Riceviamo e pubblichiamo questo comunicato dalle compagne del Comitato 23 settembre, già disponibile sulla loro pagine (vedi qui):
MAI PIU’ FIGLI PER LE VOSTRE GUERRE!
Questa la comune parola d’ordine che le compagne del comitato 23 settembre, le disoccupate del comitato 7 novembre di Napoli, le compagne del laboratorio politico Iskra e le militanti del Sicobas hanno portato in questo primo maggio, nelle manifestazioni indette dal Sicobas a Milano e a Napoli:
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Uno slogan che segna la solidarietà alla terribile situazione delle donne dei paesi che in questo momento sono al centro dello scontro bellico ma che richiama fortemente la necessità di opporsi, con tutte le nostre forze, alla preparazione delle guerre prossime future.
Ci chiedono di trasmettere ai giovani il senso della “necessità” della guerra, educandoli, innanzitutto all’interno delle famiglie, alla passività, all’individualismo, al nazionalismo, al razzismo, alla necessità di non riconoscere i propri fratelli e le proprie sorelle di classe e di pensare che la propria sopravvivenza potrà realizzarsi a prezzo della soppressione dei diritti e della vita altrui.
Intanto, per le vostre guerre, dovremo accettare sacrifici e rinunce in un contesto di crescente precarietà, povertà ed erosione di ogni minimo diritto, fra cui il supremo diritto di lottare in modo organizzato per i nostri interessi di uomini e donne proletarie, sfruttate e senza privilegi.
E’ una martellante campagna ideologica, ma non solo.
Chi, come le disoccupate del Comitato 7 novembre, è sempre pronto a scendere in piazza, si dovrà scontrare, e questo già avviene, con una crescente difficoltà a vedere rispettati gli impegni presi dal governo, un governo che agisce sistematicamente per torchiare chi ha meno, e in particolare le donne, che sono la maggioranza degli strati più poveri della popolazione.
Così, mentre si allontana la prospettiva del lavoro, si avvicina quella dell’eliminazione del reddito di cittadinanza e progressivamente di tutti i sussidi, e di sacrificare ulteriormente la scuola e la salute di tutti, una spesa che lo stato non può e non vuole sostenere poiché ha privilegiato gli investimenti in armi, che serviranno a garantire ai pescecani privati e di stato la possibilità di lucrare sulla ricostruzione della disgraziata terra Ucraina.
Anche chi il lavoro ce l’ha (sempre più pesante e precario) deve poi sobbarcarsi ogni tipo di impegni di cura che spesso impediscono di andare al di là delle incombenze famigliari e di spingere lo sguardo là dove potrebbero trovare appoggio e solidarietà.
Pur lottando in stretta unità con i lavoratori e le lavoratrici di tutto il mondo, come la giornata del primo maggio ci chiama a fare, non possiamo tacere il fatto che le donne subiscono, nelle contraddizioni generali, un particolare tipo di oppressione, un di più di sfruttamento, che impone loro di scendere in piazza in prima persona.
E’ a questa presa di coscienza collettiva che ci dobbiamo dedicare.
Ormai da oltre un secolo, anche nelle guerre combattute, le vittime civili, e quindi le donne e le famiglie, sono di più di quelle militari.
Le donne, nelle guerre, subiscono ogni sorta di aggressioni, violenze e stupri, che vengono incoraggiati e perpetrati per rafforzare le motivazioni alla guerra di chi combatte (un premio per i vincitori), soggiogare e umiliare le donne stesse e indurle a subire per proteggere i loro cari, e scardinare, al tempo stesso, la volontà di resistenza degli uomini.
Così è avvenuto in ogni guerra da tempi remoti, e ancor più in tempi moderni, con le guerre coloniali passate e attuali, supportate dal razzismo, dal sessismo e dallo sfruttamento esasperato delle risorse umane e naturali nei paesi da rapinare. Su questo si è costituito l’infame sistema in cui viviamo, che trae dal patriarcalismo ulteriori modi di sopraffazione e di divisione all’interno della classe degli sfruttati, in tutto il mondo.
E questa è la ragione per cui, scendendo in piazza unitariamente come compagne, lavoratrici, disoccupate, giovani senza futuro, abbiamo unito allo slogan contro la guerra la necessità di riconoscere che non chiediamo spazi o piccole riforme, per rendere più decente e “accettabile” il sistema capitalistico, ma che ogni nostra lotta, anche la più parziale e immediata, è destinata a costruire quella forza e quella unità che sola è in grado di abbattere il capitalismo, per garantire, ai figli e a tutta l’umanità, non di andare al macello per gli interessi altrui, ma una vita degna di essere vissuta.
Comitato 23 settembre