle morbosità che tuttora inibiscono la sana e gioiosa crescita dei nostri bambini, tanto estrogenizzati nel fisico quanto atrofici di mente e di sentire. E “il lavoro per organizzare tutte queste (nuove) istituzioni” toccò innanzitutto alle donne, chiamate ad organizzare esse stesse, in unità d’intenti e d’azione con l’avanguardia comunista del proletariato, le condizioni della propria liberazione.
Finalmente protagoniste della vita politica!
Senza nessuna forma di tappismo, la progressiva abolizione del lavoro domestico individuale doveva andare avanti di pari passo con l’aprire alla donna, e in primis alla donna proletaria, un sempre più vasto campo di attività sociale e di azione politica, un campo che nelle società divise in classi le è stato e le è regolarmente precluso. Ecco un altro aspetto essenziale del rivoluzionamento globale nella condizione della donna che la rivoluzione socialista, e solo essa, ha delineato e avviato. Ancora Lenin, settembre 1919:
“Noi diciamo che l’emancipazione delle operaie deve essere opera delle operaie stesse (…). Nella vecchia società capitalistica, per occuparsi di politica occorreva una preparazione specifica [è tanto più vero in quella decrepita dei nostri giorni –n.]; la partecipazione delle donne alla politica era perciò insignificante perfino nei paesi capitalistici più avanzati e più liberi [e lo è tutt’oggi, se si eccettua un pugno di “donne” possidenti o professioniste “di ferro”, con il prione dell’imperialismo incorporato in ogni loro cellula, quali la Thatcher o la Albright –n.]. E’ nostro compito rendere la politica accessibile ad ogni lavoratrice.”
Rendere cioè le lavoratrici, non solo le lavoratrici appartenenti al partito, ma anche “quelle senza partito e meno coscienti”, protagoniste della vita sociale e politica nuova. Una fiducia nelle donne, o nelle operaie in quanto donne, come soggetto rivoluzionario in sé? Niente di così puerile. Bensì l’espressione della fiducia nella possibilità di liberare le enormi capacità creative presenti nelle donne in quanto sfruttate e oppresse (quelle capacità che il capitale, et pour cause, ha terribilmente compresso e mortificato) nella misura in cui esse entrino a far parte del più generale moto anti-capitalistico. E l’espressione della convinzione che non si dà né rivoluzione proletaria, né avanzamento al socialismo e al comunismo dopo la presa del potere, senza la più ampia, attiva, diretta partecipazione politica delle masse, e delle masse femminili, sotto l’aiuto e la guida del proletariato comunista e del partito di classe. L’intera conversazione di Lenin con C. Zetkin è attraversata, dominata da questo tema, e nel contempo dalla percezione e dalla critica delle resistenze a farlo proprio fino in fondo da parte dell’Internazionale nel suo insieme. Resistenze in cui è evidente l’eco dell’attitudine opportunista e conservatrice verso la lotta di liberazione delle donne presente nella Seconda Internazionale, le cui radici oggettive sono oggi tutt’altro che recise.
Rivoluzione sociale e rivoluzione sessuale
Si è obiettato negli anni ’70 che, per quanto avanzato e avveniristico fu l’Ottobre, non arrivò al punto da mettere in discussione e rivoluzionare il ruolo sessuale della donna. E che per questa ragione è superato. Ci permettiamo di dissentire, e il dissenso inizia dalla stessa concezione del sesso.
Se il sesso non è visto come una parte a sé, come una funzione a sé stante, dell’individuo singolo dell’uno o dell’altro genere, una funzione puramente fisica e biologica, del tutto o quasi indipendente dalle circostanze sociali “esterne”, ma è visto, come si deve, quale una dimensione, un’energia istintuale, naturale e sociale, fisica e affettiva che attraversa l’intero essere umano femminile e maschile, un’energia vitale che ha bisogno di potersi di continuo esplicare, soddisfare e rigenerare nel rapporto con l’altro sesso, che si esprime e rigenera in strettissimo collegamento, e dipendenza anche, dalle più generali condizioni di esistenza degli individui; allora è possibile affermare che la rivoluzione d’Ottobre è stata la prima, nella storia, a concepire e avviare, nel contesto del più generale rivoluzionamento dei rapporti politici ed economico-sociali alla scala mondiale, un autentico rivoluzionamento in senso naturale e umano nel rapporto tra i sessi e nel rapporto con la sessualità.
Una donna più sciolta dai ceppi del matrimonio coercitivo e delle tradizioni del vecchio patriarcato, meno dipendente sul piano economico dal “suo” uomo o dai “suoi” uomini, una donna che incomincia a trasferire alle strutture sociali una parte almeno del proprio carico di lavoro domestico e il compito di educare i propri figli, una donna che non è più esclusa, sottovalutata e avvilita sulla scena della vita sociale e politica, quale è quella che la rivoluzione comunista internazionale comincia a “disegnare” nelle per molti versi proibitive condizioni della Russia del dopo-Ottobre, è una donna più libera di vivere la sua sessualità in modo pieno e appagante, poiché più piena e appagante è la sua esistenza. Come donna collettiva e come donna singola: i due aspetti insieme stanno o insieme cadono, poiché indissolubile è il legame tra la condizione economico-sociale, umana e sessuale della donna e delle donne.
Prendiamo l’esempio della lotta alla prostituzione, che non è affatto un aspetto settoriale e secondario. Nella società borghese, massimamente nella società borghese putrescente attuale, la prostituzione è un’istituzione centrale dei costumi sociali, cioè dei rapporti sociali. Le edicole, la tv, le strade esibiscono in tutte le più diverse gamme e qualità la normalità, la ineliminabilità, finanche la desiderabilità, il fascino della prostituzione, soprattutto se d’alto bordo. La prostituzione è, s’intende, donna. E attraverso la sua incessante esibizione sociale il capitale vampiro e satiro ricorda incessantemente alla donna la sua funzione di oggetto e la sua “natura” di merce in vendita. Ricordati donna che, dopotutto, sei solo una figa e, alla fin fine, una troia, e se non sei né una figa né una troia, non sei proprio nulla: è questo il messaggio ossessivo, non esattamente esaltante, che la borghesia invia alle donne, a tutte le donne, non solo alle candidate-prostitute (e che invia contemporaneamente anche agli uomini, ai proletari per primi, per educarli alla sopraffazione, all’uso, al disprezzo, all’antagonismo nei confronti della donna, un antagonismo che dimezza la forza anti-capitalista del proletariato). La prostituzione esprime in modo “puro” il rapporto di potere e mercantile che regola, nella società borghese, lo scambio diseguale ed estraniante tra i sessi. E’ ben per questo, per la sua funzione di stabilizzatore dell’ordine di classe capitalistico, che nessuno si sogna di poterla, nel mondo d’oggi, sopprimere. Si blatera, al più, a destra e a sinistra, di regolamentarla, salve poi le dinamiche spontanee che fanno saltare ogni sorta di regolamentazione (per dire: ad onta di tutte le filippiche “moralizzatrici”, non c’è neanche uno degli ipercattolici quotidiani di provincia, magari di proprietà curiale, che non faccia propaganda in un modo o nell’altro all’industria della prostituzione, poiché la sola morale cui in effetti obbedisce è quella del mercato, e il mercato del sesso tira).
Ebbene: solo la rivoluzione proletaria si è posta il compito di aggredire le cause della prostituzione e quindi di debellarla definitivamente. E come si conviene ad una rivoluzione, ha criticato e radicalizzato lo stesso concetto di prostituzione così come fabbricato dal pensiero borghese, mettendo in discussione la distinzione ipocrita tra la prostituta e “la moglie legale che vive a spese del marito” e gli dà in cambio il suo corpo e le sue carezze. Quanto alle cause, il marxismo detesta cercarle nella “eterna natura” della donna; le cerca, le ha trovate, nella miseria che affligge moltitudini di donne, oggi innanzitutto nei continenti di colore, nella dipendenza economica della donna dall’uomo, nel matrimonio monogamico coatto produttore di infelicità e frustrazioni, nella generale mercificazione delle relazioni umane propria del capitalismo. In Russia il partito comunista dichiarò la guerra aperta a queste cause rimaste attive e, purtroppo, perfino acuitesi nel corso della guerra civile seguita all’instaurazione del potere sovietico, imponendo il lavoro produttivo alle prostitute (altro che diritto o libertà di “scelta” di mettere in vendita il proprio corpo!), aprendo alle donne la via del lavoro extra-domestico, cancellando le leggi discriminatorie nei loro confronti, spezzando le sbarre del matrimonio coatto, e propugnando una nuova morale nei rapporti uomo-donna che non fosse più patriarcale e mercantile, ma cameratesca e solidale -sebbene con l’enorme contraddizione di doverlo fare in un contesto in cui la stessa rivoluzione proletaria, confinata nella Russia arretrata, era costretta a sviluppare un minimo di capitalismo moderno, e a sforzarsi di tenerlo al guinzaglio in operosa attesa della diffusione mondiale del processo rivoluzionario-. E’ vero che, anche in questo campo, il potere sovietico potè appena cominciare, tra non poche contraddizioni al suo interno, l’opera di radicale riscatto e rigenerazione comunista della donna in quanto tale, non solo della prostituta, e -naturalmente- dell’uomo, contenuta nel programma bolscevico, e nostro, di lotta alla prostituzione. Chiamiamola pure, perciò, una semplice ouverture, suonata per giunta in un paese a stragrande maggioranza di contadini non proprio avvezzi e spontaneamente consenzienti a sinfonie del genere. Ma, ragazzi miei, che musica!
Ragionando su tutte queste trasformazioni, W. Reich vede giustamente nella Russia rivoluzionaria l’inizio, o almeno il germe sano, di una vera e propria rivoluzione sessuale che alla morale sessuale capitalistica di tipo “sessuo-negativo“, che nega la sessualità restringendola alla sua funzione procreativa (1) e ad un tempo la degrada per mezzo della compravendita dei corpi femminili o attraverso la tutela del potere di possesso patriarcale e violentante dell’uomo, oppone una morale sessuale di tipo positivo, “sessuo-affermativa“, affermatrice della vita e di una nuova vita. Che rifiuta tutte le false antitesi borghesi, cultura-natura, lavoro-amore, socialità-sessualità, moralità-sessualità, procreazione-piacere, uomo-donna. Che vede nella sessualità un’espressione naturale e fondamentale di socialità. Che è per porre come centrali nella vita degli individui i legami sociali (qui Reich dice, riduttivamente: i legami all’interno del collettivo di lavoro) e non più quelli familiari. Che è per un comportamento sessuale spontaneo e insieme auto-regolato da un senso di responsabilità appreso collettivamente. Che osa affermare che la felicità umana è possibile, non al modo astratto e indeterminato di un Saint-Just o del proprietario di schiavi Jefferson, ma in un modo concreto e determinato, cioè chiarendo quali sono le condizioni materiali, e non, che la rendono possibile per le masse. Poiché, ricorda Reich riprendendo ancora, e ben a proposito, Lenin, come i libertari d’oggi assai meno perspicui di lui disdegnano di fare, il comunismo “non significa ascetismo, ma piacere della vita e adesione ad essa attraverso il completo soddisfacimento amoroso” e umano.
Controrivoluzione stalinista e nuova oppressione
Ma… ma come non può darsi socialismo in un paese solo, così non può darsi liberazione della donna né vero rivoluzionamento del rapporto uomo-donna in un paese solo, perché questi processi sono parte integrante del cammino al socialismo e al comunismo. L’”inibizione della rivoluzione sessuale”, il cui avvìo non a caso Reich e altri collocano intorno al 1923, è parte dell’”inibizione”, dall’esterno e dall’interno, della rivoluzione proletaria. Non si può dare a lungo produzione di nuovi costumi sociali e di una nuova cultura sulla base delle vecchie relazioni economiche capitalistiche, poiché l’economia -per quanto forte sia l’energia del partito e del potere, dunque del “volere”, rivoluzionari- resta la base determinante che consente o frena, in ultima istanza, le trasformazioni “non economiche”. La rivoluzione “russa”, anello della rivoluzione mondiale, a misura che questa fu battuta in campo aperto in Europa, rimase impantanata sul terreno locale socialmente meno favorevole alla messa in atto del programma delle trasformazioni comuniste. E nel quadro di questo impantamento si fece sentire sempre più nella società russa non solo l’influenza del vecchio modo di vedere e di essere borghese internazionalmente dominante, ma anche quella del vecchio mondo pre-borghese russo, e questa influenza, oltre che nel contadiname e nel proletariato, trovò modo di penetrare perfino nelle fila del partito bolscevico, in quanto prodotto delle contraddizioni sociali, e non solo fattore agente in esse.
Così, i germogli della “nuova vita” furono bruciati dalla infame gelata controrivoluzionaria prima ancora di aver potuto fare gli occhietti. Se si guarda alla Russia di metà degli anni ’20 al di fuori delle facili oleografie si può osservare, con Trotzkij, il seguente spettacolo: crisi profonda della vecchia famiglia e -su scala minore- delle vecchie relazioni tra uomo e donna senza però che avesse fatto ancora in tempo a nascere, e tanto meno a consolidarsi, un nuovo “sistema” di rapporti tra i sessi e tra le generazioni. Gli stessi generosi esperimenti delle comuni giovanili, nella loro eterogeneità, ci mostrano più una ricerca in atto, un caos potenzialmente creativo, che una bozza di soluzione o di soluzioni comuniste. Il proletariato comunista, insomma, è riuscito in quegli anni a porre internazionalmente tutti i problemi di fondo anche in questi ambiti concernenti la vita chiamata erroneamente privata, ma non ha avuto il tempo e lo “spazio vitale” per definire al meglio e mettere in atto i suoi piani rivoluzionari. Soprattutto per quel che riguarda la “parte” più complicata e di lunga lena di essi, che non è quella politico-militare, bensì quella che attiene alla soppressione della divisione sociale e sessuale del lavoro capitalistica e alla trasformazione delle abitudini e dei costumi (la “rivoluzione culturale” di cui parlano, in termini materialisti, gli ultimi scritti di Lenin).
Ci siamo fermati perché siamo stati battuti. Fuori della Russia e in Russia. Il dramma non è nella sconfitta di per sé, inevitabile visto che il nemico capitalista era più forte e più esperto di noi, quanto piuttosto nella sua inimmaginabile profondità. E il risvolto più penoso di questa profondità è nello stravolgimento di tutta la dottrina e la prassi del comunismo avvenuta, per mano di Stalin, Togliatti e soci, in nome del “comunismo”. Poiché tale stravolgimento fu totale, nessuna sfera ne fu esclusa. Nel campo dei rapporti tra i sessi la direzione staliniana invertì la rotta dei primi anni della rivoluzione e, procedendo empiricamente e per scarti, realizzò un “generale regresso verso principi autoritari” e neo-patriarcali, attraverso un nuovo appoggio, una nuova protezione preferenziale accordata alla famiglia coattiva, la restrizione della possibilità di ricorrere all’aborto, la pretesca rivalutazione dell’astinenza sessuale, la reintroduzione del reato di omosessualità (come ai tempi dello zarismo), etc., giù via via degradando, il comunismo e la donna insieme, fino ad arrivare negli epigoni tardo-stalinisti alle seguenti mostruosità:
“Le donne, è vero, prendono parte attiva all’opera del governo sovietico; ma è criminale dimenticare che esse sono le fondamenta delle famiglie ed hanno l’obbligo di dedicare la maggior parte delle loro energie ai loro compiti di madre. Per nessuna ragione, la parità comunista delle donne le esenta dalla responsabilità della casa e dalle cure dei figli. La negligenza della casa per accudire al lavoro dello Stato danneggia lo Stato [un capolavoro di anti-marxismo, e però un’assoluta verità borghese e da “socialismo reale” –n.].
“Le donne sovietiche siano esonerate da tutti quei lavori che non permettono loro di avere debita cura dei figli, perché questi vanno allevati nell’ambito della famiglia prima che nelle istituzioni dello Stato, il cui compito dev’essere soltanto integrativo.” (dalla Pravda, del novembre 1966).
Né fuori della Russia arretrata e nel cuore dell’Europa “avanzata” andò meglio. Anzi, nel generale rinculo, le esigenze più o meno consapevolmente social-imperialiste dei partiti stalinizzati dell’Europa occidentale li portarono perfino più avanti dello stalinismo russo nell’abiura totale della dottrina e della politica rivoluzionaria fino a proclamazioni che si stenta a distinguere da quelle del conservatorismo razzista stile Christian Coalition pro-Bush. Sentite:
“Salvate la famiglia! Aiutateci nella nostra grande inchiesta nell’interesse del diritto d’amare. E’ un fatto ben noto che il saggio di natalità in Francia diminuisce con un ritmo preoccupante… I comunisti si trovano di fronte a una situazione gravissima. Il paese nel quale si preparano a portare la rivoluzione [quando si dice la spudoratezza! –n.], la Francia, corre il pericolo di essere mutilato e spopolato.
“La malizia del capitalismo morente, la sua immoralità, l’egoismo che esso crea, le sofferenze, gli aborti clandestini che esso provoca, distruggono la famiglia. I comunisti vogliono combattere per la difesa della famiglia francese. Hanno definitivamente rotto con la tradizione piccolo-borghese, individualista ed anarchica che fa della sterilizzazione il suo ideale.
“Essi desiderano preparare un paese forte e una razza feconda. L’URSS indica la strada. Ma è necessario prendere immediatamente misure attive per salvare la razza.”
Le Pen 1990? Bossi 2001? Nient’affatto: è l’Humanité, quotidiano del Partito comunista francese, ed in effetti più francesi di così si muore!, del 31 ottobre 1935. Non c’è già più traccia della “nuova vita” a cui la rivoluzione d’Ottobre cominciò a porre mano, è il ritorno –nel proletariato– di tutta la vecchia melma borghese nazionalista, statalista, familista e oppressiva verso la donna. Per la verità nello stalinismo “eroico”, non tutto così indecente, compare ancora la locuzione “emancipazione della donna” rubata al lessico marxista, ma le si dà, sfigurandola, una connotazione anti-rivoluzionaria e neo-schiavistica: l’emancipazione della donna, infatti, viene fatta coincidere –capitalisticamente– con l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro salariato, fermo restando in modo più o meno integrale il loro carico di lavoro domestico (gratuito). Della distruzione della “piccola economia domestica”, della “grande economia socialista”, del protagonismo della classe operaia e delle donne in questo doppio processo non è rimasto nulla. Diritto di voto per i parlamenti degasperiani o fanfaniani, lavoro sotto padrone e continuazione del servizio domestico all’uomo e ai figli come da tradizione, questo è quanto. Togliatti: “Noi non pretendiamo che le donne comuniste rinuncino a quelli che ritengono i loro doveri” domestici, così come li hanno introiettati da secoli di doppia oppressione. La liberazione materiale, psichica e sessuale della donna in un contesto non mercantile? Bubbole d’altri tempi.
Da dove si ricomincia
Stanti così le cose, e anche peggio, molto peggio, per svariati decenni, è stato, è più che normale che una reale ripresa della lotta delle donne dovesse, prima negli anni del ’68, e anche ora, presentare a noi che ci diciamo e siamo comunisti non alla guisa dell’Humanité, della Pravda e di Togliatti, il conto per i loro delitti, passando a pelo e contropelo la nostra storia e la loro storia, talvolta, ma non sempre, con indebite confusioni tra di esse. Altrettanto normale che essa, vedendo trascurate o negate dal proletariato riformista le più profonde aspirazioni delle donne, formulasse per la realizzazione di queste aspirazioni una prospettiva di totale autonomia dal proletariato, di separatismo. Questa contestazione, più che comprensibile, è stata, però, eccessiva e auto-contraddittoria, poiché non può darsi nessuna liberazione delle donne solo per mano delle donne e al di fuori della lotta del proletariato e degli sfruttati per il comunismo. Ma non abbiamo timore ad ammettere che il pungolo di un certo “estremismo” femminile, poiché il femminismo più serio degli anni ’70 e di oggi, quello che ha voluto e vuole rapportarsi “criticamente” con il marxismo e con il movimento di classe, non è altro che una forma femminile di “estremismo”, è stato utile se è servito, come è servito, a sollecitarci alla piena riconquista del grande tesoro teorico che giace, largamente inutilizzato, nei classici del marxismo, Marx per primo e sopra tutti, di critica rivoluzionaria della condizione riservata alla donna nel capitalismo. Un tesoro lungamente occultato dall’economismo e dal finto “classismo” di matrice stalinista, pronto all’anatema anti-deviazionista ognivolta ci si “allontani” dalla “contraddizione principale”.
Simili anatemi non ci fanno neppure solletico. Abbiamo appreso da tempo, da Bordiga, che la contraddizione principale oppone capitalismo e socialismo, non semplicemente e in modo immediato capitale e lavoro; e che in tanto il proletariato internazionale organizzato in partito potrà essere realmente la guida di tutto intero l’esercito degli sfruttati e degli oppressi, le masse delle donne ben comprese, in quanto e solo in quanto si sarà risollevato integralmente all’altezza dei suoi compiti storici e primariamente della sua dottrina storica. Prima di questo “momento”, che non appare assai vicino, fintantoché il proletariato –e parliamo innanzitutto di quello metropolitano- giacerà inerte e politicamente indistinguibile dalla classe sfruttatrice, fintantoché non alzerà un solo dito né contro le guerre di aggressione ai popoli ribelli del Terzo Mondo né contro la guerra alla dignità e alla libertà della donna che l’imperialismo conduce in permanenza, è naturale, è necessario, è positivo che gli oppressi delle “periferie” gli sventolino sotto il naso con fierezza, le proprie bandiere “islamiche” o terzomondiali, e che il sesso oppresso faccia altrettanto con le sue bandiere “di donne” (semmai troppo poco, troppo sporadicamente, e, tra l’altro, oggi, senza una particolare ostilità), di donne che sono, nella stragrande maggioranza, donne proletarie e lavoratrici (anche extra-domestiche).
Noi che non siamo certo né islamici né femministi, salutiamo, appoggiamo incondizionatamente queste lotte che di quando in quando illuminano la lunga fase grigia che sta attraversando il proletariato come classe per sé, e le additiamo ad esso perché se ne faccia risvegliare, le senta sue, le appoggi, e si renda infine capace di guidarle e di fonderle in un’unione solidale di proletari, di colorati e di donne. Lo facciamo nella assoluta certezza che la ripresa della rivoluzione proletaria a venire incorporerà a sé con più forza che mai l’emancipazione totale della donna dall’oppressione, dallo sfruttamento, dall’avvilimento cui è costretta oggi dal capitale, talora, nelle metropoli, sotto il manto luccicante di una falsa “libertà” e di un’altrettanto falsa “emancipazione”. E che, mettendo fine alle diatribe fasulle, dirà:
Non c’è liberazione della donna senza rivoluzione comunista. Non c’è rivoluzione comunista senza liberazione della donna.
(1) Ai nostri giorni la negazione del sesso in quanto bisogno autenticamente naturale e umano passa, invece che attraverso la repressione diretta dell’istinto sessuale, attraverso l’incentivazione del consumo drogato e alienato di sesso: una sorta di coazione ad avere un numero sempre maggiore di rapporti sessuali, generata da un lato dal mancato appagamento e indotta dall’altro dall’onnipresente industria del sesso mercenario (si è parlato, in proposito, di una “de-sublimazione repressiva”). Salvo, poi, si capisce, il crescere dell’impotenza e, in generale, della miseria sessuale, legata strettamente alla miseria dei rapporti umani.