Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
Il destino, il caso, l’apocalisse, il finto cordoglio di circostanza del sindaco di Venezia, di Meloni, Zaia, von der Leyen, Macron, basta così non ne possiamo più, la benedizione delle salme da parte del patriarca, tre giorni di lutto…
E poi “ma come siamo stati bravi, ma come sono stati veloci ed efficienti i soccorsi”, il Veneto, quando dici il Veneto, etc. In realtà sono arrivate molto prima le volanti della polizia che le ambulanze e i vigili del fuoco; e i primi tra tutti a buttarsi tra le fiamme a mani nude per salvare i feriti sono stati, guarda te, due operai della vicina Fincantieri, Boubacar Tourè e Godstime Erheneden, mentre da sopra gli italianuzzi di passaggio filmavano la scena forte…
Ma la questione più importante – perché è successa questa strage? – resta avvolta nel “mistero”, bisogna stare molto attenti a non urtare certi interessi. “I misteri della strage” titola oggi Il Gazzettino. Che, però, è comunque costretto a fornire due importanti indizi di colpevolezza che vanno entrambi in direzione delle istituzioni che ora si congratulano freneticamente con sé stesse.
Il primo è sul guardrail “forte come un panetto di burro” (“non era una barriera, era una ringhiera”), sul quale l’autobus guidato da Alberto Rizzotto si è poggiato per un po’, salvo poi precipitare nel punto in cui, pare, lo stesso guardrail arrugginito, vecchio di più di cinquanta anni, di 55 centimetri di altezza, era già interrotto. Da molti anni era stata segnalata la necessità prioritaria di “sostituzione delle barriere stradali e dei parapetti esistenti”. Nella relazione tecnica che ha preceduto l’affidamento dell’appalto per restaurare questo cavalcavia della morte si precisa che le nuove barriere debbono essere “di adeguata classe in relazione al traffico” (che in quel punto è indiavolato, e spesso fatto di mezzi pesanti) e “al contesto ambientale”, ossia la presenza nelle adiacenze di infrastrutture viarie e ferroviarie. L’indicazione è precisa: “si prevede che per la quasi totalità le barriere siano dotate di rete antisasso, con altezza minima di 300 centimetri” (tre metri), e che le barriere di protezione delle auto e dei mezzi che percorrono il ponte sia di tipo H4, in acciaio, di altezza superiore al metro e 40 centimetri. Lo squallido scaricabarile tra amministratori porta l’attuale giunta di centro destra (al governo di Venezia da 8 anni, non da 8 giorni) a dire che per ristrutturare il cavalcavia “ci stiamo mettendo 6,5 milioni di euro, quelli che andavano spesi 15 anni fa”, ossia quando al governo della città c’era il centro-sinistra. Da quel che si riesce a capire, andavano spesi anche prima, molto prima. Ed ecco quindi un interrogativo elementare: se questa brava gente sapeva dell’urgenza dei lavori sul cavalcavia, perché ci ha impiegato 8 anni a provvedere? Perché, di qualsiasi colore siano, tutte le amministrazioni “pubbliche” sono al servizio di grumi di interessi imprenditoriali privati (massimamente quella in carica a Venezia, guidata da un imprenditore corsaro che ha fatto fortuna trafficando in braccia nel mercato del lavoro con la sua agenzia interinale beffardamente denominata Humana…), perché mettono lo sviluppo e la sicurezza dei trasporti pubblici, la mobilità collettiva, all’ultimo posto. Fatto sta che là dove è avvenuta la strage, non esisteva alcuna barriera di protezione dalla possibilità di precipitare al suolo da 15 metri di altezza, e per di più su fili del trasporto ferroviario – barriere che sarebbero state di grandissima utilità perché, questo è certo al 100%, il pullman andava a ridottissima velocità (30 km l’ora circa).
Il secondo indizio di colpevolezza riguarda le condizioni di lavoro. Subito l’impresa per cui lavorava l’autista morto sul lavoro (La Linea spa) si è precipitata a dichiarare che era in servizio da “sole due ore”. Da nessuna parte si è riusciti a sapere, però, da quanto era al lavoro quel giorno. Uno dei pochi autisti intervistati in merito fa in poche frasi il quadro veritiero della situazione in queste ditte di appalto (a proposito…) : “Le condizioni di lavoro, assieme agli stipendi, sono il punto critico di queste aziende. I turni non sempre agevolano le nostre condizioni operative. C’è un ‘nastro lavorativo’ troppo lungo, nel senso che le ore di lavoro sono poco più di sette come da contratto, ma l’arco di impegno è amplissimo. Abbiamo pause di due ore e spesso non riusciamo nemmeno a rientrare a casa e tornare. Spesso abbiamo turni spezzati in tre parti. Stamani, tanto per fare un esempio, ho fatto due ore, poi pausa e altre due ore, e tornerò al lavoro stasera per altre tre ore e mezza; in pratica abbiamo turni che cominciano alle 4 di mattina e finiscono alle 7 di sera. Fin che sei giovane lo sopporti, anche se a fatica, ma molti lasciano l’impiego proprio per questo e per le paghe basse.”. E racconta come lui stesso, molto giovane, abbia avuto un incidente per un colpo di sole.
Se la causa del disastro è stata, è anche possibile, un malore improvviso dell’autista, a cosa attribuirlo? Perché la sua ditta non ha fornito subito chiarimenti in proposito? Ed in ogni caso, quali misure preventive prendono le imprese di trasporti, sia pubbliche che private, per prevenire “incidenti” del genere? La domanda è retorica poiché tutti sanno, in particolare quelli/e che oggi ostentano un lutto inesistente, che da decenni è in atto un allungamento degli orari di lavoro, si stanno intensificando le prestazioni di lavoro, c’è uno stress, un affaticamento fisico e psichico crescente da lavoro, tanti lavoratori sono costretti a ricorrere a medicine e/o si buttano sulle droghe per cercare di resistere e ‘potenziare’ le proprie prestazioni, c’è il logoramento da precarietà del lavoro e da ansia di perdere il lavoro. Si lavora insomma con crescente fatica. Gli “improvvisi malori” che si vuol far apparire come dovuti al destino, al caso, a incomprensibili ragioni, hanno le proprie radici esattamente in questi processi.
Inutile dire che il ministro dei trasporti, tale Salvini, ha immediatamente sentenziato che non c’entrano nulla le barriere, bisogna invece indagare sulle batterie elettriche (e sulla Cina, implicitamente, visto che l’autobus elettrico era di fabbricazione cinese). Non si può escludere, allo stato, un improvviso guasto tecnico del mezzo di trasporto, ma – a stare alle ricerche effettuate finora in una serie di paesi – non sembra che i veicoli elettrici siano a maggior rischio di incendio, semmai a maggiore difficoltà di spegnimenti degli incendi (il che, comunque, mette in evidenza quanto poco miracolose siano le nuove tecnologie falsamente “green”, anche a prescindere dalla devastazione ambientale e lavorativa che è necessaria alla loro produzione). In questo specifico caso l’incendio sembra scoppiato dopo la caduta dell’autobus sulla sottostante infrastruttura ferroviaria, e non pare la prima causa dei 21 morti. Non una parola del suddetto ministro circa le condizioni di lavoro, si capisce – del resto, non risulta che abbia mai lavorato. A meno di considerare “lavoro” il varare norme e provvedimenti di polizia criminali contro gli immigrati, e contro i proletari in genere. Anche nel caso dei suoi famigerati decreti del 2018, infatti, si è limitato a fare copia e incolla dalle veline fornitegli dai padroni della logistica…
La morale di questa tragica vicenda, per noi, è che non c’è nulla di misterioso: in questa società dominata dalla legge del profitto e dalla classe dei profittatori, le vite dei comuni mortali valgono poco, e più comuni mortali dei salariati non ce n’è, La sicurezza dei comuni mortali è solo un costo passivo per le imprese e per lo stato, sia sulle strade che sul lavoro – vi dice niente la strage operaia di Brandizzo, o la strage operaia della Thyssen Krupp? E tutti i giorni l’elenco delle vite distrutte è corredato dall’ipocrisia dei governi di tutti i colori che serve proprio a mistificare questa cruda verità. Tanto, qualche addolorato messaggio di cordoglio non si nega a nessuno – fin che dura.