Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
Fin dal primo momento – denunciando le finalità di dominio e di sfruttamento dell’invasione russa dell’Ucraina – abbiamo presentato Zelensky come l’espressione non di un inesistente lotta di autodeterminazione, bensì di un nazionalismo in affitto alle grandi potenze occidentali, Usa in testa, un uomo, se così si può dire, che avrebbe portato al disastro il suo paese, e – soprattutto, è questo che ci riguarda direttamente – il proletariato dell’Ucraina.
Ora i contorni di questo disastro, che non è certo limitato al presente (la guerra è già perduta) ma si proietta verso un futuro ancor più catastrofico del presente, cominciano ad essere più netti: il paese che è stato per secoli “il granaio di Europa” (ed in parte del mondo), una fonte di vita e di riproduzione della vita cioè, si appresta a diventare “un hub degli armamenti”, un centro della produzione di strumenti di morte in proprio e, soprattutto, per conto dei suoi padrini-padroni. In termini che non possono lasciare alcun dubbio, specie in questi giorni, i cosiddetti analisti militari la pongono così: “L’Ucraina diventerà l’Israele di Europa“. Del resto, ad un simile tragico destino di ultra-bellicismo aveva già fatto un riferimento retorico, mesi fa, lo stesso Zelensky; ora – però – siamo all’avvio dei piani operativi.
Qualche settimana fa, infatti, si è tenuto a Kiev il primo forum internazionale della cosiddetta “Alleanza delle industrie della difesa”, presenti 252 imprese del settore bellico di 30 diversi paesi. Davanti a questo consesso di liberatori di popoli, un impettito Zelensky ha lanciato l’entusiasmante progetto di costruire in Ucraina, e “con l’Ucraina”, “l’arsenale del mondo libero“, vantando una capacità bellica che costituisce “un unicum sul panorama mondiale”, in quanto – sulla pelle di centinaia di migliaia di ucraina comuni comandati al macello – ha imparato ad usare gli armamenti della Nato, conservando ancora memoria e residui di un arsenale bellico di derivazione “sovietica”.
A raccogliere l’esaltante progetto che porterà progresso e felicità agli ucraini, c’erano esperti di promozione dei diritti umani quali il ministro della difesa francese Lecornu (appena preso a calci in culo in Africa occidentale, in affannosa cerca di rivincita), e altissimi funzionari di imprese quali la turca Baykar, produttrice, tra le altre gioie, di droni da combattimento, la britannica BAE System che conta di costruire in Ucraina un impianto per la produzione di cannoni leggeri da 105 millimetri, la tedesca Rheinmetall che si è impegnata ad aprire entro un anno uno stabilimento per la produzione e riparazione di carri armati (si presume anche i Leopard). Ancora non è chiaro, invece, quale delle quattro grandi industrie della morte statunitensi che hanno beneficiato alla grandissima di questi 20 mesi di guerra (Lockheed Martin, Raytheon, Boeing e Northrop Grumman) avrà la parte del leone, ma si può esser certi che a loro spetterà gran parte del tesoro. L’Italia era presente al consesso di fine settembre con poche imprese e personaggi di basso profilo, perché è stata sopravanzata dagli altri concorrenti, e le spettano perciò solo modeste libbre della carne ucraina delle prossime generazioni. Ma c’era, eh, tranquilli, c’era. E poi, come al solito, la sua massima abilità è muoversi negli interstizi, magari acquistando quote azionarie delle imprese che vinceranno le gare.
Avanti così!