Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
La CGIL, l’inflazione e i salari:
nella critica bisogna andare fino in fondo!
– Pasquale Cordua
Abbiamo ricevuto alcune documentate osservazioni di Federico Giusti ed Emiliano Gentili che criticano il documento della Cgil intitolato “Inflazione e salari”. Apprezziamo la precisione delle loro contestazioni, ma pensiamo che sia necessario premettere ai correttivi indicati da Giusti e Gentili la necessaria cornice di una posizione anticapitalista senza la quale ogni misura, anche la più energica, non può conseguire risultati. Dobbiamo, cioè, comprendere e far comprendere che se il capitalismo rimane, le migliori e più avanzate riforme non possono essere né durature né serie. Non si tratta tanto di questioni di principio, sulle quali potrebbero esserci le differenze del caso, quanto di definizione del quadro concreto delle contraddizioni sociali in cui le misure che vengono proposte si dovrebbero svolgere e, pertanto, non possiamo farci sfuggire almeno due questioni fondamentali.
La prima è quella di individuare quale specifica cIasse sociale il governo intende tutelare con la sua politica fiscale o, almeno, usare come leva per un consenso sempre necessario per governare meglio le tensioni sociali. La seconda è comprendere la posizione del sindacalismo confederale o, se si preferisce, il suo ruolo attuale e la sua prospettiva.
Questo governo ha deciso di far leva sulla piccola borghesia sfruttatrice che anche a volerla chiamare con termini più edulcorati resta sempre un esempio di massima vessazione sui lavoratori alle proprie dipendenze. Naturalmente il governo, qualsiasi governo in regime capitalistico, è il comitato d’affari (ci si perdoni il linguaggio retro!) della borghesia, ma questa rischia di rimanere una mera affermazione di principio se non si denunciano i modi concreti con cui si articola la capacità di impossessamento del plusvalore. Essa può essere agevolata dal rapporto reciproco tra le classi e qui la citata piccola borghesia accumulativa sta avendo un ruolo sempre più attivamente antagonista verso il proletariato (si tratta dei famosi “ceti medi produttivi” di togliattiana memoria). Insieme all’uso della repressione, da maneggiare con temperanza per non suscitare indesiderate reazioni e sdegno benpensante, il governo in carica ha accentuato l’uso antiproletario della piccola borghesia con una massiccia propaganda contro i “divanisti”, contro ogni azione di sostegno sociale che non abbia un ritorno in termini di avvilimento e subordinazione del proletariato, compreso – anzi, in primissima fila – quello di immigrazione. Inutile elencare tutte le misure adottate dal governo Meloni ed il loro contrassegno di umiliazione e sottomissione dei proletari; sono ben note e le abbiamo più volte analizzate e passate in rassegna su questo blog. Naturalmente la piccola borghesia è composta anche da strati sociali che non partecipano all’estorsione diretta di plusvalore, e per i quali è stata messa in campo un’opera di delegittimazione che si manifesta con le impunite aggressioni agli insegnanti, agli infermieri dei Pronto Soccorso, ai conducenti del trasporto pubblico e via così. Aggressioni e pogrom verso gli immigrati, quotidiane morti sul lavoro, violenza di genere a livello stragista corredano il quadro di fenomeni che non possono essere trascurati nella descrizione dello stato del conflitto di classe in Italia di cui le misure varate dal governo e la politica sindacale sono il prodotto.
La posizione del sindacalismo confederale appare quindi ancora più complice dello stato di cose e certamente “…sarebbe meglio aggredire le posizioni dell’avversario politico”, ma anzitutto chiarire che è avversario di classe, e poi cominciare con il dire che quella “inazione” è la manifestazione del passaggio al sindacalismo di stato, ad un sindacalismo di assistenza legale, fiscale, amministrativa e, non è un azzardo, corporativo – anticipato dalle posizioni della Cisl sulla partecipazione dei dipendenti agli utili aziendali. Per ciò che riguarda la Cgil, lo stesso eterno richiamo all’unità sindacale non è altro che un alibi. “Rompere l’unità sindacale? Giammai! Volete forse indebolire i lavoratori!?” Ecco il ritornello col quale ci si giustifica, ma non si tratta solo di questo perché il sistema di appalti e subappalti e, sebbene più alla lontana, la questione delle privatizzazioni non sono cose da propaganda o questioni morali, ma riguardano sempre quella “conversione” che vede sindacalisti dimessi o dismessi diventare padroncini di piccole imprese di servizi, di gestione della formazione professionale, di servizi di “accoglienza” per immigrati. Quindi “…accreditarsi come interlocutori responsabili per la co-gestione delle politiche sociali e d’impresa” non è un “tentativo”, ma fa parte di una linea politica organica e di una realtà di fatto sempre più strutturata e solida.
Anche un’ipotetica possibilità di recupero del patrimonio pubblico in dismissione, altro punto che gli autori richiamano, trova ostacolo nella stessa logica: la possibilità di usare il regime di cedolare secca è stato esteso anche alle locazioni brevi (B&B, affitti agli studenti,….), esercizi commerciali, studi professionali. Ancora una volta si torna agli interessi della piccola borghesia sfruttatrice e redditiera.
E cosa dire dei cunei fiscali, zeppe ai salari in sostituzione degli aumenti salariali. Li abbiamo definiti partite di giro a perdere – a perdere non solo nella mancanza di liquidità dell’Inps che si tradurrà in suo indebitamento, ma a perdere in termini di sistema tributario statale con la conseguente contrazione di risorse da dedicare ai servizi sanitari e sociali. Ma anche questo non basta, perché il governo Meloni agisce anche sugli attacchi a redditi e condizioni di vita con quella che potremmo definire “a modalità individuale”. Si tratta di eliminazione di molte spese che si portano in detrazione (oneri deducibili e detraibili) nella dichiarazione dei redditi – precedute dalla consueta campagna di propaganda che grida alle seicento detrazioni, “una selva orribile”, “segno di arretratezza, clientelismo, particolarismo”! Si tratta della contrazione del numero di medicinali mutuabili, si tratta di tutte quelle misure che non vengono percepite collettivamente e contemporaneamente come, ad esempio, gli aumenti tariffari sui trasporti, sulle autostrade, sui servizi postali.
Altro cavallo di battaglia, solo enunciato, è la lotta all’evasione fiscale ed alla speculazione. A parte la considerazione che il sistema capitalistico è speculativo per definizione, e se osserviamo casi e tendenze particolari in uno o più settori si tratta solo di “deviazioni standard” e non certo di comportamenti immorali da fugare con la scomunica papale o la microtassa che il governo vorrebbe applicare alle banche. A proposito, l’ultima novità è che questa non si applica se la sanzione (termine spropositato!) venisse capitalizzata. A parte questo, dicevamo, troviamo anche qui una protezione dalla speculazione che è semplicemente grottesca: un esempio davanti agli occhi di tutti è la gestione del prezzo dei carburanti. Le potenti contromisure del governo Meloni, oltre a limitarsi all’invettiva contro mai specificati responsabili (cosa costa?), si sono ridotte al perentorio “ordine” ai gestori di affiggere un cartello su cui è scritto qual è il prezzo medio dei carburanti in vendita. Ridicola? Non esattamente, se si pensa che con la politica del silenzio-assenso nessun apparato statale targato Guardia di Finanza si presenta a controllare il povero gestore. Lo stesso silenzio-assenso viene riservato agli stabilimenti balneari, ai tassisti proprietari dei veicoli e delle licenze (protagonisti, questi, di un allucinante servizio giornalistico in “Mi manda Rai3” del 23 settembre scorso), proprietari di bar, ristoratori, categorie che hanno oggi accesso agli stessi privilegi e alla stessa impunità di medici, dentisti e professionisti vari.
Una lotta per stabilire aliquote fiscali progressive? Certo, ma visto il Decreto di Delega al Governo in materia fiscale, approvato anche da consistenti pezzi della “opposizione” parlamentare, c’è poco da sperare e qui dovremmo aprire almeno un capitoletto su quel ramo del Parlamento che è vergogna chiamare “sinistra”. Questo è un altro alibi alla politica del sindacato che giustifica così la “concertazione”, che in realtà è subordinazione ai padroni e ai governi di turno, già da molti anni riparandosi dietro l’assenza di un quadro politico d’opposizione. Codismo, disorganizzazione delle lotte, “concertazione”/subordinazione! Ce n’è quanto basta per abbandonare queste istituzioni alle loro scelte, pervicacemente perseguite, e ripartire da una nuova organizzazione che non può prescindere dalle coordinate che abbiamo indicato, pena nuove illusioni e ulteriori arretramenti.
Quanto alla demagogia, poi, questo Governo non è da sottovalutare. Le bestialità di Lollobrigida sulla virtuosa dieta dei poveri, il feroce razzismo di Salvini sugli immigrati che arrivano con scarpe e gioielli, non deve far pensare ad un branco di stupidi facili da buttare giù con una semplice campagna di opinione pro-tolleranza modello “il manifesto”. Quando si tratta di regolare la cassa, i conti li sanno fare da veri usurai e così quando riducono le aliquote fiscali unificando le prime due (fino a 15mila e fino a 28mila di imponibile) e fissando per il nuovo scaglione un’aliquota del 23% (quella precedente era al 25% ma per la fascia 15-28mila), non bisogna fidarsi della propaganda. L’imponibile di reddito è aumentato ed aumenterà proprio ed anche grazie alla riduzione del cuneo fiscale e all’eliminazione di qualche detrazione e la perdita di entrata, se mai dovesse esserci, sarà minima. L’obiettivo vero è quello di arrivare alla tassa piatta che solleverà i redditi più alti da molta parte della tassazione.
Su questo campo la battaglia per una forte patrimoniale del 10% sul 10% delle maggiori ricchezze non è solo questione di propaganda ma di sostanza di classe. Il punto debole della manovra di tassazione inversa di questo governo è proprio la distribuzione della ricchezza e non basteranno l’elemosina della card dedicata, un buono benzina, la stessa diminuzione del cuneo fiscale. Tutta la manovra economica, compreso quella dei fondi del Pnrr, comporta un deficit che può mandare in default il bilancio dello Stato. Il costo degli interessi sul debito pubblico che erano 60 e più miliardi di euro nel ’19 sono saliti gradualmente a 81,5 nel 2023, e saranno di 80 miliardi nel ’24 e di 87 nel ’25. Dal 2009 al 2022 sono stati pagati 990 miliardi di interessi passivi sul debito pubblico con percentuali sempre crescenti, e a pagare questo debito sono state sempre e solo i proletari. Per quanto sia transitoria, per quanto possa anche essere non del tutto destinata alla spesa sociale, l’imposizione di una forte patrimoniale deve diventare una delle battaglie del proletariato. Tempo fa avevamo sintetizzato in un post la questione fiscale da un punto di vista di classe (detta molto in breve), e lo riproponiamo qui.