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[CONTRIBUTO] La Palestina nel suo contesto. Israele, gli Stati del Golfo ed il potere americano nel Medio Oriente

Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui https://pungolorosso.com/):

Il saggio del ricercatore di Exeter Hanieh, che proponiamo in traduzione, offre una lettura di ampio respiro della questione israelo-palestinese inerendola nel contesto della vicenda del Medio-Oriente a partire dal secondo-dopoguerra. Hanieh ricostruisce le dinamiche politiche nell’area, divenuta, anzitutto per la dotazione di risorse petrolifere, un luogo strategico della storia del capitalismo contemporaneo. Richiama dunque l’azione spoliatrice e violenta dell’imperialismo occidentale a guida statunitense, che, con lo Stato di Israele come punta di diamante, mostra appieno il suo volto reazionario con la repressione del movimento di lotta anticoloniale, animato dal pan-arabismo, al cui interno, benché in subordine, sono vissute istanze di emancipazione sociale delle masse sfruttate. Hanieh si propone così di scardinare la lettura asfittica ed astratta della questione israelo-palestinese, centrata su Israele, Gaza e la Cisgiordania soltanto, la quale priva la lotta dei palestinesi del suo enorme significato storico-politico e induce a credere che il legame tra Occidente ed Israele sia un accidente da attribuirsi al semplice lavorio della “lobby ebraica”. Hanieh mostra come in Medio Oriente, viceversa, l’indomita resistenza palestinese costituisca storicamente, e a tutt’oggi, un macigno nella scarpa ferrata dell’imperialismo, e abbia dunque un significato generale di emancipazione dal giogo occidentale.

Una maggiore considerazione delle dinamiche sociali avrebbe ulteriormente avvalorato la tesi secondo cui, per usare un’espressione a noi cara, la Palestina è la patria degli oppressi di tutto il mondo. O meglio, Hanieh pone sotto la sua lente la società israeliana. Evidenzia come, al pari del Sud-Africa dell’Apartheid, sia nella natura della colonie di insediamento, veri “centri di organizzazione del potere occidentale”, di diventare un concentrato di violenza militarista, a misura che rafforzano le proprie “strutture di oppressione razziale, di sfruttamento di classe e di espropriazione”, con il risultato che “una parte consistente della popolazione trae vantaggio dall’oppressione delle popolazioni indigene e intende i propri privilegi in termini razziali e militaristici.” Andrebbero evidenziate le contraddizioni che il cancro del militarismo è destinato a produrre all’interno di una simile società, ma il quadro dipinto da Hanieh funge da monito contro certi recenti appelli volontaristici alla solidarietà tra oppressi israeliani e palestinesi, espressione di un “internazionalismo” puramente retorico, o da una retorica che è “internazionalista” solo in superficie.

Il punto, comunque, è che in questo saggio le società dei paesi medio-orientali, Palestina inclusa, restano nell’ombra. Hanieh si concentra, comprensibilmente, sulla vicenda politica con protagonisti gli stati. Nota come lo Stato di Israele e la “comunità internazionale” abbiano sempre fatto ricorso al metodo del bastone e della carota per mantenere la presa sul Medio-Oriente almeno fin da quando l’ha spazzato il vento dei movimenti anti-coloniali, e per contrastare in particolare la resistenza palestinese. Di qui l’alternarsi di fasi di violenza aperta, estrema, e stagioni apparentemente pacifiche all’insegna di una tessitura politica-diplomatica volta a “normalizzare” gli assetti regionali con l’integrazione dello Stato di Israele. Questo, che è esplicitamente un monito rispetto agli esiti desiderati nelle stanze dei bottoni del genocidio in corso, è l’argomento forte portato da Hanieh. Egli mostra come, garantita la sopravvivenza delle monarchie del Golfo alimentando la devastante guerra fratricida tra Iran e Iraq, l’obiettivo principale dell’imperialismo occidentale sia appunto la normalizzazione dei rapporti tra lo Stato di Israele e l’Arabia Saudita, e i paesi arabi in genere. Gli accordi di Oslo, tanto sbandierati, rappresentano in ques’ottica un giro di boa, perché, se sul piano interno significano l’accettazione da parte dell’OLP di uno stato bantustan, una pietra tombale apposta sulla prima Intifada, sul piano esterno forniscono ad Egitto e Giordania una giustificazione per normalizzare i rapporti con Israele.

In questa prospettiva, a tratti forse eccessivamente geopolitica, con i nomi propri degli Stati a figurare come unici “attori” nella “scacchiera” medio-orientale, Hanieh considera il processo di integrazione economica di Israele nella regione avviato alla fine del secolo scorso. Egli evidenzia soprattutto l’obiettivo strategico di assicurare, rimuovendo anzitutto diverse forme di boicottaggio, che i paesi arabi mantengano con Israele dei rapporti di buon vicinato, permettendo così che la macchina imperialista possa camminare indisturbata e fare in particolare scempio della popolazione palestinese. Coordinato da Stati Uniti ed Europa, il processo di integrazione economica consiste in una progressiva unificazione dei mercati e della produzione, mediante, tra l’altro, lo sfruttamento di manodopera ad infimo costo nelle zone speciali: l’economia di Giordania, Egitto, Marocco e monarchie arabe si legano organicamente, in posizione subalterna, all’economia israeliana e occidentale, con una progressiva unificazione, e concentrazione, di capitale arabo e israelo-occidentale.

Si tratta di un fondamentale fenomeno sociale, di struttura, “duro”, il quale indica come a livello profondo sia compiuta la cooptazione della borghesia araba, e palestinese (ben rappresentata dall’ANP di Abu Mazen), nel meccanismo imperialista di spoliazione, oppressione e semina di morte tornato oggi a scagliarsi contro le masse palestinesi. In altri termini, gli sviluppi contemporanei del capitalismo in Medio-Oriente, che l’han resa la regione “più polarizzata socialmente, diseguale economicamente e colpita da conflitti nel mondo [c.n.]”, escludono di fatto, con ogni verosimiglianza, ogni linea di “solidarietà” tra le classi sociali arabe, ispirata al nazionalismo eventualmente pan-arabista, laico o religioso che sia; e fanno sì che la lotta dei palestinesi, vittime della quintessenza dell’oppressione necro-capitalista, sia, oggettivamente e sul piano simbolico-politico, la lotta del proletariato arabo-islamico nel Medio-Oriente tutto: l’avanguardia delle masse sterminate che, nella grande Intifada degli anni 2011-2012, in particolare con il rovesciamento di Mubarak, e nelle sollevazioni degli anni 2018-2020, hanno mostrato come il Medio-Oriente può essere l’epicentro di rivolgimenti rivoluzionari di impatto mondiale.

Forse, essendo stata pubblicata in giugno, l’analisi di Hanieh avrebbe dovuto contenere qualcosa in più su quello che appare come un riorientamento della politica estera saudita, con l’ammissione della petrol-monarchia all’interno dei Brics, la situazione di sospensione del rinnovo dell’accordo con gli Stati Uniti sul pagamento del petrolio in dollari, e la storica ripresa delle relazioni diplomatiche tra Teheran e Riad. Un ri-orientamento o, quanto meno, un doppio binario. Hanieh si limita ad un inciso, ma questo processo ha un peso ben superiore ad un inciso, se è vero che la Cina di Xi è riuscita ad integrare Israele dentro la Belt and Road Initiative e a diventare il secondo investitore internazionale in Israele, con un’attenzione particolare al porto di Haifa. L’impetuoso sviluppo dei rapporti economici tra Cina e Israele negli ultimi anni non è stato minimamente intaccato dal genocidio in corso a Gaza; e non è un caso se – contrariamente agli applausi dei campisti per l’iniziativa di Pechino – la Cina abbia convocato a sé Hamas per “chiederle” di riconciliarsi con Abu Mazen, proprio come Mosca.

Redazione Il Pungolo Rosso


INTERNATIONAL RELATIONS

– Adam Hanieh* (June 21, 2024)

Negli ultimi sette mesi, la guerra genocidiaria di Israele a Gaza ha suscitato a livello globale un’ondata di proteste ed una consapevolezza intorno alla Palestina che non hanno precedenti. Molti milioni di persone sono scese in piazza, gli accampamenti si sono diffusi nelle università di tutto il mondo, coraggiosi attivisti hanno bloccato porti e fabbriche di armi, e c’è un profondo riconoscimento del fatto che una campagna globale di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele è ora più necessaria che mai. La forza di questi movimenti popolari è stata rafforzata dall’enorme attenzione suscitata dalla denuncia del Sudafrica contro Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) – un caso che non solo ha evidenziato con forza la realtà del genocidio israeliano, ma anche l’intransigenza dei principali Stati occidentali nel consentire le azioni di Israele nella Striscia di Gaza e oltre.

Tuttavia, nonostante questa ondata globale di solidarietà con la Palestina, permangono diversi equivoci nel modo in cui la questione-Palestina viene comunemente discussa e inquadrata. Troppo spesso la politica della Palestina viene vista semplicemente attraverso la lente di Israele, Cisgiordania e Gaza, ignorando le più ampie dinamiche regionali del Medio Oriente, nonché il contesto globale in cui opera il colonialismo israeliano. Inoltre, la solidarietà con la Palestina è spesso ridotta alla questione dei massicci abusi dei diritti umani e delle continue violazioni del diritto internazionale da parte di Israele – le uccisioni, gli arresti e l’espropriazione che i palestinesi hanno subito per quasi otto decenni. Il problema di questo inquadramento umanitario della questione è che depoliticizza la lotta palestinese, non riuscendo a spiegare perché gli Stati occidentali continuino a sostenere Israele in modo così inequivocabile. E quando viene sollevata la questione cruciale del sostegno occidentale, molti indicano come causa una “lobby pro-Israele” che opera nel Nord America e nell’Europa occidentale – è un punto di vista falso e politicamente pericoloso che si basa su di un’errata comprensione del rapporto tra gli Stati occidentali e Israele.

Mio obiettivo in questo articolo è presentare un approccio alternativo che permetta una migliore comprensione della questione-Palestina – un approccio attento al contesto della più ampia regione del Medio Oriente, nonché al ruolo centrale che occupa in un mondo dominato dai combustibili fossili. La mia tesi è che il sostegno incondizionato degli Stati Uniti e dei principali Stati europei a Israele non può essere compreso al di fuori di questo quadro. In quanto colonia di insediamento, Israele è stato fondamentale per il mantenimento degli interessi imperiali occidentali – in particolare quelli degli Stati Uniti – in Medio Oriente. Ha svolto questo ruolo insieme all’altro grande pilastro del controllo statunitense nella regione: le monarchie arabe del Golfo ricche di petrolio, e principalmente l’Arabia Saudita. Le relazioni in rapida evoluzione tra il Golfo, Israele e gli Stati Uniti sono essenziali per comprendere il momento attuale, soprattutto alla luce del relativo indebolimento del potere globale americano.


[illustration by Fourate Chahal El Rekaby]

Le trasformazioni del dopoguerra e il Medio Oriente

Negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, due grandi cambiamenti hanno determinato il mutamento dell’ordine mondiale. Il primo è una rivoluzione nei sistemi energetici mondiali: l’emergere del petrolio come principale combustibile fossile del mondo, che ha soppiantato il carbone e altre fonti energetiche nelle principali economie industrializzate. La transizione verso i combustibili fossili si è verificata prima negli Stati Uniti, dove il consumo di petrolio ha superato quello del carbone nel 1950, e poi nell’Europa occidentale ed in Giappone negli anni Sessanta. Nei Paesi ricchi rappresentati nell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), il petrolio rappresentava meno del 28% del consumo totale di combustibili fossili nel 1950, mentre alla fine degli anni ’60 deteneva una quota maggioritaria. Grazie alla sua maggiore densità energetica, alla flessibilità chimica e alla facile trasportabilità, il petrolio ha alimentato il boom del capitalismo del dopoguerra, sostenendo una serie di nuove tecnologie, industrie e infrastrutture. Questo fu l’inizio di quella che gli scienziati avrebbero descritto come la “Grande Accelerazione”: una massiccia e continua espansione del consumo di combustibili fossili iniziata alla metà del XX secolo, che ha portato inesorabilmente all’odierna emergenza climatica.

Questa transizione globale verso il petrolio era strettamente legata a una seconda grande trasformazione del dopoguerra: il consolidamento degli Stati Uniti come prima potenza economica e politica. L’ascesa economica degli Stati Uniti era iniziata nei primi decenni del XX secolo, ma fu la Seconda guerra mondiale a segnare l’emergere definitivo degli Stati Uniti come la forza più dinamica del capitalismo globale, contrastata solo dall’Unione Sovietica e dal suo blocco alleato.
Il potere americano è nato dalla distruzione dell’Europa occidentale durante la guerra e dall’indebolimento del dominio coloniale europeo su gran parte del cosiddetto Terzo Mondo. Mentre la Gran Bretagna e la Francia vacillavano, gli Stati Uniti assunsero la guida nel plasmare l’architettura della politica e dell’economia del dopoguerra, compreso un nuovo sistema finanziario globale incentrato sul dollaro americano. A metà degli anni Cinquanta, gli Stati Uniti detenevano il 60% della produzione manifatturiera mondiale e poco più di un quarto del PIL globale, e 42 delle prime 50 società industriali del mondo erano americane.

Queste due transizioni globali – il passaggio al petrolio e l’ascesa del potere americano – ebbero profonde implicazioni per il Medio Oriente. Da un lato, il Medio Oriente ha svolto un ruolo decisivo nella transizione globale al petrolio. La regione disponeva di abbondanti scorte di petrolio, pari a quasi il 40% delle riserve mondiali accertate a metà degli anni Cinquanta. Il petrolio mediorientale si trovava inoltre vicino a molti paesi europei e i costi di produzione erano molto più bassi rispetto a quelli di qualsiasi altra parte del mondo. Quantità apparentemente illimitate di petrolio mediorientale a basso costo potevano quindi essere fornite all’Europa a prezzi inferiori a quelli del carbone, garantendo al contempo che i mercati petroliferi nazionali statunitensi rimanessero isolati dagli effetti dell’aumento della domanda europea. La ricentralizzazione dell’approvvigionamento petrolifero europeo in Medio Oriente fu un processo straordinariamente rapido: tra il 1947 e il 1960, la quota di petrolio europeo proveniente dalla regione raddoppiò, passando dal 43% all’85%. Ciò ha permesso non solo la nascita di nuove industrie (come quella petrolchimica), ma anche di nuove forme di trasporto e di produzione bellica. Senza il Medio Oriente, infatti, la transizione petrolifera in Europa occidentale non sarebbe mai avvenuta.

La maggior parte delle riserve petrolifere del Medio Oriente si concentra nella regione del Golfo, in particolare in Arabia Saudita e negli Stati arabi minori del Golfo, oltre che in Iran e in Iraq. Per tutta la prima metà del XX secolo, questi Paesi sono stati governati da monarchie autocratiche sostenute dagli inglesi (ad eccezione dell’Arabia Saudita, che era formalmente indipendente dal colonialismo britannico). La produzione di petrolio nella regione era controllata da una manciata di grandi compagnie petrolifere occidentali, che pagavano affitti e royalties ai governanti di questi Stati per il diritto di estrarre il petrolio. Queste aziende petrolifere erano integrate verticalmente, il che significa che non solo controllavano l’estrazione del greggio, ma anche la raffinazione, la spedizione e la vendita del petrolio in tutto il mondo. Il potere di queste aziende era immenso: il controllo delle infrastrutture di circolazione del petrolio permetteva loro di escludere qualsiasi potenziale concorrente. La concentrazione della proprietà nell’industria petrolifera superava di gran lunga quella di qualsiasi altro settore; infatti, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, oltre l’80% di tutte le riserve petrolifere mondiali al di fuori degli Stati Uniti e dell’URSS era controllato da sole sette grandi imprese americane ed europee – le cosiddette “Sette Sorelle” (1).

Israele e la rivolta anticoloniale

Nonostante il loro enorme potere, quando il Medio Oriente divenne il centro dei mercati petroliferi mondiali negli anni Cinquanta e Sessanta, queste aziende petrolifere dovettero affrontare un grosso problema. Come avvenne in altre parti del mondo, una serie di potenti movimenti nazionalisti, comunisti e di sinistra sfidarono i governanti sostenuti dal colonialismo britannico e francese, minacciando di sconvolgere l’ordine regionale accuratamente costruito. L’esperienza più evidente fu quella dell’Egitto, dove il monarca Farouk, sostenuto dagli inglesi, fu spodestato nel 1952 da un colpo di stato militare guidato da un popolare ufficiale militare, Gamal Abdel Nasser. L’ascesa al potere di Nasser costrinse le truppe britanniche a ritirarsi dall’Egitto e portò all’indipendenza del Sudan nel 1956. La nuova sovranità dell’Egitto fu coronata, nel 1956, dalla nazionalizzazione del Canale di Suez, che era controllato da Francia e Gran Bretagna – un’azione celebrata da milioni di persone in tutto il Medio Oriente, e a cui Gran Bretagna, Francia e Israele reagirono invadendo l’Egitto, fallendo. Mentre Nasser compiva questi passi, le lotte anticoloniali crescevano in altre parti della regione, in particolare in Algeria, dove nel 1954 fu lanciata una guerriglia per l’indipendenza contro l’occupazione francese.

Anche se oggi viene spesso trascurato, queste minacce al dominio coloniale di lunga data furono avvertite anche negli Stati del Golfo ricchi di petrolio. In Arabia Saudita e nelle monarchie minori del Golfo, il sostegno a Nasser era forte e vari movimenti di sinistra protestavano contro la venalità, la corruzione e la posizione filo-occidentale delle monarchie al potere. Le potenziali conseguenze di questa situazione furono dimostrate nel vicino Iran, dove un popolare leader nazionale, Mohammed Mossadegh, salì al potere nel 1951. Uno dei primi atti di Mossadegh fu quello di rilevare la compagnia petrolifera controllata dagli inglesi, la Anglo-Iranian Oil Company (il precursore dell’attuale BP): la prima nazionalizzazione del petrolio in Medio Oriente. Questa nazionalizzazione ebbe una forte risonanza nei vicini Stati arabi, dove lo slogan “petrolio arabo per gli arabi” guadagnò ampia popolarità nell’ambito del generale umore anticoloniale.

In risposta alla nazionalizzazione del petrolio iraniano, i servizi segreti statunitensi e britannici orchestrarono un colpo di Stato contro Mossadegh nel 1953, portando al potere un governo filo-occidentale fedele al monarca iraniano Mohammad Reza Shah Pahlavi. Il colpo di Stato segnò l’inizio di una prolungata ondata controrivoluzionaria diretta contro i movimenti radicali e nazionalisti in tutta la regione. Il rovesciamento di Mossadegh dimostrò anche un importante cambiamento nell’ordine regionale: se la Gran Bretagna giocò un ruolo importante nel colpo di Stato, furono tuttavia gli Stati Uniti a prendere il comando nella pianificazione e nell’esecuzione dell’operazione. Fu la prima volta che il governo statunitense depose un governo straniero in tempo di pace, e il coinvolgimento della CIA nel colpo di Stato fu un importante precursore dei successivi interventi statunitensi, come il colpo di Stato del 1954 in Guatemala e il rovesciamento del presidente cileno Salvador Allende nel 1973.

È in questo contesto che Israele è emerso come uno dei principali baluardi degli interessi americani nella regione. Nei primi anni del XX secolo, la Gran Bretagna era stata il principale sostenitore della colonizzazione sionista della Palestina e, dopo la fondazione di Israele nel 1948, aveva continuato a sostenere il progetto sionista di costruzione dello Stato. Ma nel dopoguerra, quando gli Stati Uniti hanno soppiantato il dominio coloniale britannico e francese in Medio Oriente, il sostegno americano a Israele si configura come il perno di un nuovo ordine di sicurezza regionale. Il punto di svolta fondamentale fu la guerra del 1967 tra Israele e i principali Stati arabi, che vide l’esercito israeliano distruggere le forze aeree egiziane e siriane e occupare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, la penisola del Sinai (egiziana) e le alture del Golan (siriane). La vittoria di Israele mandò in frantumi i movimenti di unità araba, indipendenza nazionale e resistenza anticoloniale che si erano cristallizzati soprattutto intorno all’Egitto di Nasser. Inoltre, la vittoria di Israele incoraggiò gli Stati Uniti a diventare il principale patrono del Paese, sostituendo la Gran Bretagna. Da quel momento in poi, gli Stati Uniti iniziarono a rifornire annualmente Israele di hardware militare e sostegno finanziario per miliardi di dollari.

L’importanza del colonialismo di insediamento

La guerra del 1967 ha dimostrato che Israele era una forza potente che poteva essere usata contro qualsiasi minaccia agli interessi americani nella regione. Ma c’è una dimensione cruciale che spesso non viene sottolineata: il posto speciale di Israele a sostegno della potenza americana è direttamente collegato al suo carattere interno di colonia di insediamento, fondata sulla continua espropriazione della popolazione palestinese. Le colonie di insediamento devono continuamente lavorare per rafforzare le strutture di oppressione razziale, di sfruttamento di classe ed espropriazione. Di conseguenza, sono tipicamente delle società altamente militarizzate e violente, che tendono a dipendere dal sostegno esterno, il quale permette loro di mantenere i propri privilegi materiali in un ambiente regionale ostile. In queste società, una parte consistente della popolazione trae vantaggio dall’oppressione delle popolazioni indigene e intende i propri privilegi in termini razziali e militaristici. Per questo motivo, le colonie di insediamento sono partner molto più affidabili degli interessi imperiali occidentali rispetto ai “normali” Stati clienti. (2) È per questo motivo che il colonialismo britannico ha sostenuto il sionismo come movimento politico all’inizio del XX secolo e che gli Stati Uniti hanno abbracciato Israele nel periodo successivo al 1967.

Naturalmente, questo non significa che gli Stati Uniti “controllino” Israele o che non ci siano mai divergenze di opinione tra i governi statunitense e israeliano su come sostenere questa relazione. Ma la capacità di Israele di mantenere uno stato permanente di guerra, occupazione e oppressione sarebbe profondamente compromessa senza il continuo sostegno americano (sia materiale che politico). In cambio, Israele funge da partner leale e da baluardo contro le minacce agli interessi americani nella regione. Israele ha anche agito a livello globale sostenendo i regimi repressivi sostenuti dagli Stati Uniti in tutto il mondo, dal Sudafrica dell’Apartheid alle dittature militari in America Latina. Alexander Haig, segretario di Stato americano sotto Richard Nixon, una volta disse senza mezzi termini: “Israele è la più grande portaerei americana al mondo – una portaerei che non può essere affondata, non trasporta nemmeno un soldato americano e si trova in una regione critica per la sicurezza nazionale americana “(3).

Il legame tra il carattere interno dello Stato israeliano e il suo posto speciale nel potere americano è simile al ruolo che l’apartheid sudafricano ha svolto per gli interessi occidentali nel continente africano. Ci sono importanti differenze tra l’apartheid sudafricano e quello israeliano – non ultima la quota preponderante della popolazione nera sudafricana nella classe operaia del Paese (a differenza dei palestinesi in Israele) – ma in quanto colonie di insediamento, entrambi i Paesi sono diventati centri di organizzazione del potere occidentale nelle rispettive aree. Se esaminiamo la storia del sostegno occidentale all’apartheid sudafricano, vediamo lo stesso tipo di giustificazioni che vediamo oggi nel caso di Israele (e lo stesso tipo di tentativi di bloccare le sanzioni internazionali e criminalizzare i movimenti di protesta). Questi parallelismi arrivano ad includere il ruolo di individui specifici. Un esempio poco conosciuto è il viaggio in Sudafrica di un giovane membro del Partito Conservatore britannico nel 1989, quando egli si schierò contro le sanzioni internazionali al Sudafrica e spiegò perché la Gran Bretagna avrebbe dovuto continuare a sostenere il regime dell’Apartheid. Decenni dopo, quel giovane conservatore, David Cameron, ricopre oggi la carica di Ministro degli Esteri del Regno Unito – ed è uno dei principali leader mondiali schierato a favore del genocidio di Israele a Gaza.

La centralità del Medio Oriente nell’economia petrolifera globale conferisce a Israele un posto di potere imperiale più pronunciato di quello occupato dal Sudafrica dell’apartheid. Ma entrambi i casi dimostrano perché è così importante riflettere su come i fattori regionali e globali si intersecano con le dinamiche interne di classe e razziali delle colonie di insediamento.

L’integrazione economica di Israele nel Medio Oriente

Il Medio Oriente è diventato ancora più importante per il potere americano dopo la nazionalizzazione delle riserve di petrolio greggio nella maggior parte della regione (e altrove) durante gli anni Settanta e Ottanta. La nazionalizzazione ha posto fine al controllo diretto che l’Occidente esercitava da tempo sulle forniture di greggio del Medio Oriente (sebbene le imprese americane ed europee continuassero a controllare la maggior parte della raffinazione, del trasporto e della vendita di questo petrolio a livello globale). In questo contesto, gli interessi degli Stati Uniti nella regione si basavano sulla garanzia di una fornitura stabile di petrolio al mercato mondiale – valutata in dollari – e sulla assicurazione che il petrolio non venisse usato come “arma” per destabilizzare il sistema globale incentrato sugli Stati Uniti. Inoltre, con i produttori di petrolio del Golfo che ora guadagnano trilioni grazie all’esportazione di greggio, gli Stati Uniti erano anche profondamente preoccupati per il modo in cui questi cosiddetti petrodollari circolavano nel sistema finanziario globale – una questione che è direttamente collegata al dominio del dollaro USA.

Nel perseguire questi interessi, la strategia statunitense si è concentrata sulla sopravvivenza delle monarchie del Golfo, guidate dall’Arabia Saudita, come alleati regionali chiave. Ciò era particolarmente importante dopo il rovesciamento, nel 1979, della monarchia iraniana dei Pahlavi, che era stata un altro pilastro degli interessi americani nel Golfo dal colpo di Stato del 1953. Il sostegno degli Stati Uniti ai monarchi del Golfo si è manifestato in vari modi, tra cui la vendita di ingenti quantità di materiale militare che ha trasformato il Golfo nel più grande mercato di armi del mondo, iniziative economiche che hanno convogliato la ricchezza dei petrodollari del Golfo nei mercati finanziari americani e una presenza militare permanente degli Stati Uniti che continua a costituire la garanzia ultima del dominio monarchico. Un momento cruciale nelle relazioni tra Stati Uniti e Golfo è stato rappresentato dalla guerra Iran-Iraq, durata tra il 1980 e il 1988 e considerata uno dei conflitti più distruttivi del XX secolo (fino a mezzo milione di vittime). Durante questa guerra, gli Stati Uniti fornirono armi, finanziamenti e intelligence a entrambe le parti, considerandola un modo per indebolire il potere di questi due grandi Paesi confinanti e garantire ulteriormente la sicurezza dei monarchi del Golfo.

La strategia statunitense in Medio Oriente si è dunque basata su due pilastri fondamentali: Israele da un lato, e le monarchie del Golfo dall’altro. Questi due pilastri rimangono oggi il fulcro del potere americano nella regione; tuttavia, si è verificato un importante cambiamento nel modo in cui essi si relazionano tra loro. A partire dagli anni Novanta, e fino ad oggi, il governo statunitense ha cercato di unire questi due poli strategici – insieme ad altri importanti Stati arabi, come la Giordania e l’Egitto – in un’unica zona legata al potere economico e politico degli Stati Uniti. Affinché ciò avvenga, Israele deve venire integrato nel più ampio Medio Oriente, normalizzando le sue relazioni (economiche, politiche e diplomatiche) con gli Stati arabi. Ciò significa, soprattutto, sbarazzarsi dei boicottaggi che, almeno formalmente, i paesi arabi hanno imposto contro Israele da diversi decenni addietro.

Dal punto di vista di Israele, la normalizzazione non consisteva semplicemente nel consentire il commercio e gli investimenti israeliani negli Stati arabi. Dopo una grave recessione a metà anni Ottanta, l’economia israeliana si era spostata da settori come l’edilizia e l’agricoltura verso l’alta tecnologia, la finanza e le esportazioni militari. Molte importanti aziende internazionali, tuttavia, erano riluttanti a fare affari con le imprese israeliane (o all’interno di Israele stesso) a causa dei boicottaggi secondari imposti dai governi arabi. (4) L’abolizione di questi boicottaggi era essenziale per attirare le grandi imprese occidentali in Israele e per consentire alle imprese israeliane di accedere ai mercati esteri negli Stati Uniti e altrove. La normalizzazione economica, in altre parole, aveva lo stesso scopo di assicurare al capitalismo israeliano un posto nell’economia globale, oltre a quello di consentire a Israele l’accesso ai mercati del Medio Oriente.

A tal fine, a partire dagli anni Novanta, gli Stati Uniti (e i loro alleati europei) hanno utilizzato una serie di meccanismi volti a favorire l’integrazione economica di Israele nel Medio Oriente. Uno di questi è stato l’approfondimento delle riforme economiche – un’apertura agli investimenti stranieri e ai flussi commerciali che ha interessato rapidamente tutta la regione. A tal fine, gli Stati Uniti hanno preso una serie di iniziative economiche che cercavano di legare i mercati israeliani e arabi tra loro, e così all’economia statunitense. Uno schema chiave riguardava le cosiddette Qualifying Industrial Zones (QIZ), zone produttive a basso salario istituite in Giordania e in Egitto alla fine degli anni Novanta. I beni prodotti nelle QIZ (per lo più tessili e abbigliamento) potevano accedere agli Stati Uniti beneficiando di un’esenzione dai dazi doganali, a condizione che una certa percentuale dei fattori produttivi coinvolti nella loro fabbricazione provenisse da Israele. Le QIZ hanno svolto un ruolo precoce e decisivo nel riunire capitali israeliani, giordani ed egiziani in strutture di proprietà congiunta, normalizzando le relazioni economiche tra due degli Stati arabi confinanti con Israele. Nel 2007, il governo statunitense riferiva che oltre il 70% delle esportazioni giordane verso gli Stati Uniti proveniva dalle QIZ; per l’Egitto, nel 2008 il 30% delle esportazioni verso gli Stati Uniti era prodotto nelle QIZ (5).

Oltre al programma QIZ, nel 2003 gli Stati Uniti hanno proposto l’iniziativa Middle East Free Trade Area (MEFTA). Il MEFTA mirava a creare una zona di libero scambio che abbracciasse l’intera regione entro il 2013. La strategia statunitense consisteva nel negoziare individualmente con i Paesi “amici” attraverso un processo graduale in sei fasi che avrebbe portato alla fine a un vero e proprio accordo di libero scambio (FTA) tra gli Stati Uniti e il Paese in questione. Questi accordi sono stati concepiti in modo che i Paesi potessero collegare i propri accordi di libero scambio bilaterali con gli Stati Uniti con gli accordi di libero scambio bilaterali di altri Paesi, stabilendo così accordi a livello sub-regionale in tutto il Medio Oriente. Questi accordi subregionali possono venire collegati via via fino a coprire l’intera regione. È importante notare che questi accordi di libero scambio possono essere utilizzati anche per incoraggiare l’integrazione di Israele nei mercati arabi: ogni accordo contiene una clausola che impegna il firmatario alla normalizzazione con Israele e proibisce qualsiasi boicottaggio delle relazioni commerciali. Sebbene gli Stati Uniti non abbiano raggiunto l’obiettivo del 2013 di istituire il MEFTA, questa politica ha guidato con successo l’espansione dell’influenza economica statunitense nella regione, sostenuta dalla normalizzazione tra Israele e i principali Stati arabi. Oggi gli Stati Uniti hanno 14 accordi di libero scambio con Paesi di tutto il mondo, di cui cinque con Stati del Medio Oriente (Israele, Bahrein, Marocco, Giordania e Oman).

Gli accordi di Oslo

Tuttavia, il successo della normalizzazione economica dipendeva in ultima analisi da un cambiamento della situazione politica che doveva dare il “via libera” palestinese all’integrazione economica di Israele nella regione. In questo caso, il punto di svolta fondamentale è rappresentato dagli Accordi di Oslo, un accordo tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) firmato sotto gli auspici del governo statunitense sul prato della Casa Bianca nel 1993. Oslo si basava pesantemente sulle pratiche coloniali stabilite nei decenni precedenti. Fin dagli anni ’70, Israele aveva cercato di trovare una forza palestinese che amministrasse la Cisgiordania e la Striscia di Gaza per suo conto – un proxy palestinese per l’occupazione israeliana che potesse ridurre al minimo il contatto quotidiano tra i palestinesi e l’esercito israeliano. Questi primi tentativi sono falliti con la Prima Intifada, una rivolta popolare su larga scala iniziata (nella Striscia di Gaza) nel 1987. Gli accordi di Oslo hanno sancito la fine della Prima Intifada.

Con gli accordi di Oslo, l’OLP accettò di costituire una nuova entità politica, chiamata Autorità Palestinese (AP), alla quale sarebbero stati concessi poteri limitati su aree frammentate della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Per la sua sopravvivenza, l’Autorità palestinese sarebbe stata completamente dipendente da finanziamenti esterni, in particolare da prestiti, aiuti e tasse sulle importazioni riscosse da Israele e che sarebbero state poi trasferite all’Autorità. Poiché la maggior parte di queste fonti di finanziamento derivava in ultima analisi dagli Stati occidentali e da Israele, l’Autorità palestinese è stata rapidamente subordinata politicamente. Inoltre, Israele ha mantenuto il pieno controllo sull’economia e sulle risorse palestinesi e sul movimento di persone e merci. Dopo la divisione territoriale di Gaza e della Cisgiordania nel 2007, l’AP ha stabilito la sua sede a Ramallah, in Cisgiordania. Oggi l’AP è guidata da Mahmoud Abbas. (6)

Nonostante il modo in cui gli accordi di Oslo e i successivi negoziati vengono tipicamente presentati, essi non hanno mai avuto a che fare con la pace e la liberazione dei palestinesi. È stato sotto Oslo che l’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania è esplosa, che è stato costruito il Muro dell’Apartheid e che si sono sviluppate le elaborate restrizioni di movimento che oggi regolano la vita dei palestinesi. Oslo è servito a escludere dalla lotta politica segmenti chiave della popolazione palestinese – i rifugiati e i cittadini palestinesi di Israele – riducendo la questione della Palestina a negoziati su porzioni di territorio in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Soprattutto, Oslo ha fornito una benedizione palestinese all’integrazione di Israele nel più ampio Medio Oriente, permettendo ai governi arabi – guidati da Giordania ed Egitto – di abbracciare la normalizzazione con Israele sotto l’ombrello degli Stati Uniti.

È stato dopo Oslo che sono emerse le restrizioni di movimento, le barriere, i checkpoint e i buffer militari che oggi circondano Gaza. In questo senso, la prigione a cielo aperto che è oggi Gaza è essa stessa una creazione del processo di Oslo: un filo diretto collega i negoziati di Oslo al genocidio a cui stiamo assistendo. È fondamentale ricordarlo alla luce delle discussioni in corso sui possibili scenari postbellici. La strategia israeliana ha sempre comportato l’uso periodico della violenza estrema, abbinata a false promesse di negoziati sostenuti a livello internazionale. Questi due strumenti fanno parte dello stesso processo, che serve a rafforzare la continua frammentazione e l’espropriazione del popolo palestinese. Qualsiasi negoziato post-bellico guidato dagli Stati Uniti vedrà sicuramente tentativi simili per garantire il continuo dominio di Israele sulle vite e sulle terre palestinesi.

Pensare al futuro

La centralità strategica del Medio Oriente, ricco di petrolio, nel potere globale americano spiega perché Israele sia oggi il più grande beneficiario cumulativo di aiuti esteri statunitensi nel mondo, nonostante sia la tredicesima economia più ricca al mondo per PIL pro capite (superiore a Regno Unito, Germania e Giappone).

Questo spiega anche il sostegno bipartisan a Israele tra le élite politiche degli Stati Uniti (e del Regno Unito). In effetti, nel 2021 – sotto la presidenza Trump e prima dell’attuale guerra – Israele ha ricevuto più finanziamenti militari esteri statunitensi di tutti gli altri Paesi del mondo messi insieme. E, cosa fondamentale, come hanno dimostrato gli ultimi otto mesi, il sostegno americano si estende ben oltre il supporto finanziario e materiale, con gli Stati Uniti che agiscono come ultima sponda nella difesa politica di Israele sulla scena mondiale. (7)

Come abbiamo visto, l’alleanza americana con Israele non è un fatto accessorio rispetto all’espropriazione del popolo palestinese, ma è anzi fondata su di essa. È il carattere coloniale di Israele che gli ha conferito un ruolo così importante nel rafforzare il potere degli Stati Uniti nella regione. È per questo che la lotta palestinese è una parte fondamentale del cambiamento politico in Medio Oriente, una regione che oggi è la più polarizzata socialmente, diseguale economicamente e colpita dai conflitti del mondo. E, viceversa, è il motivo per cui la lotta per la Palestina è intimamente legata ai successi (e ai fallimenti) di altre lotte sociali progressiste nella regione.

L’asse centrale di queste dinamiche interregionali rimane il legame tra Israele e gli Stati del Golfo. Nei due decenni successivi agli accordi di Oslo, la strategia statunitense in Medio Oriente ha continuato a porre l’accento sull’integrazione economica e politica di Israele con gli Stati del Golfo. Un importante passo avanti in questo processo si è verificato con gli Accordi di Abraham del 2020, che hanno visto gli Emirati Arabi Uniti (EAU) e il Bahrein accettare di normalizzare le relazioni con Israele. Gli accordi di Abraham hanno aperto la strada a un accordo di libero scambio tra gli Emirati Arabi Uniti e Israele, firmato nel 2022, che è stato il primo accordo di libero scambio di Israele con uno Stato arabo. Il commercio tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti ha superato i 2,5 miliardi di dollari nel 2022, rispetto ai 150 milioni di dollari del 2020. Anche il Sudan e il Marocco hanno raggiunto accordi simili con Israele, spinti da importanti incentivi americani (8).

Con gli accordi di Abraham, cinque paesi arabi hanno ora relazioni diplomatiche formali con Israele. Questi paesi rappresentano circa il 40% della popolazione del mondo arabo e comprendono alcune delle principali potenze politiche ed economiche della regione. Ma rimane ancora una domanda cruciale: quando l’Arabia Saudita si unirà a questo club? E’ impossibile che gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein abbiano accettato gli Accordi di Abraham senza il consenso dell’Arabia Saudita, ma il Regno Saudita non ha ancora formalmente normalizzato i legami con Israele, nonostante una pletora di incontri e collegamenti informali tra i due Stati negli ultimi anni.


Nel contesto dell’attuale genocidio, un accordo di normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele è senza dubbio l’obiettivo principale della pianificazione statunitense per il dopoguerra. È molto probabile che il governo saudita sia d’accordo con questo obbiettivo – e probabilmente lo ha indicato all’amministrazione Biden – a condizione che riceva una sorta di via libera dall’Autorità palestinese di Ramallah (forse collegato al riconoscimento internazionale di uno pseudo-Stato palestinese in alcune parti della Cisgiordania). Ovviamente questo scenario è ostacolato da notevoli ostacoli, tra cui il continuo rifiuto dei palestinesi di Gaza di sottomettersi e la questione di come Gaza sarà amministrata dopo la fine della guerra. Ma l’attuale piano statunitense di una forza araba multinazionale che prenda il controllo della Striscia, guidata da alcuni dei principali Stati normalizzatori – Emirati Arabi Uniti, Egitto e Marocco – sarebbe probabilmente collegato alla normalizzazione saudita-israeliana.

Il riavvicinamento tra gli Stati del Golfo e Israele è sempre più cruciale per gli interessi degli Stati Uniti nella regione, viste le forti rivalità e le tensioni geopolitiche che stanno emergendo a livello globale, soprattutto con la Cina. Sebbene non vi siano altre “grandi potenze” destinate a sostituire il dominio americano in Medio Oriente, negli ultimi anni si è assistito a un relativo declino dell’influenza politica, economica e militare degli Stati Uniti nella regione. Un’indicazione di ciò è la crescente interdipendenza tra gli Stati del Golfo e la Cina/Asia orientale, che ora va ben oltre l’esportazione di greggio mediorientale. In questo contesto – e dato il posto che Israele occupa da sempre nel potere americano – qualsiasi processo di normalizzazione guidato dallo Stato americano contribuirebbe a riaffermare il primato americano nella regione, fungendo potenzialmente da leva cruciale contro l’influenza della Cina.

Tuttavia, nonostante le discussioni in corso sugli scenari post-bellici, gli ultimi 76 anni hanno ripetutamente dimostrato che i tentativi di cancellare definitivamente la fermezza e la resistenza palestinese falliranno. La Palestina si trova ora in prima linea in un risveglio politico globale che supera qualsiasi cosa vista dagli anni Sessanta. In questo contesto di maggiore consapevolezza della condizione palestinese, la nostra analisi deve andare oltre l’immediata opposizione alla brutalità di Israele nella Striscia di Gaza. La lotta per la liberazione della Palestina è al centro di qualsiasi sfida efficace agli interessi imperiali in Medio Oriente e i nostri movimenti hanno bisogno di una migliore conoscenza di queste dinamiche regionali più ampie, in particolare del ruolo centrale delle monarchie del Golfo. Abbiamo anche bisogno di una comprensione più profonda del modo in cui il Medio Oriente si inserisce nella storia del capitalismo fossile e nelle lotte contemporanee per la giustizia climatica. La questione della Palestina non può essere separata da queste realtà. In questo senso, la straordinaria battaglia per la sopravvivenza condotta oggi dai palestinesi nella Striscia di Gaza rappresenta la punta di diamante della lotta per il futuro del pianeta.

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta sul sito web del Transnational Institute.

Note

  1. Per un’ulteriore elaborazione e documentazione dei punti esposti in questa sezione, si veda il mio libro di prossima pubblicazione, Crude Capitalism: Oil, Corporate Power, and the Making of the World Market (Verso Books, 2024).
  2. I regimi clienti arabi – come gli attuali Egitto, Giordania e Marocco – vengono ripetutamente contrastati dai movimenti politici all’interno dei propri confini e sono sempre costretti ad accogliere e rispondere alle pressioni provenienti dal basso.
  3. La fonte di questa citazione è un articolo dell’ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, Michael Oren, intitolato “The Ultimate Ally”.
  4. I boicottaggi secondari significavano che un’azienda che investiva in Israele, ad esempio Microsoft, avrebbe rischiato di essere esclusa dai mercati arabi.
  5. Ulteriori discussioni sui QIZ, sul MEFTA e sull’economia politica della normalizzazione di Israele si trovano in Adam Hanieh, Lineages of Revolt: Issues of Contemporary Capitalism in the Middle East (Haymarket Books, 2013), in particolare alle pagine 36-38.
  6. Nel 2006, le elezioni per il Consiglio legislativo palestinese sono state vinte in modo convincente da Hamas, che ha ottenuto 74 seggi su 132. Inizialmente è stato istituito un governo di unità nazionale tra Hamas e Fatah, il partito palestinese dominante che controlla l’Autorità palestinese. Ma questo governo è stato sciolto da Fatah dopo che Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza nel 2007. Da allora, esistono autorità separate a Gaza e in Cisgiordania.
  7. Esistono anche molti altri tipi di sostegno, oltre agli aiuti militari e finanziari diretti: ad esempio, gli Stati Uniti forniscono miliardi di dollari in garanzie sui prestiti a Israele, consentendogli di ottenere prestiti più economici sul mercato mondiale. Israele è uno dei soli sei Paesi al mondo ad aver ricevuto tali garanzie nell’ultimo decennio (gli altri sono Ucraina, Iraq, Giordania, Tunisia ed Egitto).
  8. Nel caso del Sudan, gli Stati Uniti hanno accettato di fornire un prestito di 1,2 miliardi di dollari e di rimuovere il Paese dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo (sebbene l’accordo di normalizzazione non sia ancora stato ratificato). Per il Marocco, gli Stati Uniti hanno riconosciuto la sovranità marocchina sul Sahara occidentale in cambio della normalizzazione del Paese con Israele.

* Adam Hanieh è ricercatore del TNI e professore di economia politica e sviluppo globale presso l’Istituto di studi arabi e islamici dell’Università di Exeter. Il suo libro più recente, Crude Capitalism: Oil, Corporate Power, and the Making of the World Market, è in uscita per Verso Books nel settembre 2024.