Su The Guardian del 9 gennaio, l’ambientalista Nina Lakhani presenta ad un pubblico decisamente più vasto uno studio appena pubblicato sul Social Science Research Network, che prova a stimare l’enorme, catastrofico impatto ambientale dell’operazione-genocidio sionista e occidentale a Gaza.
Secondo questo studio, che “si basa solo su una manciata di attività ad alta intensità di carbonio” e quindi molto probabilmente sottostima in modo significativo la distruzione ambientale provocata da Israele e i suoi protettori, “il costo climatico dei primi 60 giorni (…) è stato equivalente alla combustione di almeno 150.000 tonnellate di carbone“.
L’analisi compiuta da B. Neimark e altri ricercatori, “include la CO2 proveniente dalle missioni degli aerei, dai serbatoi e dal carburante di altri veicoli, nonché le emissioni generate dalla fabbricazione e dall’esplosione di bombe, artiglieria e razzi. Non include altri gas che riscaldano il pianeta come il metano. Quasi la metà delle emissioni totali di CO2 sono dovute agli aerei cargo statunitensi che trasportavano rifornimenti militari in Israele”.
E Hamas, e Hamas?, parlateci anche di Hamas! Ok, ecco la risposta che dà questa ricerca: “I razzi di Hamas lanciati su Israele nello stesso periodo hanno generato circa 713 tonnellate di CO2, che equivalgono a circa 300 tonnellate di carbone, sottolineando l’asimmetria delle macchine belliche di ciascuna parte”. Con linguaggio asettico, voi ossessionati da Hamas ricevete la meritata bastonata, questa volta data in numeri (ammesso che siate capaci di sentirla): 150.000 tonnellate di carbone, ed è una sottostima (il costo di soli due mesi di guerra colonialista) contro 300 tonnellate (la resistenza alla macchina di morte colonialista-imperialista del Comando unificato della resistenza, che non è solo Hamas). Vi basta?
La Nakhani nota, giustamente, che le forze armate di tutti i paesi, ma – ancora una volta – anzitutto dei più potenti paesi imperialisti occidentali, Stati Uniti in testa, “svolgono un ruolo enorme nella crisi climatica”, ma i loro misfatti “sono in gran parte tenuti segreti e non presi in considerazione nei negoziati annuali delle Nazioni Unite sull’azione per il clima” (altro piccolo test della estrema serietà delle Nazioni Unite…).
Lo studio presentato, perciò, “è solo un’istantanea dell’impronta militare più ampia della guerra… un quadro parziale delle massicce emissioni di carbonio e degli inquinanti tossici più ampi che rimarranno a lungo dopo la fine dei combattimenti”. Tanto per citare un solo macro-dato, “il costo del carbonio derivante dalla ricostruzione dei 100.000 edifici danneggiati di Gaza utilizzando tecniche di costruzione contemporanee genererà almeno 30 milioni di tonnellate di gas riscaldanti. Questo è alla pari con le emissioni annuali di CO2 della Nuova Zelanda e superiore a quello di altri 135 paesi e territori tra cui Sri Lanka, Libano e Uruguay”. Già, perché, al momento, gli edifici totalmente distrutti o danneggiati a Gaza sono tra il 36% e il 45% del totale!
E alla recente, farsesca conferenza Cop28 a Dubai, la delegazione israeliana si prodigò nel propagandare le mirabili conquiste dell’industria high tech di Israele in campi “quali la cattura e lo stoccaggio del carbonio, la raccolta dell’acqua e le alternative alla carne a base vegetale. “Il più grande contributo di Israele alla crisi climatica arriva sotto forma di soluzioni”, ha affermato Gideon Behar, inviato speciale per il cambiamento climatico e la sostenibilità.” Chiaro? Per noi basta così. Leggete il resto, con interessanti notizie sugli Stati Uniti e sull’industria bellica, su The Guardian.
https://www.theguardian.com/world/2024/jan/09/emissions-gaza-israel-hamas-war-climate-change