Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
Sopra la provocatoria “Marcia delle bandiere”, nella quale è ritornante l’appello (se non il tentativo) di prendere d’assalto la moschea di Al-Aqsa; sotto Jabalia, dopo che Israele ha esercitato il suo “legittimo diritto all’autodifesa”…
Questo articolo di I. Pappé va molto al di là della fotografia di Israele come “paese delle quattro tribù” (arabi, ebrei laici, ebrei religiosi, ebrei ultra-ortodossi) scattata nel giugno 2015 dall’ex-presidente Rivlin perché mostra come dalla crisi morale e materiale della vecchia Israele sionista “laica e liberale” (tale non certo con i palestinesi) sia nata una nuova Israele ultra-sionista, caratterizzata da un sempre più fanatico fondamentalismo religioso e da un espansionismo ultra-bellicista determinato a far propria almeno tutta la Palestina storica, ma che in realtà non intende porre limiti alle proprie frontiere.
La doppia crisi di Israele, oltre ad essere senza dubbio un aspetto della crisi del capitalismo globale e, in essa, del blocco occidentale, è dovuta all’irriducibile forza di resistenza delle masse palestinesi oppresse: “se non fosse stato per la resistenza e la resilienza palestinese, la legittimità e la moralità dello stato ebraico non sarebbero state messe alla prova”, scrive giustamente Pappé. E neppure sarebbe stata messa in discussione Israele come la “start up Nation della cibersecurity”, destinazione privilegiata di grossi investimenti esteri, – già prima del fatidico 7 ottobre, infatti, gli investimenti esteri in Israele erano crollati di circa il 60% per l’evidente crescita della sua instabilità sociale ed insicurezza. Un effetto moltiplicato in modo esponenziale dall’audace offensiva (di guerra, evidentemente) palestinese del 7 ottobre.
Questa nuova Israele, che preferisce cambiare nome e chiamarsi Giudea, appare difficile da tollerare perfino per moltissimi ebrei-israeliani, figurarsi per i palestinesi, sottoposti ad un’ulteriore stretta della già brutale oppressione coloniale – chi dimentica questo, dimentica tutto, e ha bisogna di rappresentarsi in maniera schiettamente razzista i palestinesi come burattini che prendono ordini da Teheran attraverso Hamas, ed insorgono sulla base di comandi esterni, non per l’insopportabilità spinta all’estremo della loro esistenza sotto l’occupazione ultra-sionista.
Proprio in merito a questo tema, nell’articolo di Pappé c’è una rivelazione notevole: “In un incontro a Teheran, l’Iran ha consigliato al movimento palestinese Hamas e al movimento libanese Hezbollah di astenersi da qualsiasi azione e di lasciare che all’interno di Israele si verifichi un’implosione“. Lo storico ebreo israeliano dissidente si dichiara in disaccordo con questo consiglio (a proposito di comandi da Teheran…) perché gli sembra invece il momento giusto per profittare del collasso dei due pilastri principali su cui Israele si è retta per decenni. Pappé non pensa, evidentemente, all’azione del 7 ottobre, ma alla necessità di rilanciare comunque, senza indugi, la prospettiva di una Palestina “liberata e de-sionistizzata”.
L’articolo di Pappé, che è dell’agosto scorso, ed è comparso sul “The Palestine Chronicle”, risponde a una logica di lettura degli avvenimenti storici differente dalla nostra; resta nondimeno molto utile per la sua lucidità di analisi sul collasso dei due pilastri storici dello stato sionista e per il sopravvento di un ultra-sionismo strutturalmente ancora più estremista e stragista.
Redazione Il Pungolo Rosso
I due pilastri di Israele, e il loro collasso
– Ilan Pappé
La legittimità di Israele – di più, la sua stessa possibilità di sopravvivenza – poggia su due pilastri principali.
Primo, il pilastro materiale, che comprende la sua forza militare, le competenze high-tech e un solido sistema economico.
I succitati fattori consentono allo Stato di costruire una forte rete di alleanze con Paesi che vorrebbero beneficiare di ciò che Israele ha da offrire: armi, cartolarizzazione, attrezzatura per lo spionaggio, conoscenza high-tech e sistemi modernizzati di produzione agricola.
In cambio, Israele non chiede solo denaro, ma anche un supporto alla propria immagine internazionale in erosione.
Secondo, il pilastro morale. Questo aspetto era particolarmente importante agli albori del progetto sionista e dell’essere Stato di Israele.
Israele ha venduto al mondo una duplice narrazione: primo, che la creazione di Israele era l’unica panacea per l’antisemitismo, e secondo, che Israele è stato costruito in un luogo che apparteneva religiosamente e culturalmente al popolo ebraico.
La presenza di una popolazione indigena, il popolo palestinese, è stata inizialmente negata del tutto; poi, è stata sminuita. E quando l’esistenza dei palestinesi fu in ultimo riconosciuta, fu presentata come una sfortunata coincidenza.
Poi Israele, l’autoproclamata “unica democrazia del Medio Oriente”, si è autodefinito un generoso pacificatore disposto a risolvere il problema offrendo “concessioni” sul suo presunto diritto all’intera Palestina storica.
Crollo della “moralità”
È difficile individuare esattamente il momento in cui il pilastro morale su cui si sosteneva Israele ha cominciato a sgretolarsi, sino al punto in cui ora sta crollando d’innanzi ai nostri occhi.
Alcuni direbbero che l’inizio di questo processo di erosione coincida con l’invasione israeliana del Libano nel 1982, mentre altri considerano la Prima Intifada palestinese del 1987 come il momento di trasformazione. In ogni caso, l’immagine di Israele all’interno dell’opinione pubblica mondiale è cambiata da decenni.
Ma ciò che spesso viene ignorato è che, se non fosse stato per la resistenza e la resilienza palestinese, la legittimità e la moralità dello Stato ebraico non sarebbero state messe alla prova, mentre ora esse sono costantemente scrutinate rispetto al diritto internazionale, al buon senso e al comportamento etico.
Direi che già a partire dal 1948 – quando Israele fu dichiarato uno Stato sulle rovine della Palestina storica – la realtà dei fatti è divenuta nota a sempre più persone in tutto il mondo. Questo è stato il risultato diretto degli sforzi compiuti dai palestinesi e dalle loro sempre crescenti reti di solidarietà.
L’immagine di Israele come stato democratico e membro delle “nazioni civilizzate” – sia a livello interno che internazionale – non sembrava corrispondere alle nuove informazioni. La cosiddetta democrazia israeliana si è rivelata in misura sempre crescente un regime di apartheid, che abusa quotidianamente dei diritti civili e umani dei palestinesi.
La scoperta della vera natura di Israele e il diffuso rifiuto pubblico della narrativa israeliana non sembrano tuttavia essere stati registrati tra le élite politiche al potere e i governi di tutto il mondo, l’atteggiamento dei quali nei confronti di Israele è rimasto sostanzialmente immutato.
Al contrario, i governi del nord del mondo sono quelli in prima fila contro i vari movimenti di solidarietà con i palestinesi. Detti governi sembrano determinati a sopprimere la libertà di parola dei loro cittadini, legiferando contro le iniziative civili che richiedono il boicottaggio, le sanzioni e il disinvestimento da Tel Aviv.
Il Sud del mondo non è molto migliore, con governi e governanti che ignorano la richiesta di prendere una posizione ferma contro Israele. Ciò include i regimi arabi, che fanno la fila per normalizzare i loro rapporti diplomatici con Tel Aviv.
Fino alle ultime elezioni del novembre 2022 in Israele, sembrava che il silenzio e/o la complicità internazionale avessero protetto Israele dalla traduzione del cambiamento dell’opinione pubblica in [una serie di] azioni concrete. Prova di ciò è che il lavoro coraggioso e davvero impressionante di movimenti come il Movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) non ha influenzato nemmeno un po’ la realtà sul campo.
Fino al novembre 2022 supponevo che l’incapacità di tradurre l’opinione pubblica in politica tangibile fosse il risultato del cinismo dei nostri sistemi politici in tutto il mondo. Ora, però, credo davvero che solo un cambiamento nel modo in cui viene condotta la politica dall’alto potrà tradurre l’incredibile solidarietà con i palestinesi in un potere costruttivo sul terreno.
Quando Israele ha offerto alla Germania missili del valore di 4 miliardi di euro e ha offerto ai Paesi Bassi un altro tipo di missile del valore di 300 milioni di euro (per proteggerli da cosa, esattamente?), i commentatori politici israeliani hanno sostenuto che tali armi sarebbero servite come il miglior antidoto contro ciò che chiamavano la campagna per delegittimare Israele.
I media israeliani sono stati in realtà orgogliosi di annunciare che le armi permettono al paese di comprare il silenzio dell’Europa in modo che qualsiasi parola di condanna delle atrocità commesse dai soldati e dai coloni israeliani in Palestina non venga tradotta in fatti.
“Israele di fantasia” contro Giudea
Eppure c’è di più. Un certo elettorato ebraico all’interno di Israele si illudeva – e in effetti lo fa ancora – con il credere che l’Occidente sostenesse Israele perché esso aderisce a un “sistema di valori” occidentale basato sulla democrazia e sul liberalismo.
Chiamo questo costrutto “Israele di fantasia”.
Nel novembre 2022, l’Israele di fantasia è crollato a tutti gli effetti.
L’elettorato ebraico israeliano, che ha vinto le elezioni, non ha mai avuto molta ammirazione per i “sistemi di valori” occidentali di democrazia e liberalismo.
Al contrario, desidera vivere in uno stato ebraico più teocratico, nazionalista, razzista e perfino fascista; uno che si estende su tutta la Palestina storica, compresa la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.
Gli israeliani chiamano questa idea alternativa di stato “Giudea”; un’idea ora in conflitto con quella di “Israele di fantasia”.
Al popolo della Giudea non interessa la legittimità internazionale. I loro leader e guru sono molto impressionati dai nuovi alleati di Israele nel mondo, siano essi i leader dei partiti di estrema destra in Occidente o i movimenti di estrema destra in paesi come l’India.
Questi leader nazionalisti e fascisti sembrano ammirare lo stato della Giudea e sono disposti a fornirgli una rete internazionale di sostegno. Ciò si è già tradotto in politiche in paesi in cui l’estrema destra è molto potente, come Italia, Ungheria, Polonia, Grecia, Svezia, Spagna e, se Trump dovesse vincere, anche negli Stati Uniti.
In superficie, sembrava che nel novembre 2022 si fosse presentato uno scenario molto cupo.
Questo, tuttavia, non è del tutto vero.
Il fallimento dello “Israele di fantasia” ha messo in luce un intrigante nesso tra i pilastri morali e materiali.
È emerso che il sistema capitalista neoliberista non ha motivo di investire nello stato della Giudea se davvero questo sostituisse lo “Israele di fantasia”. Le società finanziarie internazionali e l’industria high-tech internazionale considerano Stati come la Giudea come destinazioni instabili e rischiose per gli investimenti stranieri.
In effetti, stanno già ritirando i loro fondi e investimenti da Israele. Il movimento BDS dovrebbe lavorare molto duramente per convincere i sindacati e le chiese di tutto il mondo a disinvestire da Israele miliardi di dollari per compensare i fondi già fuggiti da Israele dal novembre 2022.
Questo tipo di disinvestimento non è guidato da motivazioni morali. In passato, Israele è stato una destinazione attraente per gli investimenti finanziari internazionali, nonostante la spietata oppressione dei palestinesi.
Ma sembra che l’immagine dello “Israele di fantasia”, e in particolare l’idea che il suo sistema giudiziario fosse in grado di proteggere gli investimenti neoliberisti e capitalisti, abbia convinto gli investitori stranieri a versare denaro in Israele con la previsione di buoni dividendi come contropartita.
Ora, la prospettiva che lo stato della Giudea sostituisca a quella dello “Israele di fantasia” sta seriamente compromettendo la sostenibilità economica dello stato ebraico. Pertanto, la capacità di Israele di utilizzare la propria industria o il proprio denaro per influenzare le politiche di altri paesi nei suoi confronti è più limitata.
È tempo di mobilitazione
Il crollo dello “Israele di fantasia” ha anche messo in luce le crepe nella coesione sociale e nella disponibilità di molti israeliani a dedicare tanto tempo ed energie al servizio militare quanto facevano in passato.
Inoltre, l’attacco al sistema giudiziario israeliano e l’erosione della sua presunta indipendenza esporranno i soldati e i piloti israeliani a possibili incriminazioni come criminali di guerra all’estero da parte di singoli paesi o da parte della Corte internazionale di giustizia (CPI). Il diritto internazionale, infatti, non può intervenire nelle questioni interne se i sistemi giudiziari locali sono considerati indipendenti e solidi.
Questo è un momento raro nella storia che apre opportunità a coloro che lottano per la liberazione e la giustizia in Palestina.
In un incontro a Teheran, l’Iran ha consigliato al movimento palestinese Hamas e al movimento libanese Hezbollah di astenersi da qualsiasi azione e di consentire a un’implosione di verificarsi all’interno di Israele.
Non sono d’accordo con ciò – anche se non intendo dire che esista, o che ci sia mai stata, una possibilità militare per liberare la Palestina. Tuttavia, questo è il momento per stimolare la resistenza popolare palestinese e unire sia i palestinesi che i loro sostenitori attorno ad una visione e ad un programma concordati. Questa mobilitazione affonda le sue radici nella lotta nazionale palestinese per la democrazia e l’autodeterminazione sin dal 1918.
La futura Palestina liberata e de-sionistizzata può sembrare ora una fantasia, ma, a differenza dello “Israele di fantasia”, essa ha le migliori possibilità di galvanizzare ogni persona a livello locale, regionale e globale con un minimo di decenza. Essa fornirebbe anche un posto sicuro per chiunque viva attualmente nella Palestina storica o per chiunque ne sia stato espulso – i rifugiati palestinesi in tutto il mondo.