Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
Bangladesh:
la durissima lotta delle operaie e degli operai del tessile-abbigliamento
per salari “giusti ed equi” e contro la repressione
– Giulia Luzzi
A fine ottobre, inizio novembre, decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori bengalesi del tessile-abbigliamento sono scesi in strada nei distretti tessili attorno alla capitale Dhaka – Gazipur, Savar, Ashulia, Hemayetpur … – per manifestare la loro rabbia. Hanno fermato l’attività in 500 fabbriche, hanno eretto barricate per le vie di Dhaka, bloccato arterie stradali tra cui l’autostrada Dhaka-Mymensingh; si sono scontrati con la polizia, 3000 i poliziotti dispiegati, difendendosi dai loro attacchi con lanci di mattoni, due le vittime e decine di feriti.
Due le principali rivendicazioni: un salario minimo garantito e NO alla repressione contro il movimento di lotta, riassunte su questo striscione:
… দাবি মানতেপ হবে, নিম্নতম মজুরি… আমার শ্রমিক ভাই-বোনদের উপর হামলা কেন,… হামলাকারীদের অবিলম্বে আইনের আওতায়… Le nostre richieste devono essere accettate, salario minimo. No all’attacco ai nostri fratelli e sorelle lavoratori … Gli aggressori siano immediatamente assicurati alla giustizia …
Nel filmato pubblicato da una TV francese (1) un giovane operaio grida: “Non lasceremo le strade finché non ci pagheranno quello che vogliamo. Vogliamo 196 euro al mese, un salario giusto ed equo.”
Sono oltre 4 milioni i lavoratori del settore tessile-abbigliamento distribuiti in circa 3500 stabilimenti, il cosiddetto Ready Made Garment (RMG), e sono per l’85% donne. Producono circa l’83% delle entrate derivanti dalle esportazioni, per un valore di 47miliardi di $ nel 2022-23 – un raddoppio rispetto allo scorso decennio che permette al Bangladesh di contendere alla Cina la posizione di maggiore esportatore globale del settore (2).
Il loro lavoro, retribuito con bassissimi salari, arricchisce gli imprenditori locali e ancor più i loro committenti esteri, per lo più americani ed europei, grandi marchi come Aldi, Asda, Asos, Bestseller, Gap, H&M, Inditex, Levi’s, Lulumond, Marks & Spencer, Next, Primark, Puma, Tesco, Uniqlo, WalMart, Zalando, Zara… e gli italiani Valentino, IT Holding, La Perla, Armani, Mariella Burani, Laura Biagiotti, Roberto Cavalli, YesZee, Manifattura Corona, Pellegrini, Benetton.
Come vivono?
I salari. Il salario minimo ufficiale attuale è di 74$ al mese (8000 taka), conquistato con forti lotte nel 2019, raddoppiando quello precedente. Un salario che ora copre meno di un terzo del costo della vita di una famiglia di 4 membri a Dhaka (3).
Un salario molto inferiore a quello dei loro compagni di classe cinesi, cambogiani e pakistani, che li costringe a innumerevoli ore di straordinario (4) per potersi pagare vitto e alloggio, il cui costo nei sobborghi di Dhaka è fortemente aumentato, mediamente del 16% tra il 2019 e il 2021.
Per avere un’idea del livello di sfruttamento della forza lavoro, cioè quale quota del lavoro vada a chi lavora e quale al Capitale, (padrone della fabbrica, commerciante, appaltatore, banche…) basta un esempio. Come sottolineava alcuni anni fa’ Clean Clothes Campaign (5) al lavoratore va solo lo 0,6% del prezzo al dettaglio di una t-shirt, 6 millesimi!
C’è poi la grande questione della sicurezza nei luoghi di lavoro, solo parzialmente migliorata dopo il grande disastro del 2013, con il crollo del Rana Plaza, che vide 1134 vittime e oltre 2500 feriti. Su questa tragedia rimandiamo alla interessante lettura di Carmilla Online (6).
Un’indagine del 2018 (7) sulle condizioni delle fabbriche tessili del Bangladesh rilevò che erano ancora esposti a rischi mortali i lavoratori di circa 3.000 delle 7.000 fabbriche del paese, rischi dovuti a vari fattori, dalla mancanza di attrezzature antincendio a gravi difetti strutturali. Si tratta in genere di piccole fabbriche, in subappalto di fabbriche più grandi che lavorano per marchi internazionali.
Le metropoli
Lo sviluppo urbano della capitale con i suoi sobborghi, la Grande Dhaka – che oggi conta circa 23,2 milioni di abitanti, – è avvenuto in modo caotico, con un aumento medio annuo del 4,2%. Sotto la spinta di una robusta crescita economica (8) che ha visto insediarsi nelle sue periferie numerose fabbriche manifatturiere, Dhaka ha attirato e continua ad attirare dalla miseria delle campagne centinaia di migliaia di uomini e donne alla ricerca di migliori condizioni. Quest’anno ne sono giunti 731500. (9). Fuga dalle campagne verso le grandi città, due in particolare dove si concentra l’80% delle migrazioni interne, la capitale Dhaka e Chittagong nel S E.
Uno sviluppo economico che proprio a causa della sua velocità non può che scuotere profondamente il tessuto sociale del paese, e assieme ad esso il rapporto uomo-natura. Il tasso di mortalità infantile è ancora a circa il 21,5‰, dieci volte maggiore di quello in Italia (2,1‰), pur essendo diminuito di quasi cinque volte dal 1990 (99,4‰) (10). Il fatto che di questa mortalità poco più della metà riguarda i neonati è senz’altro da collegare anche al dramma delle spose bambine.
Secondo la Banca Mondiale (BM), la pandemia Covid-19 ha invertito anche in Bangladesh la tendenza alla riduzione della povertà dei due precedenti decenni. Nel dicembre 2019, il tasso di povertà era, secondo il governo, al 21,8%, mentre secondo rilievi della BM, derivanti da interviste telefoniche, nel 2020 esso era aumentato del 7%, giungendo al 30%, tra 17,5 e 20 milioni di nuovi poveri, che dispongono cioè di meno di 2 euro al giorno…
I più “fortunati” di coloro che sono immigrati nella capitale trovano un posto di lavoro che li costringe a lavorare in certi periodi oltre 10 ore al giorno, per sette giorni la settimana, durante le quali non hanno altra scelta che abbandonare sulla strada i bimbi che si sono portati appresso.
Non potendosi permettere il costo di un alloggio singolo, il 97% delle operaie/i (11) deve accettare di vivere in condizioni insalubri, con alloggi promiscui in dormitori o baracche, tetti in lamiera, cinque-sei per stanza, un solo servizio sanitario e un solo fornello per cucinare.
La città, la “bolgia infernale” – come la chiama un missionario che laggiù opera da decenni – li sommerge nel suo traffico senza regole, rumoroso e insostenibile, ammassi di fili elettrici sospesi sulle strade suggeriscono quale sia l’efficienza delle forniture, reti idriche e fognarie sono del tutto carenti o assenti.
È contro queste condizioni di vita che i lavoratori bengalesi stanno lottando da inizio anno, rivendicano un salario minimo mensile pari a 196€, 23000 taka, il minimo per vivere dignitosamente in Bangladesh e tre volte quello medio attuale (12).
La protesta dei lavoratori del tessile si è andata rafforzando mentre è in corso un violento scontro tra i due maggiori partiti della borghesia bengalese capeggiati dalle due Begum, “signore di alto rango”. Tra la prima ministro Sheik Hasina del partito Hawami League, in carica dal 2009, e la sua pluridecennale rivale Khaleda Zia del partito BNP, che chiede le dimissioni di Hasina per consentire la “neutralità” in preparazione delle elezioni del prossimo gennaio. In questo scontro si presenta il rischio che il partito di opposizione cerchi di cavalcare demagogicamente il movimento di protesta dei lavoratori. Lo denuncia il presidente della Bangladesh Sramik Federation (Federazione dei lavoratori bengalesi), Shahjahan Khan.
La libertà di organizzazione dei lavoratori è contrastata dal padronato, sia con la creazione di sindacati gialli, che con una serie di ritorsioni, licenziamento compreso, e se non basta repressa dallo stesso governo con un apposito corpo di polizia, la polizia industriale, istituita per la repressione delle agitazioni sindacali! Persoffocare le proteste operaie in corso sono stati organizzati pattugliamenti congiunti nelle zone industriali dell’abbigliamento del Battaglione d’azione rapida (RAB) e della Guardia di frontiera del Bangladesh (BGB), che operano appunto assieme alla polizia industriale e alle forze dell’ordine locali.
Lo scorso settembre il governo bengalese, anche su pressione internazionale, ha aperto la possibilità di organizzazione sindacale per le Zone Economiche Speciali, in precedenza vietata, misura che ha promesso di implementare dal 2024, mentre rimane il divieto per i lavoratori di costituire un sindacato nelle Zone di Trasformazione per l’Esportazione. Peccato che gran parte della produzione industriale del Garment sia orientata all’esportazione!
Dunque, sfidando l’apparato poliziesco e la legislazione anti-operaia, il 22 ottobre un corteo in rappresentanza di 65 federazioni sindacali del settore, riunite nella Garment Workers Alliance, ha marciato verso la sede della “Commissione per il salario minimo” per dire NO alla proposta del padronato di un aumento del 25%, a 10400 TK ($94), perché del tutto insufficiente a coprire l’aumento dei prezzi. L’associazione padronale del settore BGMEA ha tentato di giustificare la propria offerta come difesa dell’occupazione nella piccola e media industria che produce la maggior parte della merce esportata, e che non sarebbe in grado di sostenere gli aumenti salariali richiesti. Una argomentazione che in realtà, visti i lauti margini di profitto del settore, serve a dividere i lavoratori delle diverse realtà produttive.
I salari delle operaie ed operai del RMG bengalese si trovano negli ultimi anni a competere con quelli ancora inferiori dei loro compagni di classe di altri paesi, in particolare Myanmar ed Etiopia. Qui, nel parco industriale di Hawassa, è accorsa una serie di marchi del tessile-abbigliamento che prima esportavano principalmente dal Bangladesh. Un opuscolo pubblicitario del governo etiope di Abiy Ahmed Ali diceva: “Manodopera a buon prezzo e qualificata: ¹/7 della Cina e ¹/2 del Bangladesh”. Sarà per “aiutarli a casa loro”, cioè per sfruttare i lavoratori autoctoni a queste condizioni, che anche il primo ministro italiano, Giorgia Meloni, è corsa a metà aprile in Etiopia ad incontrare il suo omonimo?
Le sfide che si presentano alle lavoratrici e lavoratori bengalesi nella loro lotta per i diritti sindacali, per il salario minimo e per le condizioni di vita e di lavoro sono pesanti: rischio di divisione del fronte interno, utilizzo politico del movimento da parte dei due maggiori partiti della borghesia e competizione salariale al ribasso con i lavoratori di altri paesi in via di sviluppo, etiopi in particolare. Queste sfide possono essere affrontate solo ponendosi sul terreno della lotta di massa determinata, come già sta avvenendo, e allargandola di continuo a nuovi strati di proletari: infatti è solo nello scontro con la classe sfruttatrice, il suo stato e le imprese multinazionali, per lo più statunitensi ed europee, che dettano legge anche nel settore del tessile abbigliamento, che le operaie e gli operai del Bangladesh potranno acquisire una piena coscienza di classe dei propri interessi e degli interessi comuni come classe lavoratrice internazionale.
Video suggeriti
- 2017, prodotto da Chaumtoli Huq: https://vimeo.com/214163891
- 2021, durante la pandemia covid: https://it.euronews.com/2021/07/31/bangladesh-la-rabbia-e-la-paura-dei-lavori-tessili
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Note
(2) Dati dell’associazione padronale BGMEA; Daily Star, 13.08.’23
(3) Clean Clothes Campaign, Background Paper, The Bangladesh Minimum Wage Struggle for 23000 TK, agosto 2023.
(4) https://workerdiaries.org/living-wage-living-planet-part-three/
(5) Una associazione fondata nei Paesi Bassi nel 1989, divenuta una rete internazionale di oltre 235 organizzazioni in 45 Paesi che collega organizzazioni dei lavoratori a domicilio, sindacati di base, organizzazioni femminili e sindacati, organizzazioni per i diritti del lavoro e femministe.
(6) https://www.carmillaonline.com/2016/07/10/morire-a-dacca/; https://www.carmillaonline.com/2016/07/17/morire-a-dacca2/
(7) Condotta dal Center for Business and Human Rights della ew York University’s Stern School of Business.
(8) La crescita del PIL del Bangladesh, a prezzi di mercato in valuta locale costante, anno su anno: 2019 7,88%; 2020 3,45%; 2021 6,94%; 2022 7,10%. Dati Banca Mondiale su Macrotrends.
(9) World Population Review. Nel 1950 la popolazione della capitale era di 335mila. Su stime e proiezioni del World Urbanisation Prospects dell’ONU. Gli abitanti della sola Dhaka, senza i sobborghi, erano 8,5 milioni nel 2018. Alle migrazioni interne si aggiunge l’emigrazione verso l’estero, verso il Medio Oriente e il Sud-Est asiatico, e verso l’Europa centrale e mediterranea, con un saldo migratorio medio annuale attorno ai 500mila.
(10) Dati Macrotrend.
(11) Research Gate, luglio 2016: A study on housing condition and related service facilities for garment workers in Savar, Dhaka, Bangladesh.
(12) Il costo della vita è stato calcolato rispettivamente in 33.368 Tk a Dhaka, e in 29.721 Tk a Chittagong. 1 €= 117 Taka (al 6 dic. 2023)