Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
Ancora Tronti?
Ma 100 volte Panzieri (con i suoi limiti)!
– di effesse
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa nota polemica sulle commemorazioni di Tronti, che contiene diversi spunti interessanti per un bilancio critico dell’operaismo italiano.
Redazione Il Pungolo Rosso
ANCORA TRONTI?
MA 100 VOLTE PANZIERI (CON I SUOI LIMITI)
“Ci ha lasciato Mario Tronti. È stato un onore lavorare insieme in Parlamento e potermi confrontare con lui anche negli ultimi anni, imparando sempre qualcosa. Una mente raffinata, una vita coerente coi suoi ideali, un difensore della buona politica, avversario di ogni populismo. Un amico affettuoso, una persona fuori dall’ordinario. Ciao Mario, ci mancherai. Mi mancherai.” – Maria Elena Boschi.
Il 7 Agosto si è spento a 92 anni l’ex senatore (del Partito Democratico) Mario Tronti omaggiato nel comunicato Ansa come “uno dei principali fondatori ed esponenti del marxismo operaista teorico degli anni sessanta”1. Sull’onda della conferma di questa notizia, si sono susseguiti commiati e celebrazioni del noto filosofo romano da tutti i principali esponenti, politici, sindacali e sociali riconducibili all’area di centro-sinistra (leggasi, in proposito, il commosso ricordo di Maria Elena Boschi riportato all’inizio). Come avviene in questi casi, anche ciò che rimane della “sinistra radicale” – istituzionale o movimentista che sia – non si è fatta scappare l’occasione per strappare qualche trafiletto giornalistico cercando di opporre una visione alternativa del defunto in questione presentato come uno dei più importanti intellettuali “innovativi” ed “eretici” del ‘9002. In questo marasma di dichiarazioni, tipico di chi da decenni ha ormai abbandonato qualsivoglia rapporto con la lotta di classe – e le sue asprezze – per l’estensione di commenti sui social network, proveremo a ricostruire, sia pur sommariamente, la parabola teorica e politica (perché per i marxisti questi due aspetti non possono essere considerati separatamente) di Mario Tronti per tirare, infine, delle conclusioni sullo stato di confusione che sembra ancora regnare tra i diversi epigoni – alcune volte anche con vezzi intellettuali – che cercano di ricondursi indebitamente alla tradizione comunista.
Una volta terminato il Secondo Conflitto Mondiale, il “rifondato”- con la “Svolta di Salerno” – Partito Comunista Italiano (sottolineiamo italiano) togliattiano uscì enormemente rafforzato dalla guerra di liberazione nazionale contro i nazisti ed i fascisti italiani. Dopo aver alacremente lavorato per emarginare, cancellare e colpire – su tutto il territorio nazionale – ogni forma di alternativa politica rivoluzionaria alla sua strategia “nazionale” e “popolare” incardinata sul CLN3, Palmiro Togliatti fu il vero artefice, nel secondo dopo guerra, della ricostruzione di una organizzazione politica sicuramente di massa (in termini di iscritti e simpatizzanti), ma ormai formalmente orientata verso una visione di “transizione al socialismo” gradualista, riformista, parlamentarista e materialmente finalizzata ad integrare più a fondo la classe operaia nei meccanismi del capitalismo nazionale con concessioni che ne favorissero la collaborazione con il padronato4. Fu questo per decenni il vero “nocciolo velenoso” della proposta del PCI: una volta accettata la subalternità alla politica estera dell’Unione Sovietica prima “staliniana” e poi “post-staliniana”, il ruolo delle forze del lavoro si doveva ridurre – con le buone o con le cattive – al piccolo cabotaggio quotidiano nelle istituzioni rappresentative, al “patto con i produttori” sotto la direzione della CGIL di Di Vittorio ed a un senso di responsabilità nell’esercizio del conflitto di classe volto a dar prova di un fantomatico “ruolo nazionale e generale” della classe operaia contro possibili derive “corporative”5.
Solamente l’esplodere delle lotte operaie dei primi anni Sessanta, iniziò ad aprire delle crepe all’interno di una prassi politica che nel 1956 permise, non a caso, di raggiungere due importantissimi traguardi sulla “via italiana al socialismo”6 : la sconfitta alle elezioni per il rinnovo delle Commissioni Interne alla Fiat e la giustificazione della repressione sovietica in Ungheria su un movimento spontaneo con una larga componente operaia. Come dicevamo, una volta squarciato il pesante velo di una egemonia culturale e politica impregnata di storicismo idealistico, poterono svilupparsi delle esperienze teoriche mosse dalla necessità di un genuino ritorno allo studio diretto del pensiero di Karl Marx, oltrepassando tutto quell’albero genealogico che rendeva il “marxismo italiano” totalmente inefficace sul piano di un’effettiva contrapposizione al capitalismo, ed anche incapace di comprenderne a fondo le trasformazioni. All’interno di questa storia, svetta, per rigore intellettuale, la figura di Raniero Panzieri, prima dirigente della sinistra socialista e poi fondatore della rivista “Quaderni Rossi” (1961). Per un breve tempo assistente all’Università di Messina di Galvano Della Volpe, questo militante della causa operaia – lui, veramente eretico – una volta trasferitosi a Torino fu l’artefice del rilancio di un progetto teorico e pratico di riscoperta del Marx analista della grande fabbrica capitalistica, del processo lavorativo, della inchiesta operaia e di una sociologia materialista in grado di offrire nuovi strumenti al movimento operaio italiano – anche sindacale – impantanato nel secche di un culto scientista dello sviluppo delle forze produttive7. Come è stato detto8, fu grazie alla sua coraggiosa attività che, all’interno del movimento operaio “ufficiale” (ai suoi margini, beninteso), poté essere reintrodotto un marxismo militante e particolarmente attento alle trasformazioni tecnologiche ed organizzative avvenute con l’introduzione dei principi tayloristi e fordisti9.
Fatte queste dovute premesse di ordine storico, torniamo a Mario Tronti ed al motivo della sua notorietà internazionale. Nel 1962, Torino fu teatro della famosa rivolta di Piazza Statuto in cui l’esplosione di rabbia dei più giovani operai Fiat, per un accordo separato firmato dalla Uil con la direzione aziendale, rischiò di paralizzare per giorni tutta la città. Gli scontri con la polizia furono duri così come la repressione che ne seguì10. Furono questi eventi, infatti, ad offrire all’ora giovane filosofo romano l’opportunità per portare a termine una rottura politica con il progetto originale dei Quaderni Rossi ed operare quella fantomatica “rivoluzione copernicana” su cui si è sprecato, fino ad oggi, troppo inchiostro11. Quale fu, dunque, questa innovazione che ha consegnato questo studioso alla gloria? Ebbene, semplicemente il fatto che in un famoso editoriale, che aveva l’ardire di portare Lenin in Inghilterra, egli teorizzò che le lotte operaie precedevano e costringevano il capitale ad operare delle trasformazioni strutturali, in quanto “lo sviluppo capitalistico è subordinato alle lotte operaie” 12. In questo modo il rapporto capitale-lavoro veniva invertito dando luogo ad una filosofia della Classe Operaia (correttamente scritta in maiuscolo) totalmente avulsa da un’analisi della sua composizione tecnica, della sua reale condizione sociale, dei suoi rapporti di forza con la classe del capitale, ed abbandonata nelle nebbie del “punto di vista di parte”13. Su questa base, nacque e si sviluppò quella corrente di pensiero che va comunemente sotto il nome di operaismo politico italiano.
All’interno di questo gruppo, ad onor del vero, gli itinerari teorici – che in alcuni casi continuano ancora oggi – sono stati i più diversi e gli approdi sono stati i più fantasiosi possibili dalle Moltitudini indefinite contro l’Impero (ma comunque dentro di esso), ad utopie iper-tecnologiste sulla fine del lavoro fino ad arrivare alla celebrazione delle virtù rivoluzionarie dei knowledge workers a partita iva, ma dobbiamo riconoscere a Mario Tronti una capacità di affabulazione intellettuale migliore dei suoi epigoni dal momento che fu il primo a capire l’impasse che lui stesso aveva prodotto. Non a caso, solo dopo pochi anni dall’uscita del suo bestseller Operai e Capitale (1966), accorgendosi che la realtà dello scontro di classe non era riducibile ad un dualismo così schematico, e che la controffensiva capitalistica stava piegando la forza combattiva della classe operaia emersa nell’autunno caldo e negli anni seguenti, riuscì a regredire ulteriormente aprendo la stagione “dell’autonomia del politico”14. In sostanza, al di sotto della “riscoperta” del grande pensiero politico borghese, era necessario rientrare nei comodi ranghi del PCI berlingueriano – che, per altro, lui non abbandonò mai definitivamente tanto da seguirne tutti i cambiamenti di nome fino al PD – affinché questo partito potesse dotarsi degli strumenti culturali per diventare artefice di una modernizzazione capitalistica della società italiana secondo un modello già sperimentato negli anni del New Deal statunitense15. Il ritorno alla “casa madre” negli anni Ottanta e la fumosità delle sue ultime riflessioni sulla teologia politica si misurano con il voto favorevole al Job’s Act renziano (ossia la riforma più liberista del mercato del lavoro operata fino a questo momento) accompagnato dal discorso pronunciato al Senato per il centesimo anniversario della Rivoluzione di Ottobre16. La confusione, più che “l’autonomia del politico”, è parsa regnare nella testa di Mario Tronti negli ultimi decenni17.
Come abbiamo cercato di mostrare in questo breve scritto, gran parte delle forze che fanno riferimento (almeno ideale) al proletariato – salvo isolati esempi – vivono in questo paese almeno dal secondo dopo guerra in uno stato di pesante disorientamento: se prima è stata l’egemonia teorica e pratica togliattiana a guadagnarsi un posto di primaria importanza nel depotenziare le possibilità di lotta del movimento operaio18; oggi sicuramente pesano di più correnti ideali che, in diversi modi, si ricollegano agli aspetti più deteriori dell’operaismo trontiano poi superato in fantasie teoriche dal suo “allievo” Toni Negri (autore, per certi versi, ancora più pericoloso per il suo abbandono completo della teoria del valore marxiana in favore delle mode teoriche più avulse dalla realtà contemporanea). In conclusione, dunque, se le giovani generazioni volessero riprendere i fili interrotti di una riflessione critica al passo con i tempi utilizzando gli apporti degli anni ’60, non è da Mario Tronti che dovrebbero ripartire… 100 volte meglio Panzieri (con i suoi limiti)!
Note
1https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2023/08/07/e-morto-mario-tronti-padre-del-marxismo-operaista_18273120-b6b4-4db1-9fe2-58a152f7622b.html
2 Valga, una su tutte, l’opinione espressa da Maurizio Acerbo, attuale segretario di Rifondazione Comunista: http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=54190
3 S. Solano, La svolta borghese di Togliatti Il Pci da Salerno alle elezioni politiche politiche del ’48, Pgreco, 2016.
4 Al di là di pedanti ricostruzioni sul ruolo di Palmiro Togliatti come “rivoluzionario costituente” o “pensatore politico di primo piano”, che ancora vengono spacciate nelle sempre più microscopiche sezioni delle organizzazioni politiche eredi del PCI, è alla storia concreta/reale del cosiddetto “modello Emiliano” che bisogna guardare per capire, se ancora ce ne fosse bisogno, che nessun artificio dell’elaborazione togliattiana avesse al suo interno “elementi di socialismo”. Semmai, veniva aperta la strada ad una progressiva “socialdemocratizzazione” del partito culminata, non casualmente a fine Novecento, anche con il formale cambio del nome.
5 È corretto notare che rispetto ad alcuni elementi della “strategia togliattiana” vi sia una continuità – sia pure indiretta – con l’elaborazione che Antonio Gramsci compì in carcere sulla sconfitta delle rivoluzioni proletarie nei paesi occidentali e che sviluppò nei famosi Quaderni. Vi è però nell’orientamento di fondo delle riflessioni gramsciane la consapevolezza di una rottura qualitativa – tipicamente leninista e terzointernazionalista sia pur con elementi originali – nella transizione socialista. Tutto questo, in Palmiro Togliatti scompare per approdare ad un realismo cinico che scambia l’analisi oggettiva dei rapporti di forza (temporaneamente sfavorevoli) con l’accettazione dello stato di cose presenti.
6 Bisogna riconoscere finalmente ad Amadeo Bordiga non solo una lucida denuncia, in anticipo con i tempi, rispetto al ruolo contro rivoluzionario dello stalinismo, ma anche di essere stato il maggiore avversario “teorico” dell’offuscamento di una prospettiva classista ed internazionalista del movimento operaio italiano operata da Palmiro Togliatti e dal gruppo dirigente del PCI. Come è ormai noto, il rivoluzionario napoletano pagò, per decenni, con la damnatio memoriae questo suo ruolo.
7 Anche un autore di comprovata fedeltà alla “linea” politica-sindacale togliattiana come Aris Accornero riuscì ad accorgersi, sebbene un po’ in ritardo, come in tutti gli anni Cinquanta l’azione delle avanguardie operaie di fabbrica, legate principalmente alla FIOM, contrapponendo doveri politici ed interessi economici dei lavoratori, finì per accettare come naturale e neutrale l’organizzazione capitalistica del lavoro ed il sistema di fabbrica – A. Accornero, Gli anni ’50 in fabbrica, De Donato, 1976.
8 Vittorio Foa, Per una storia del movimento operaio, Einaudi, 1980.
9 L’aspetto probabilmente più debole della proposta di Panzieri, dal forte sapore francofortese, è l’illusione rispetto alle capacità di pianificazione della sfera della circolazione operate dal neo-capitalismo. La fine delle politiche keynesiane come strumento di regolazione del modello di accumulazione fordista, rappresentano la prova più evidente dell’incapacità strutturale del modo di produzione capitalistico di controllare i suoi “spiriti animali” e prevenire le cicliche crisi di sovrapproduzione di merci e capitali.
10 D. Lanzardo, La rivolta di Piazza Statuto. Torino, luglio 1962, Feltrinelli, 1979.
11 Una rottura che avvenne materialmente con l’uscita di una nuova rivista intitolata “Classe Operaia” (1964).
12 Scriveva Mario Tronti: “Abbiamo visto anche noi prima lo sviluppo capitalistico, poi le lotte operaie. È un errore. Occorre rovesciare il problema, cambiare il segno, ripartire dal principio: e il principio è la lotta di classe operaia. A livello di capitale socialmente sviluppato, lo sviluppo capitalistico è subordinato alle lotte operaie, viene dopo di esse e ad esse deve corrispondere il meccanismo politico della propria produzione”. M. Tronti, Operai e Capitale, Derive Approdi, 2006.
13 Questa fu l’opinione anche di Raniero Panzieri, il quale commentò con queste parole gli scivolamenti trontiani: “Il discorso di Mario Tronti alla “Lega Marxista” (…) è per me un riassunto affascinante di tutta una serie di errori che in questo momento può commettere una sinistra operaia. È affascinante perché è molto hegeliano, in senso originale, come nuovo modo di rivivere una filosofia della storia. Ma è appunto una filosofia della storia, una filosofia della classe operaia. Si parla, ad esempio, di partito, ma in quel contesto il concetto di partito non si può dedurre e vi è cacciato a forza: si può ricavare solo l’auto-organizzazione della classe a livello di neo-capitalismo. Quel che si ricava è che il capitalismo (come disse un anarco-sindacalista spagnolo) vive solo per autosuggestione”.
14 M. Tronti, Sull’autonomia del politico, Feltrinelli, 1977.
15 Rispetto a questa svolta, Cristina Corradi ritrova l’elemento di evoluzione nel pensiero trontiano proprio nel fatto che “poiché il capitale usa la manovra della crisi per impedire che allo sviluppo economico, innescato dalle lotte operaie degli anni ’60, corrisponda un adeguato esito politico, la classe operaia, tramite un partito relativamente autonomo, deve farsi promotrice di un processo di modernizzazione. Tronti pensa ad un’alleanza dei produttori finalizzata a sconfiggere le arretratezze del capitalismo italiano e della società italiana, ipotizza una sorta di nuova Nep, una gestione dell’economia capitalistica sotto la guida operaia, che utilizza la macchina statale per spezzare la manovra della crisi, per promuovere una riforma capitalistica dello stato e per rimettere in moto lo sviluppo” (capitalistico). C. Corradi, Storia dei Marxismi in Italia, Manifestolibri, 2005.
16 https://ilmanifesto.it/ottobre-1917-lo-sturm-und-drang-del-novecento
17 Sarebbe stato interessante capire se anche la nomina di Mario Draghi a presidente del consiglio, avvenuta nei mesi più duri della pandemia, potesse essere interpretata come una gestione operaia della crisi capitalistica… https://www.ilriformista.it/intervista-a-mario-tronti-solo-draghi-ci-rimettera-in-piedi-la-sinistra-archivi-lulivo-257033/
18 Alla stessa conclusione è giunto anche Giorgio Galli, il quale, dover aver arricchito più volte, la sua celebre storia del PCI ha scritto che: “La mia Storia del PCI, (…), ha l’ambizione di cogliere il rapporto tra elementi di continuità ed elementi di innovazione nella posizione del Partito comunista italiano. Anche a questo proposito, il criterio interpretativo adottato negli anni Cinquanta ha trovato sostanziali conferme. Ritenevo allora che la strategia di estrema cautela adottata dal PCI non valorizzasse appieno il potenziale di rinnovamento presente nella società italiana, il quale aveva trovato nel partito il più forte punto di riferimento politico, soprattutto attraverso l’organizzazione e la lotta della classe operaia che interpretava la linea del partito in chiave di prospettiva socialista e rivoluzionaria”. G. Galli, Storia del Pci, Kaos Edizioni, 1993.