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[CONTRIBUTO] Dossier – No alla memoria a senso unico

Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dei compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):

Dossier – No alla memoria a senso unico

1. Introduzione

Abbiamo deciso di intervenire nel “giorno della memoria”, dominato dalla generalizzata esaltazione istituzionale del sionismo e dello stato di Israele (che è si materializzata in queste ore con lo spostamento coatto dei cortei per la Palestina previsti per domani 27 gennaio), a modo nostro. Partendo cioè dall’indiscutibile dato storico delle multisecolari persecuzioni e discriminazioni ai danni della massa degli ebrei, per poi andare a contestare lo sfacciato abuso che di questo indiscutibile dato storico si fa per legittimare, in generale, il colonialismo sionista, ed in particolare il genocidio in atto a Gaza per mano dello stato di Israele.

La storia delle persecuzioni e delle discriminazioni contro gli ebrei è lunghissima e tragica, e non si limita affatto allo sterminio operato in Europa dal nazismo. La sua partenza su larga scala coincide con l’assunzione del cristianesimo a religione di stato dell’impero romano, e in qualche caso è di poco anteriore. Uno dei primi pogrom anti-ebraici, val la pena di ricordarlo, avvenne alla metà del quinto secolo dopo Cristo su istigazione del papa Leone Magno, per il quale gli ebrei erano “animali selvaggi” (vi ricorda qualcosa che avete sentito di recente da un ministro israeliano che parlava dei palestinesi?), “scellerati, empi, abietti, carnefici di Dio (…), servi e mercenari di Satana”. C’è poi una vera e propria sequenza di uccisioni di massa degli ebrei nel periodo delle Crociate, che inizia nel 1096 e si protrae per un buon secolo, di persecuzioni e di espulsioni di massa degli ebrei dai territori che corrispondono ora alla Germania, alla Francia, all’Austria. Le accuse nei loro confronti furono delle più sanguinarie, inclusa, per gradire, la diffusione della peste. L’area in cui essi trovarono invece maggiori, enormemente maggiori, possibilità di pacifica convivenza fu in quel periodo storico, e in un lunghissimo periodo successivo, proprio quella che oggi si designa come arabo-islamica.

La matrice di questi assassinii e vessazioni fu senza alcun dubbio religiosa, cioè: cristiana (nel tempo, uniti cattolici, protestanti e ortodossi), e culminò nella condanna al rogo di 30.000 ebrei da parte dell’Inquisizione spagnola e nell’espulsione di massa degli ebrei da Spagna e Portogallo negli anni 1492-1496. In seguito, però, la matrice divenne più marcatamente sociale poiché per una serie di fattori, che non possiamo qui indagare, un consistente numero di ebrei si specializzò, fu costretto a specializzarsi (ad esempio attraverso il divieto di esercitare l’agricoltura, l’artigianato e altre attività economiche) nella riscossione dei tributi e nel prestito di denaro ad usura e/o su pegno – attività precluse per ragioni religiose ai cristiani, che naturalmente li rendevano invisi ai malcapitati che dovevano pagarli o che avevano bisogno di denaro, e li rendevano ricchi senza troppa fatica, temibili concorrenti degli usurai nativi – al punto che Abram Léon, un marxista ebreo polacco morto giovanissimo ad Auschwitz nel 1945, ebbe a coniare, per gli ebrei, nel suo Il marxismo e la questione ebraica (Samonà e Savelli, Roma, 1968), l’espressione “popolo-classe”, e a spiegare in questo modo perché fossero diventati il capro espiatorio di tutto il malessere sociale.

L’insieme delle vessazioni ai danni degli ebrei, la “ghettizzazione” sistematica cui erano sottoposti, i divieti che li mantenevano come un corpo separato all’interno delle popolazioni in cui vivevano, contribuirono al processo di trasferimento della loro identità religiosa in una etnico/nazionale, capace di sopravvivere all’apertura dei ghetti dell’epoca napoleonica e alla conseguente emancipazione. E questa “doppia identità” favorì la persecuzione degli ebrei fino alle forme genocidarie assunte dal nazismo.

La caratterizzazione degli ebrei come “popolo-classe”, efficace ma piuttosto sommaria, conserva comunque un suo fondamento fino a quando, con “l’esplosione demografica e l’avvento della società industriale anche nella popolazione ebraica avviene una forte polarizzazione sociale tra ebrei ricchi ed ebrei poveri, borghesia ebrea e proletariato ebreo, sempre più lontani e in conflitto tra loro secondo linee di classe, ma ‘uniti’ da una medesima condizione a-nazionale, da un medesimo accentuato ‘internazionalismo’, e dunque percepiti da tutti i nazionalismi europei ben prima di Hitler come un duplice agente ‘concordemente’ corrosivo della identità e della compattezza delle nazioni europee”, specie quelle in formazione (Pietro Basso, Razze schiave e razze signore, Angeli, 2022, pagg. 112-3).

La tragedia dello sterminio degli ebrei per mano del nazismo “è stata preparata in tutta Europa dall’onda dei nazionalismi. Nessuno dei nazionalismi europei può dirsene incolpevole. E non soltanto perché nessuna delle democrazie europee ‘anti-naziste’ levò un solo dito contro la ‘soluzione finale’, ma anche perché tutti i maggiori stati europei, insieme con la Chiesa, hanno concorso a produrre le condizioni che l’hanno resa possibile. Se lo scoppio della persecuzione anti-ebraica è stato così devastante in Germania negli anni ‘30 e ‘40, ciò si deve in misura determinante alla condizione rovinosa in cui la Germania venne a trovarsi per avere perso nella prima guerra mondiale ed essere stata sottoposta, con il trattato di Versailles, a imposizioni territoriali e finanziarie veramente strangolatorie. La devastazione sociale provocata dalla guerra, dalla crisi post-bellica, dalla parziale occupazione militare e dalle riparazioni fu un terreno ultrafavorevole all’attecchimento di entrambe le varianti antitetiche dell’anti-ebraismo” (Ivi, pagg. 114-5). Varianti presentate entrambe nel Mein Kampf sotto l’ingannevole etichetta comune dell’“ebreo internazionale”, ossia da un lato l’ebreo marxista, contro il quale Hitler chiamò ad una “guerra di annientamento” (e non si può dire che non sia stato di parola), e dall’altro l’ebreo agente del “giudaismo di Borsa internazionale”, un secondo tipo di ebreo con cui i rapporti del nazismo non furono esattamente antagonistici e di annientamento.

Per noi marxisti, insomma, lo sterminio della massa degli ebrei europei avvenuto nel corso del gigantesco macello della seconda guerra mondiale – ecco un’altra delle condizioni di contesto fondamentali, se si prescinde dalla quale si va sempre su false piste – non ha nulla di misterioso, di incomprensibile, di irrazionale [tra i tanti, gli studi di R. Hillberg, La distruzione degli ebrei di Europa, Einaudi, 1995, e quelli di E. Collotti, La Germania nazista, Einaudi, 1962, e Hitler e il nazismo, Giunti, 1994, sono istruttivi anche a questo proposito]. E sia ben chiaro: di tutta questa vicenda storica è necessario vitale conservare una giusta memoria, mai sottovalutando la semina dall’alto del razzismo che può ben attecchire anche a livello popolare, e nello stesso tempo evitando di fare abborracciati, improbabili, spesso controproducenti, paralleli storici.

Lo sterminio nazista della massa degli ebrei europei, dicevamo, non ha nulla di misterioso, di incomprensibile, di irrazionale, a meno che non si voglia chiamare in causa l’irrazionalità e la distruttività del capitalismo in tutte le sue varianti, la democratica non meno di quella nazifascista, specie nel corso dei conflitti inter-imperialistici (HiroshimaNagasaki, Dresda vi dicono qualcosa?). Ma non è questo che fanno gli apologeti del “giorno della memoria”. Al contrario essi insistono su ben altri tasti: proprio sulla unicità, sulla inesplicabilità, sul carattere “misterico” di quello sterminio (Novick ha parlato della costruzione di una “religione misterica” intorno ad essa nel suo The Holocaust in the American Life), sulla sua derivazione dall’“eterno odio” dei gentili contro gli ebrei. E in un modo o nell’altro questa presentazione della storia dello sterminio nazista suggerisce, e talvolta esplicita a chiare lettere, l’eccezionalità “ontologica” degli ebrei, ed il fatto che l’“unicità” delle sofferenze da loro subite gli attribuisce “diritti unici” – incluso, come avviene in questi giorni, il diritto al genocidio nei confronti del popolo palestinese, che sarebbe un abusivo occupante della terra che il dio degli ebrei ha assegnato loro dalla notte dei tempi e per sempre, il nuovo popolo di Amalec da sterminare “uccidendo uomini e donne, fanciulli e bambini, bovi e pecore, cammelli e asini” (1° libro di Samuele, 15, citato di recente da Netanyahu per giustificare la mattanza di Gaza, che naturalmente nessuno osa accusare di fanatismo religioso).

Contro questa ideologia bellicista e colonialista che sta alla base della fondazione e dell’azione permanente dello stato di Israele, difesa a spada tratta dall’imperialismo occidentale nel suo complesso, noi chiamiamo a testimoniare qui alcuni ebrei anti-sionisti. Lo facciamo intenzionalmente anche per sottolineare come uno dei tanti inaccettabili soprusi del delirio filo-sionista in corso in Europa sia identificare il sionismo e l’apparato di stato sionista con l’ebraismo, e ancor più identificarli con gli ebrei in quanto tali – la maggioranza di essi, tra l’altro, vive fuori da Israele, e la parte più valente di essi sta manifestando contro lo stato che pretende di rappresentarli fin dentro il congresso statunitense, opportunamente bollando Biden come un assassino.

Era inevitabile iniziare questo Dossier di contro-informazione e critica dell’ideologia dominante dall’Italia – il nemico principale, per noi internazionalisti, è qui, sono il governo e lo stato italiani, ed in questo caso dalla scuola italiana che organizza viaggi in Israele quasi fosse oggi il rifugio sicuro da un’eterna Auschwitz, una sorta di paradiso dei diritti universali, anziché lo stato fondato su una spietata pulizia etnica permanente, il costruttore del più grande carcere a cielo aperto del mondo (da leggere gli accurati studi di Ilan Pappé, La pulizia etnica della Palestina, e La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati, pubblicati entrambi da Fazi Editore), l’attore da tre mesi di un’efferata operazione-genocidio.

Proseguiamo poi con l’illustrazione della “industria dell’Olocausto” (Finkelstein); un flash sulle radici europee e moderne della “violenza nazista” (Traverso); il ricordo – per gli smemorati – del collaborazionismo di certi settori privilegiati del mondo ebraico nell’attuazione dello sterminio dell’ebreo-massa (H. Arendt), dal momento che, qualunque cosa si voglia dire in contrario, le classi contano (anche negli stermini); per chiudere con la questione dell’anti-semitismo e del “neo-antisemitismo”.

Troverete diversi suggerimenti di studio, ridotti comunque all’osso. D’altra parte chi voglia affrontare la “questione palestinese”, il suo rapporto con la “questione ebraica”, e la relazione tra questa, il sionismo e l’anti-sionismo, un intreccio storico-sociale e ideologico quanto mai complesso, senza le indispensabili conoscenze, può soltanto fare guai. Per sé e per gli altri.


Dossier – No alla memoria a senso unico

2. Quanto è smemorata la scuola italiana!

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3. N. Finkelstein e l’”industria dell’Olocausto”

“Industria dell’Olocausto” è l’espressione a cui Norman G. Finkelstein ricorre per descrivere l’impiego strumentale, “per fini di natura politica e di classe” (la classe sfruttatrice dei nostri tempi), del ricordo dello sterminio di cui furono vittima gli ebrei nel corso della Seconda Guerra Mondiale, un uso strumentale realizzato attraverso uno specifico modo di ricostruire e interpretare quello sterminio. Non ci nascondiamo i limiti di questo libro, come vedrete, ma riconosciamo all’autore, ebreo americano e figlio di sopravvissuti allo sterminio, di avere fornito dati ed esempi in abbondanza per giustificare l’espressione, o il concetto, da lui adoperati allo scopo di formulare un vero e proprio “atto di accusa” contro i promotori di questa vera e propria industria della falsificazione storica:
«Nelle pagine che seguono dimostrerò che “l’Olocausto” è una rappresentazione ideologica dell’Olocausto nazista. Come la maggior parte delle ideologie, mantiene un legame, per quanto labile, con la realtà. L’Olocausto non è un concetto arbitrario, si tratta piuttosto di una costruzione intrinsecamente coerente, i cui dogmi-cardine sono alla base di rilevanti interessi politici e di classe. Per meglio dire, l’Olocausto ha dimostrato di essere un’arma ideologica indispensabile grazie alla quale una delle più formidabili potenze militari del mondo, con una fedina terrificante quanto a rispetto dei diritti umani, ha acquisito lo status di “vittima”, e lo stesso ha fatto il gruppo etnico di maggior successo degli Stati Uniti”. [Da notare: Finkelstein usa l’espressione “Olocausto nazista” per indicare l’evento storico, e il termine “Olocausto” per indicare la sua rappresentazione ideologica.]

Ecco alcuni utili estratti da L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei. Con un saggio inedito scritto per questa nuova edizione. Milano: BUR, 2004. Di seguito ad essi, una nostra nota di commento al libro (e ai suoi limiti).

«L’informazione sull’Olocausto» osserva Boas Evron, rispettato scrittore israeliano, è in realtà «un’operazione d’indottrinamento e di propaganda, un ribollio di slogan e una falsa visione del mondo il cui vero intendimento non è affatto la comprensione del passato, ma la manipolazione del presente.» Di per sé, l’Olocausto nazista non è al servizio di un particolare ordine del giorno politico: può altrettanto facilmente motivare il dissenso o il sostegno alla politica israeliana. Filtrata dalla lente dell’ideologia, però, «la memoria dello sterminio nazista» fini col diventare, secondo Evron, «un potente strumento nelle mani della dirigenza israeliana e degli ebrei della diaspora». L’Olocausto nazista divenne «l’Olocausto» per antonomasia.

«Due assiomi centrali stanno a sostegno dell’impalcatura ideologica dell’Olocausto: il primo è che esso costituisce un evento storico unico e senza paragoni; il secondo è che segna l’apice dell’eterno odio irrazionale dei gentili nei confronti degli ebrei. Nessuna delle due affermazioni appare in interventi pubblici prima della guerra del giugno 1967, né, per quanto esse siano diventate la pietra angolare della letteratura sull’Olocausto, figurano negli studi critici sull’Olocausto nazista. D’altro canto, i due assiomi attingono a componenti importanti dell’ebraismo e del sionismo.

«Subito dopo la Seconda guerra mondiale, l’Olocausto nazista non era considerato un evento unicamente ebraico, tanto meno un evento storico unico. L’ebraismo americano, in particolare, si diede cura d’inserirlo in un contesto di tipo universalista. Ma dopo la guerra dei Sei Giorni, la Soluzione Finale fu radicalmente ridisegnata. «La prima e più importante convinzione che emerse dal conflitto del 1967 e che divenne l’emblema dell’ebraismo americano» fu, come ricorda Jacob Neusner, che «l’Olocausto […] era qualcosa di unicosenza paragoni nella storia umana». In un saggio illuminante, lo storico David Stannard mette in ridicolo la «piccola industria degli agiografi dell’Olocausto che sostengono l’unicità dell’esperienza ebraica con tutta l’energia e l’ingenuità di zeloti della teologia». Il dogma della sua unicità, dopo tutto, non ha senso.» [pp. 65-6]

«Il dibattito sull’unicità dell’Olocausto è sterile e in realtà l’insistenza sulla sua unicità ha finito col costituire una forma di «terrorismo intellettuale» (Chaumont). Coloro che mettono in pratica le normali procedure comparative della ricerca scientifica devono prima chiedere mille e una sospensiva per cautelarsi dall’accusa di «banalizzare l’Olocausto».

«Un corollario del dogma sull’unicità dell’Olocausto è che esso è il male nella sua unicità: per quanto terribile, la sofferenza di un altro popolo non si può neppure paragonare a esso. I sostenitori dell’unicità dell’Olocausto si rifiutano ovviamente di ammettere questa implicita conseguenza, ma si tratta di una posizione in malafede.

«Queste dichiarazioni di unicità dell’Olocausto sono sterili dal punto di vista intellettuale e indegne da quello morale, eppure persistono. Il punto è capire perché. In primo luogo, una sofferenza unica conferisce diritti unici. Il male unico dell’Olocausto, secondo Jacob Neusner, non soltanto pone gli ebrei su un piano diverso rispetto agli altri, ma concede loro anche una «rivendicazione nei confronti di questi altri». Per Edward Alexander, l’unicità dell’Olocausto è un «capitale morale» e gli ebrei devono «rivendicare la sovranità» su questo «patrimonio prezioso». [p. 71]

«Ne L’industria dell’Olocausto il sottoscritto [Finkelstein] ha posto una distinzione tra l’ Olocausto nazista – lo sterminio sistematico degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale – e l’Olocausto – la strumentalizzazione dell’Olocausto nazista da parte delle élite ebraiche americane. Occorre effettuare una distinzione analoga tra l’antisemitismo – cioè l’attacco ingiustificato contro gli ebrei solo per il fatto di essere ebrei – e l’«antisemitismo» – ovvero la strumentalizzazione dell’antisemitismo da parte delle élite ebraiche americane. Al pari dell’Olocausto, l’«antisemitismo» rappresenta un’arma ideologica per sviare le critiche giustificate contro Israele e, allo stesso tempo, proteggere i potenti interessi ebraici. In realtà, nel suo attuale utilizzo, «antisemitismo» – così come «guerra al terrorismo» – funge da copertura per un imponente attacco ai diritti civili e umani in generale.» [pp. 348-9]

Ecco ora il nostro punto di vista.

Per illustrare la sua tesi, Finkelstein articola la propria argomentazione lungo tre direttrici.

La prima linea di indagine riguarda la fase germinale di questo approccio falsificante allo sterminio degli ebrei negli Stati Uniti, e mostra come l’interesse americano intorno a questo tema sia andato sviluppandosi di pari passo con il ruolo occupato dallo stato di Israele sullo scacchiere geopolitico internazionale a partire dalla nascita (1948) per arrivare sino quasi ai giorni nostri. In questo senso, la guerra del 1967 rappresenta per Finkelstein il punto della svolta, in seguito al quale il discorso sull’”Olocausto” iniziò a farsi sempre più pervasivo: “L’industria dell’Olocausto fece la propria apparizione solamente dopo la dimostrazione schiacciante del predominio militare e fiorì in mezzo al più totale trionfalismo israeliano”. In precedenza, nei primi anni della Guerra Fredda, tale discorso era stato abbandonato, o era stato impiegato in funzione pressoché esclusivamente anticomunista.

Un successivo nucleo argomentativo si concentra, invece, sui pilastri posti alla base della supposta unicità dell’esperienza ebraica in relazione al genocidio. L’”irrazionalità” del progetto di sterminio nazista, inteso a propria volta quale culmine novecentesco di una millenaria avversione da parte dei gentili nei confronti degli ebrei, contribuisce – secondo Finkelstein – a fare dell’odio antisemita stesso un concetto irrazionale, togliendo la terra sotto ai piedi a quanti intendono interrogare la Storia per poterla comprendere: chi potrebbe avere la presunzione – o la follia – di comprendere ciò che razionale non è? Lo sterminio degli ebrei diventa perciò stesso un evento unico, il che ha, come naturale conseguenza, l’impossibilità di paragonarlo con alcunché. In questo modo è possibile brandire questa tragedia della Storia – della storia del capitalismo – alla stregua di un’arma contro coloro i quali intendono criticare l’istituzione politica dello stato ebraico (non dei singoli ebrei!) nel momento in cui questo compie azioni criminali ingiustificabili sotto qualsiasi punto di vista. Ad ogni modo – per quanto in maniera a dir poco frettolosa -, Finkelstein ricorda agli smemorati cultori della memoria a senso unico che vittime della persecuzione nazista non furono esclusivamente gli ebrei (limitandosi, per dire il vero, a ricordare la condizione dei popoli Romanì, e noi aggiungiamo gli omosessuali, gli “asociali”, gli slavi, secondo Hitler “popoli concime”, i testimoni di Geova e – vietatissimo ricordarlo – i comunisti). E ricorda anche che di genocidi il mondo ne ha visti fin troppi (come nel caso del Congo e dei Nativi Americani, ma la lista sarebbe davvero tragicamente lunga).

L’ultimo percorso di indagine – quello che occupa più spazio e risulta complessivamente il meno interessante di tutto il libro – riguarda lo sfruttamento della “colpevolezza” per fini economici. Finkelstein ricostruisce la vicenda della vera e propria estorsione nei confronti delle banche svizzere (con tanto di minacce di boicottaggio da parte americana dei prodotti finanziari da esse predisposti) con il pretesto del recupero delle somme versate nei loro conti da quegli ebrei che furono vittime dello sterminio. Le cifre astronomiche richieste e ottenute (un miliardo e duecentocinquanta milioni di dollari) avrebbero dovuto essere distribuite ai sopravvissuti (al netto dei ricchi onorari degli avvocati, ovviamente), ma, sottolinea l’Autore, sono finite nelle tasche di svariate associazioni con compiti “educativi” rispetto alla questione-Olocausto, se non addirittura intascati da chi in quelle associazioni occupa posizioni di potere.

Le successive edizioni di quest’opera hanno visto l’aggiunta di alcune appendici, la più recente delle quali (datata 2004) affronta la questione del “neo-antisemitismo“, che coinciderebbe, secondo gli intellettuali della “industria dell’Olocausto”, con l’espressione di posizioni critiche nei confronti della politica di Israele. Per Finkelstein questo concetto si fonda su tre presupposti: il primo è la creazione di notizie e dati falsi finalizzati a mostrare come, nel profondo, ogni critico di Israele sia un antisemita. Il secondo è la banalizzazione e la distorsione di ciascuna delle critiche in questione (soprattutto sulla base delle considerazioni ricordate nelle righe precedenti riguardo all’eternità e irrazionalità dell’odio nei confronti degli ebrei). Il terzo è l’indebito travaso delle critiche alle istituzioni verso i singoli individui – uno scivolamento reso sempre più semplice dal tentativo di identificazione “Israele-Ebraismo”.

Quest’ultima appendice contribuisce, seppur in maniera minima, ad arginare quello che è forse il principale limite del libro: un’eccessiva chiusura del campo di indagine, limitato di fatto ai soli Stati Uniti. Le informazioni sull’influenza della “industria” in questione nel resto del mondo sono pressoché inesistenti, con i pochi riferimenti concentrati sull’Europa (tutti assenti dall’edizione originale del testo). Allo stesso modo lo stile di Finkelstein è talvolta di difficile digestione. Se il vetriolo di alcuni affondi non inficia la veridicità dei fatti o la solidità degli argomenti, li rende di sicuro meno digeribili (e dà ragione di buona parte delle critiche che il libro ha ricevuto quando ha visto la luce). In ogni caso la lettura fornisce spunti molto interessanti sui quali lavorare, che possono essere sviluppati appieno solo cogliendo la dimensione internazionale delle problematiche sollevate, e la necessità di una risposta globale di lotta non solo agli imprenditori-profittatori dell’industria in questione, ma a tutto il “sistema” dei suoi utilizzatori. (d. b.)


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4. E. Traverso sulle radici della violenza nazista

“Le premesse della Shoah vanno cercate in un contesto più ampio dell’anti-semitismo”, afferma Enzo Traverso, un Traverso di annata buona, nell’Introduzione al suo La violenza nazista. Una genealogia, Il Mulino, 2002 (*). Questo perché, per quanto non fosse diventato un dettaglio insignificante, nella vicenda europea del XIX secolo l’anti-semitismo “sembrava in via di regressione, limitato, tendenzialmente superato”. Ed invece qualche decennio dopo finì per “dominare la scena storica” (pag. 13). Come mai?

In opposizione a Nolte ed altri per i quali l’anti-semitismo arriva da Oriente, Traverso afferma invece che “le radici del nazismo” sono “europee“. Innanzitutto perché è “dalla cultura tedesca ed europea [non solo da quella tedesca – nota bene] della seconda metà del XIX secolo che il nazismo aveva ereditato alcuni suoi elementi costitutivi come l’imperialismo, il pangermanesimo, il nazionalismo, il razzismo, l’eugenismo e soprattutto l’anti-semitismo. L’anti-bolscevismo si era innestato su questo magma ideologico, rinnovandolo e radicalizzandolo all’estremo, ma non lo aveva creato” (pag. 17).

In opposizione a Goldhagen e Furet, Traverso porta opportunamente “l’attenzione sull’ancoraggio profondo del nazismo, della sua violenza e dei suoi genocidi, nella storia dell’Occidente, dell’Europa del capitalismo industriale, del colonialismo, dell’imperialismo, della rivoluzione scientifica e tecnica, l’Europa del darwinismo sociale e dell’eugenismo. L’Europa del ‘lungo’ XIX secolo concluso nei campi di battaglia della prima guerra mondiale” (p. 22).

In opposizione a Sternell e Mosse, infine, che non attribuivano in pratica alcuna importanza “all’eredità dell’imperialismo e del colonialismo europei” nella formazione dell’ideologia, della cultura, del mondo mentale e delle pratiche del fascismo, Traverso sottolinea invece “le connessioni tra il sorgere di questo nuovo nazionalismo e le pratiche imperiali dell’Europa liberale. E sostiene che le violenze coloniali vanno viste come “una prima messa in pratica delle potenzialità sterminatrici del discorso razzista moderno. Ora, non si tratta affatto di cancellare le singolarità della violenza nazista assimilandola semplicemente ai massacri coloniali, ma piuttosto di riconoscere che essa fu perpetrata nel cuore di una guerra di conquista e di sterminio, tra il 1941 e il 1945, concepita come un’impresa coloniale in seno all’Europa. Una guerra coloniale che si ispirava largamente, per la sua ideologia e per i suoi principi – ma con mezzi e metodi ben più moderni, potenti e micidiali – a quelle condotte durante tutto il ‘lungo’ Ottocento dall’imperialismo classico” (pag. 25).

La “singolarità storica” del genocidio degli ebrei non va quindi intesa tanto come un “evento senza precedenti” per le sue dimensioni ed il suo carattere organizzato (David Stannard ha letteralmente demolito questa tesi), quanto “piuttosto come una sintesi unica di un vasto insieme di forme di oppressione e di sterminio già sperimentate, ciascuna separatamente dalle altre, nel corso della storia moderna” (pag. 181).

Vale la pena riportare ora, per esteso la conclusione del libro:

“Nulla esclude (…) che altre sintesi, altrettanto se non più distruttrici, possano cristallizzarsi in avvenire. Le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki indicano che il contro-illuminismo [nazista] non costituisce una premessa indispensabile per i massacri tecnologici e che l’umanità non è al riparo dalla ripetizione di tali catastrofi. Sia la bomba atomica sia i campi nazisti si inscrivono nel ‘processo di civilizzazione’, in seno al quale non agiscono come una controtendenza e non sono un’aberrazione (come credeva Norbert Elias, per il quale il genocidio degli ebrei segnava una regressione verso la barbarie e l’efferatezza delle età primitive) ma l’espressione di una delle sue potenzialità, di uno dei suoi volti, di una delle sue derive possibili. L’assenza di ‘leggi’ [meccanicistiche – n.] non significa neppure che le affinità individuate in questo saggio siano puramente fortuite e formali. Gli architetti dei campi nazisti erano coscienti di costruire delle fabbriche di morte e Hitler non nascondeva che la conquista dello ‘spazio vitale’ proseguiva le guerre coloniali del XIX secolo (ciò che, ai suoi occhi, la legittimava). Tra i massacri dell’imperialismo e la ‘Soluzione finale’ non ci sono soltanto alcune ‘affinità fenomenologiche (come quelle tra lo statuto della Limpieza de sangre dell’Inquisizione spagnola e le leggi di Norimberga), o analogie lontane, come quella tra le Crociate e l’operazione Barbarossa. Vi è una continuità storica che fa dell’Europa liberale un laboratorio delle violenze del Novecento e di Auschwitz un prodotto autentico della civilizzazione occidentale” (pagg. 182-3). La civilizzazione del capitalismo, in forme nazi-fasciste come in forme democratiche, del colonialismo capitalistico, dell’imperialismo.

(*) I neretti che trovate nelle citazioni sono della nostra redazione.


Dossier – No alla memoria a senso unico

5. H. Arendt sul collaborazionismo dell’élite ebraica nello sterminio della massa degli ebrei

“Non potevamo immaginare che i tedeschi sarebbero riusciti a coinvolgere nelle loro azioni anche elementi ebraici, e cioè che gli ebrei avrebbero condotto alla morte altri ebrei” – così Yitzhak Zuckerman, uno dei capi della eroica rivolta ebraica del ghetto di Varsavia (19 aprile – 16 maggio 1943), in A Surplus of Memory, Oxford, 1993, p. 210.

Nel “giorno della memoria”, tra le verità storiche che si preferisce ignorare, e nascondere, per operare una ricostruzione apologetica del passato utile a giustificare in tutto e per tutto l’operato dello stato di Israele, c’è appunto l’attiva collaborazione dei capi delle comunità ebraiche nella deportazione e nel conseguente sterminio degli ebrei di cui erano rappresentanti.

“Per un ebreo, il contributo dato dai capi ebraici alla distruzione del proprio popolo, è uno dei capitoli più foschi di tutta quella fosca vicenda” (p. 125) Lo ricorda Hannah Arendt nel suo libro La banalità del male (Feltrinelli, UE, 2002), un’analisi/documento sul processo al burocrate nazista Eichmann, incaricato dal regime di organizzare prima l’emigrazione forzata, poi la deportazione degli ebrei nei campi, dove sarebbero stati in minima parte destinati ai lavori forzati e per lo più annientati.Il programma che mirava a sterminarli assieme ad altre “categorie” non gradite, tra cui i Rom, i comunisti, i disabili, gli omosessuali, dice Hannah Arendt, non avrebbe mai potuto essere completato senzaquesta preziosa (per i nazisti) collaborazione. Il ruolo dei capi delle comunità ebraiche è chiaramente descritto negli estratti dal testo che pubblichiamo. Il libro spiega con dovizia di particolari come le famigerate “liste di trasporto” fossero compilate dai Consigli ebraici conformemente ad alcune istruzioni generali diramate dalle SS riguardo al numero, età, sesso, professione e paese d’origine delle persone da deportare.

“Eichmann o i suoi uomini comunicavano ai Consigli ebraici degli Anziani quanti ebrei occorrevano per formare un convoglio, e quelli preparavano gli elenchi delle persone da deportare. E gli ebrei si facevano registrare, riempivano innumerevoli moduli, rispondevano a pagine e pagine di questionari riguardanti i loro beni, in modo da agevolarne il sequestro; poi si radunavano nei centri di raccolta e salivano sui treni. I pochi che tentavano di nascondersi o di scappare venivano ricercati da uno speciale corpo di polizia ebraico. A quanto constava ad Eichmann, nessuno protestava, nessuno si rifiutava di collaborare. (p. 123)

Eichmann si aspettava — e la ebbe in misura che si può definire eccezionale — la loro collaborazione.

“Senza l’aiuto degli ebrei nel lavoro amministrativo e poliziesco (il rastrellamento finale degli ebrei a Berlino, come abbiamo accennato, fu effettuato esclusivamente da poliziotti ebraici), o ci sarebbe stato il caos completo, oppure i tedeschi avrebbero dovuto distogliere troppi uomini dal fronte. (…) È fuor di dubbio che senza la collaborazione delle vittime ben difficilmente poche migliaia di persone, che per giunta lavoravano quasi tutte al tavolino, avrebbero potuto liquidare molte centinaia di migliaia di altri esseri umani. (…) È per questo che l’insediamento di governi – fantoccio nei territori occupati fu sempre accompagnato dalla creazione di un ufficio centrale ebraico (…). Ma mentre quei governi erano formati di solito da persone appartenenti ai partiti di minoranza, i membri dei Consigli ebraici erano di regola i capi riconosciuti delle varie comunità ebraiche, uomini a cui i nazisti concedevano poteri enormi finché, un giorno, deportarono anche loro (…). Ad Amsterdam come a Varsavia, a Berlino come a Budapest, i funzionari ebrei erano incaricati di compilare le liste delle persone da deportare e dei loro beni, di sottrarre ai deportati il denaro per pagare le spese della deportazione e dello sterminio, di tenere aggiornato l’elenco degli alloggi rimasti vuoti, di fornire forze di polizia per aiutare a catturare gli ebrei e a caricarli sui treni, e infine, ultimo gesto, di consegnare in buon ordine gli inventari dei beni della comunità per la confisca finale. (…) Nei manifesti che essi affiggevano — ispirati, ma non dettati dai nazisti — avvertiamo ancora quanto fossero fieri di questi nuovi poteri : “Il Consiglio ebraico centrale annunzia che gli è stato concesso il diritto di disporre di tutti i beni spirituali e materiali degli ebrei, e di tutte le persone fisiche ebree”, diceva il primo proclama del Consiglio di Budapest. Noi sappiamo che cosa provavano i funzionari ebrei quando divenivano strumenti nelle mani degli assassini; (…) si sentivano salvatori che “con cento vittime salvano mille persone, con mille diecimila”. Senonché la verità era ancor più mostruosa. In Ungheria, per esempio, il dott. Kastner salvò esattamente 1.684 persone al prezzo di circa 476.000 vittime” (pagg. 125-126).

Una domanda sorge spontanea: chi si sceglieva di salvare ?

“Coloro che avevano lavorato per tutta la vita per lo zibur”, ”cioè per la comunità, vale a dire i funzionari e gli ebrei “più illustri”, come dice Kastner nel suo rapporto.

“La soluzione finale si era svolta in un’atmosfera soffocante e avvelenata, e vari testimoni dell’accusa avevano confermato, lealmente e crudamente, il fatto già ben noto che nei campi molti lavori materiali connessi allo sterminio erano affidati a speciali reparti ebraici; avevano narrato come questi lavorassero nelle camere a gas e nei crematori, estraessero i denti d’oro e tagliassero i capelli ai cadaveri, scavassero le fosse e più tardi riesumassero le salme per far sparire ogni traccia; avevano narrato come tecnici ebrei avessero costruito camere a gas a Theresienstadt e come qui l’“autonomia” ebraica fosse arrivata al punto che perfino il boia era un ebreo.” (pag. 130)

La gravissima responsabilità dei capi ebraici nel garantire l’ordine mentendo sulla destinazione dei deportati e sventando così ogni pericolo di ribellione o di fuga (nella speranza di salvare se stessi, cosa che non sempre gli riuscì), e la conseguente passività degli ebrei nella deportazione, è sottolineata da questa testimonianza al processo:

“Ci sono persone, qui, le quali dicono che nessuno consigliò loro di fuggire: ma il cinquanta per cento di quelli che fuggirono furono ripresi e uccisi”. Egli (il testimone (ndr) dimenticava, però, che furono uccisi il novantanove per cento di coloro che non fuggirono. (…)

“L’argomento della collaborazione fu toccato dai giudici due volte. Il giudice Yitzak Raveh, interrogando un testimone sui tentativi di resistenza, riuscì a fargli ammettere che la “polizia del ghetto” era “uno strumento nelle mani degli assassini”, e che la politica degli Judenrat era una politica di “collaborazionismo” ; e il giudice Halevi, interrogando Eichmann, accertò che i nazisti consideravano questa collaborazione come “la pietra angolare” della loro politica ebraica. (…)

“La verità vera era che se il popolo ebraico fosse stato realmente disorganizzato e senza capi, dappertutto ci sarebbe stato caos e disperazione, ma le vittime non sarebbero state quasi sei milioni.” (pagg. 131-2).

Un altro mito destinato a crollare se si guarda agli effettivi svolgimenti storici, è quello secondo cui lo sterminio colpì indistintamente “tutti gli ebrei”. Oltre a chi poteva comprarsi passaporti falsi e fuggire, esistevano categorie privilegiate che non furono incluse nelle liste dei deportati.Seguendo le testimonianze rese al processo contro Eichmann, è evidente che

“… queste categorie erano state accettate fin dall’inizio dagli ebrei tedeschi, senza proteste, e l’accettazione di categorie privilegiate (gli ebrei tedeschi e non gli ebrei polacchi, i veterani di guerra e i decorati e non gli ebrei comuni, le famiglie con antenati nati in Germania e non i cittadini naturalizzati di recente, ecc.) aveva segnato il principio del crollo morale della rispettabile società ebraica.

“Anche dopo la guerra il testimone [Kastner] ha continuato a vantarsi di esser riuscito a salvare “ebrei illustri”, una categoria fissata ufficialmente dai nazisti nel 1942, come se anche per lui un ebreo famoso avesse più diritto di restare in vita di un ebreo comune. (…) e da un’istruzione diramata da Ernst Kaltenbrunner, capo dell’RSHA, noi sappiamo che una “cura speciale” si metteva nel “non deportare ebrei con legami e importanti aderenze nel mondo esterno”.

”In altre parole, gli ebrei meno “illustri” erano costantemente sacrificati a quelli che non potevano sparire senza provocare fastidiose inchieste.

Lo stesso Hitler, a quanto si dice, conosceva trecentoquaranta “ebrei di prim’ordine” e aveva concesso loro la posizione di tedeschi puri o almeno i privilegi garantiti ai mezzi ebrei. Migliaia di mezzi ebrei erano stati “esentati” e non dovevano sottostare ad alcuna restrizione, il che può spiegare come mai Heydrich e Hans Frank [che appartenevano a questa categoria – ndr] potessero salire così in alto nelle SS (pagg. 138-140).

E gli interventi in favore di ebrei illustri, ”quando venivano da persone anch’esse “illustri,” avevano spesso pieno successo.”

Il degrado morale e l’accanimento su basi di classe si è manifestato dunque anche all’interno della società ebraica durante la persecuzione nazista. Ricordarlo oggi significa togliere alla “memoria dell’olocausto” quell’aura di episodio irrazionale e irripetibile della storia umana che per i sionisti costituisce una pietra angolare della loro ricostruzione degli avvenimenti passati. In esso sono entrati in funzione gli stessi meccanismi di fondo che vediamo all’opera oggi, in cui lo Stato di Israele, vestendo le vesti della vittima eterna, si sente autorizzato a difendersi con i mezzi più nefandi che circa un secolo fa la quasi totalità degli ebrei-massa ha terribilmente subìto qui in Europa, e una buona quota della sezione più privilegiata degli ebrei ha invece avallato. Come allora, anche oggi tutta l’umanità è degradata dal genocidio in atto a Gaza. Nessun riscatto può avvenire sulla base della manipolazione del passato, delle menzogne, delle omissioni, dei ricatti, delle sopraffazioni. Ad una “memoria” che è propaganda ideologica (nel senso di falsificante, e lo è non solo il 27 gennaio bensì 365 giorni all’anno) finalizzata a legittimare il sempre più traballante dominio dell’imperialismo occidentale e del colonialismo sionista, contrapponiamo un’autentica memoria storica di tutte le forme di oppressione – ben inclusi evidentemente lo sterminio degli ebrei per opera del nazismo e le precedenti persecuzioni per opera delle istituzioni cristiane, zariste, etc.; contrapponiamo la lotta di liberazione degli oppressi del mondo intero, ben inclusa evidentemente la lotta di liberazione dei palestinesi dalla macchina di oppressione e di sterminio sionista!


Dossier – No alla memoria a senso unico

6. Su anti-semitismo e neo anti-semitismo

Sono di oggi [26 gennaio] le decisioni di Piantedosi che sposta di autorità le manifestazioni per la Palestina previste per domani, 27 gennaio, affermando che “alcune manifestazioni, al di là delle intenzioni degli organizzatori”, “potrebbero avere evoluzioni lesive di alcuni valori sanciti dalla legge, come la commemorazione della Shoah.”.

Questa presa di posizione arriva alcuni giorni dopo i comunicati dell’UCEI (Unione delle comunità ebraiche italiane) sulla Shoah in cui si legge: “La condanna generica, appelli al boicottaggio, di isolamento e la demonizzazione di Israele e di tutte le sue istituzioni è parte delle espressioni di antisemitismo, così come il ribaltamento e l’attribuzione a Israele di appellativi connessi alla Shoah: sterminio/nazisti/genocidio/occupazione/lager…”. Le indicazioni dell’UCEI sono state prontamente raccolte dalle istituzioni politiche, dall’ANPI e naturalmente dalla stampa. Tutti a squadra davanti alle direttive dell’IHRA e alla definizione di antisemitismo elaborata nel 2016 da questa organizzazione, l’International Holocaust Remembrance Alliance, nata nel 1998 per promuovere l’educazione alla memoria della Shoah. In pochi anni essa è divenuta un’organizzazione intergovernativa presente in 35 paesi i cui governi hanno adottato la seguente, abusiva, definizione di antisemitismo:

L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto”.

Due anni più tardi in Israele è stata approvata la legge che, per la prima volta nella storia di questo stato colonialista (se non bastasse la realtà storica, l’esplicita ammissione di tale natura si trova nel testo di Herzl, Lo stato ebraico), lo definisce ufficialmente come “la casa nazionale del popolo ebraico”,cioè la massima istituzione comunitaria ebraica. Da questo momento in poi, criticare Israele diventa automaticamente un atto antisemita. L’Italia, come tutta l’UE, ha adottato questa definizione. L’Ordine nazionale della stampa italiana l’ha fatta propria nel luglio 2023, e in questo modo ha praticamente deliberato di auto-censurarsi più di quanto non avesse fatto prima sull’oppressione del popolo palestinese, sulla pulizia etnica operata contro di esso da quasi un secolo e sull’attuale operazione genocida della macchina da guerra sionista. La censura è arrivata al punto che 90 e più volte su 100 si ha cura di non nominare la Palestina (bisogna convincere quanta più gente possibile che la Palestina non esiste), e si parla di Medio Oriente.

La definizione dell’IHRA è sostenuta da ILF e da NGO Monitor. NGO Monitor (una ONG israeliana che monitora i dati relativi all’insieme delle ONG da una prospettiva filo-governativa) è stata contestata per aver preso di mira le fonti di finanziamento di organizzazioni critiche nei confronti di Israele. L’altra è l’International Legal Forum (ILF), Foro giuridico internazionale, una rete giuridica nota per contrastare la pressione internazionale contro le politiche del governo israeliano. Negli ultimi anni entrambe le organizzazioni hanno preso parte ad una campagna più estesa che ha portato alla riduzione dello “spazio civico” per le iniziative a sostegno dei diritti dei palestinesi. Si tratta di istituzioni con forti agganci nei massimi circoli di potere degli Stati Uniti e dell’Unione europea, com’è provato dal fatto che hanno costretto alle dimissioni, per sospetto antisemitismo, le rettrici di tre importanti università (Harvard, MIT e Pennsylvania University).

L’UE ha fatto proprie le strategie di queste organizzazioni. In Italia l’adesione del governo ad essa rischia di renderla vincolante a livello giuridico per tutti i docenti. Del resto, già nel novembre 2021 il MIUR ha emanato le Linee Guida per il Contrasto all’antisemitismo nelle scuole in cui si sostiene la pericolosità sociale di ogni critica al sionismo. Per questo è utile essere a conoscenza che esiste l’ELSC (European Legal Support Center) che fornisce supporto legale a quanti sono colpiti dall’accusa di anti-semitismo.

Si vorrebbe salvaguardare la Memoria storica della Shoah e delle radici dell’antisemitismo (così si afferma, mentendo sapendo di mentire); in realtà si sta sdoganando la caccia al “neo-antisemitismo”, etichetta che viene addossata a quanti sono solidali con la causa della liberazione della Palestina e con i lavoratori e le popolazioni immigrate. In questo quadro di falsificante “ricostruzione” sia della storia passata che della realtà presente, l’Assessorato alla scuola del Veneto si è spinto ancora più avanti nel revisionismo storico, emanando negli ultimi due anni delle circolari scolastiche relative al “Giorno della Memoria” in cui sono spariti magicamente i riferimenti alle leggi razziali fasciste e alle prassi razziste e sterministe del colonialismo fascista (la popolazione della Libia ne sa qualcosa).

Intanto il neo-fascismo europeo e italiano, e quanti hanno un retroterra di questo tipo – vedi i Fratelli d’Italia di tale Giorgia Meloni – cercano di ripulirsi come non-antisemiti appoggiando e sostenendo in tutti i campi Israele.

La dichiarazione dell’IHRA indica 11 forme di antisemitismo, 7 delle quali, guarda caso, sono concentrate sullo Stato di Israele. Come si fa a non capire che l’adozione di questa definizione è una strategia per silenziare le critiche al sionismo di insediamento dello stato israeliano? Scrive tra gli altri Ilan Baruch: “Adottando la definizione dell’IHRA, la UE prende parte al programma dei gruppi di sostegno a Israele che minano l’impegno della società civile contro l’occupazione”. Infatti!

Ma permetteteci di mettere in coda un’osservazione elementare che naturalmente sfugge a questi fanatici crociati del sionismo: una delle più elementari, diffuse, brutali forme di anti-semitismo, vetero e neo, da cui si salverebbero (ad esagerare) solo 3-4 giornalisti italiani, è la sistematica inferiorizzazione, se non la vera e propria demonizzazione, dei palestinesi e degli arabi che, fino a prova contraria, sono semiti. O no?