Sabato 21 Aprile convegno a Torino h. 10, adesioni e contributi.
(SI Cobas, Federico Giusti e Marcello Pantani Cobas Lavoro Privato, CSA Vittoria)
Adesione del SI Cobas
Il procedere concreto della crisi capitalista, le politiche con cui le forze politiche e sindacali capitaliste (di centro destra e centro sinistra) tentano di “governarla” e, spesso, le linee di intervento di chi intende opporvisi, concorrono a creare e conservare una frammentazione e divisione nell’insieme dei lavoratori, della classe proletaria.
Le risposte immediate agli effetti della crisi (ristrutturazioni, licenziamenti, ecc.) se ovviamente devono partire dalla situazione concreta, nella realtà rimangono circoscritte e limitate ad essa. Chi si trova di fronte alla fabbrica che chiude, ai licenziamenti di rappresaglia, ai trasferimenti, a contrastare la nocività, … nella maggior parte dei casi non riesce nemmeno a porre la questione dell’allargamento e dell’unità con lavoratori appartenenti ad altre realtà, categorie, luoghi geografici.
Questa perdurante incapacità non deriva solamente dalle difficoltà oggettive a riuscire a farlo (enunciarlo può essere semplice, praticarlo non altrettanto), ma è principalmente un prodotto della situazione preesistente della lotta sindacale e politica, sinteticamente riassumibile nel permanere dell’illusione di risolvere i propri problemi specifici nei limiti fissati dalle compatibilità capitaliste, magari allargandole e stiracchiandole un po’ a proprio (contingente) vantaggio.
L’incapacità e difficoltà a collegarsi in modo unitario è ancora più eclatante quando si tratta di unificare settori tra loro diversi come i lavoratori a tempo indeterminato, “fissi”, e la svariata pluralità di precari, le cui condizioni sono normate da una serie amplissima di forme contrattuali. Mancando quelle condizioni “concrete” comuni, date ad esempio dal medesimo contratto o dallo stesso padrone con cui confrontarsi, sembra non esserci l’elemento materiale comune sia per unificare i precari tra di loro, tanto più per unirli con i lavoratori “fissi”.
Oltretutto c’è da contrastare la pressante campagna dell’intero schieramento avverso, con cui le misure di attacco a tutti i salari (fino alla loro riduzione di fatto) sono vestite nei panni della “difesa dei giovani” e del superamento della precarietà. (La Marcegaglia e Monti ne sono gli alfieri e ne fanno il leitmotiv della generale controriforma sociale in atto).
Non c’è contratto nell’ultimo ventennio che non abbia introdotto “salari di ingresso”, apprendistati vari, ecc. (e non per volontà padronale, ma sindacale) e che non sia stato presentato come “governo” della precarietà, mentre ne era la sua istituzionalizzazione e diffusione.
Se poi ai lavoratori a tempo indeterminato e ai precari aggiungiamo anche i pensionati, il quadro delle difficoltà e incapacità ad unificarli è ancora più intricato, e deve fare i conti col fatto che il sistema pensionistico attuale è stato sorretto tagliando le pensioni ai lavoratori a tempo indeterminato e riducendole a una chimera irraggiungibile per i precari, giustificandolo col solito leitmotiv di averlo fatto “per dare una pensione ai giovani”.
Situazione che porta il giovane lavoratore precario a chiedersi perché mai dovrebbe lottare per garantire la pensione ad altri, se lui non ce la avrà.
La difficoltà concreta dei lavoratori, quale che sia l’individuale condizione contrattuale, a percepire un terreno concreto comune è infine ancora più grande nei confronti di un settore del proletariato che si è esponenzialmente sviluppato nell’ultimo decennio, quello degli immigrati. Questi “ultimi della terra” delle “società” capitalistiche ultra decrepite in cui noi viviamo, sono proletari non in quanto immigrati, ma perché la condizione dell’immigrazione li getta in una situazione di nudo e crudo possesso solo della propria forza-lavoro (nella maggioranza dei casi senza le catene di un mutuo trentennale, delle rate per l’auto, ecc.), spesso ridotti in condizioni limitrofe alla schiavitù, sotto la sferza dei caporali, nelle cooperative della logistica o nella raccolta dei pomodori e, se donne, sui marciapiedi della prostituzione.
Da sormontare non c’è solo il razzismo imperante contro “l’immigrato che ti porta via il lavoro”, ma la concreta condizione di una forza lavoro sottopagata che funge da strumento di attrazione verso il basso per tutti i salari e tutti i diritti.
Per ricomporre la classe, per unificarla su di un terreno anticapitalista, non basta né volerlo, né limitarsi a propagandarne la necessità. Occorre tentare di fare dei passi concreti, rompendo gli steccati esistenti tra i lavoratori e tra gli organismi sindacali, territoriali e politici che vogliono contrastare il capitalismo. Occorre fare leva sulle rispettive specificità e particolarità per inserirle in un quadro unitario, senza invece adagiarsi in esse.
Da tempo sosteniamo la necessità di un collegamento diretto tra i lavoratori (e tra loro e il territorio) a prescindere dalle eventuali tessere sindacali che ciascuno può avere in tasca, superando il localismo e le logiche di appartenenza.
Anche recentemente abbiamo provato a realizzarlo, ad esempio nel caso della lotta degli operai delle cooperative dell’appalto Esselunga di Pioltello, cercando di collegare la lotta all’Esselunga con la resistenza alla chiusura della fabbrica alla Jabil di Cassina de’ Pecchi (MI) e all’opposizione ai licenziamenti dei lavoratori dei Treni Notte a Milano, e con altre situazioni in fermento nel milanese.
Abbiamo dovuto constatare una certa sordità a passare dalle parole ai fatti e anche, come nel caso dei lavoratori dei Treni Notte, ci siamo trovati di fronte al tentativo delle burocrazie sindacali di impedire il collegamento e all’aperto sabotaggio dell’assemblea indetta sotto la torre dove c’erano i lavoratori. (Sabotaggio coadiuvato da una nutrita presenza di poliziotti e carabinieri). Sordità ancora non superata.
Sosteniamo la necessità del collegamento diretto e trasversale tra tutti i lavoratori, perché sappiamo che, ad esempio rimanendo a quanto noi stiamo direttamente facendo, la sola unità delle lotte nelle cooperative della logistica della Lombardia e del piacentino (obiettivo di per sé importante e necessario cui stiamo lavorando), senza allargarsi anche ad altri settori di lavoratori, non può mettere in campo le forze necessarie a fronteggiare l’attacco in corso alle nostre condizioni di vita e di lavoro, che con il governo Monti ha fatto un salto in avanti.
Portare a casa risultati importanti nel settore delle cooperative sarebbe per noi importante (ancora di più per i lavoratori di queste cooperative), ma un risultato ottenuto in una singola azienda, in uno spezzone di categoria, in una singola realtà territoriale, … è destinato ad essere rimangiato dal procedere della crisi capitalista. Questo vale nelle cooperative come in qualsiasi altro settore.
Per questo partecipiamo e sosteniamo il convegno di Torino. Se da esso uscisse concretamente operante anche uno solo degli obiettivi proposti alla discussione, quello del collegamento e una mutualità stabile delle lotte e delle varie realtà, pur solo inizialmente circoscritto ai partecipanti del convegno, avemmo ottenuto un importante risultato.
L’unificazione anticapitalista dei lavoratori si fonda su questo e non può essere il risultato di un improbabile allargamento di questo o quel sindacato di “base” che faccia progressivamente concorrenza a Cgil, Cisl, Uil (a cominciare dal SI Cobas, o da un’oggi non ipotizzabile unificazione formale di tutti i sindacati di “base”).
Lo scenario della lotta tra le classi che abbiamo di fronte, nel prossimo futuro, non è di una progressiva, lenta e costante crescita dell’opposizione sociale; abbiamo di fronte una prospettiva di rotture laceranti, di salti in avanti, di entrata in campo di settori operai e proletari colpiti dagli effetti della crisi.
Una situazione difficile e contraddittoria, che cova sotto la cenere di una rassegnazione diffusa (spezzata però da una serie di lotte di resistenza e da iniziative contro l’abolizione dell’art. 18) creata da decenni di concertazione sindacale e di politica del centrosinistra finalizzata a gestire la crisi capitalista.
Una situazione che non è destinata a durare, ma che potrà anche essere un esplodere di fiammate separate l’una dalle altre, spente separatamente l’una dalle altre, se fin d’ora non si inizia a porre in atto un percorso di riunificazione anticapitalista di tutti i lavoratori.
Solo attrezzandoci per gettare oggi le basi di questo percorso, potremo anche accumulare le forze per superare tutte quelle posizioni che ancora si illudono di poter riuscire a ottenere una differente fuoriuscita dalla crisi capitalista, limando gli aspetti più feroci del capitalismo, rendendolo più “equo e solidale”.
Solo lo sviluppo della lotta tra le classi, la sua trasformazione in lotta di classe, possono creare le condizioni oggettive per un salto di qualità nelle posizioni e nelle rivendicazioni dei lavoratori, creare l’humus su cui possa attecchire la propaganda dell’irriformabilità del capitalismo.
Solo in questo modo potrà essere concretamente posta all’ordine del giorno la costituzione di un sindacato anticapitalista che sia percepito dalla massa dei lavoratori come un’alternativa credibile alla concertazione e alle politiche di collaborazione interclassista dei sindacati istituzionali.
Sul nostro sito abbiamo messo lo slogan “rilanciare le lotte – costruire l’unità di classe dei lavoratori”, con il convegno di Torino si deve lavorare a questo, per superare i limiti attuali politici e organizzativi, a cominciare da quelli del SI Cobas, che per noi non è il fine, ma il mezzo per ottenere il risultato dell’unità di classe dei lavoratori.
In questo modo cominceremo anche a contribuire a creare le condizioni perché si possa affermare un punto di vista indipendente dei lavoratori, che oggi sono soli di fronte alla crisi capitalista e alle misure dei governi borghesi per affrontarla, subordinati alle ideologie e alle organizzazioni politiche e sindacali che vedono nel capitalismo l’unico mondo possibile.
Milano, 18/4/2012
Sindacato Intercategoriale Cobas
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Contributo di Federico Giusti e Marcello Pantani del Cobas Lavoro Privato
Come delegati e militanti del Cobas Lavoro Privato che lavorano e sono impegnati sindacalmente nelle province di Pisa e di Livorno, vi inviamo queste poche righe di contributo al dibattito.
Mai come da quattro anni a questa parte (da quando cioè -era il giugno 2008 e la destra aveva appena vinto le elezioni- il padronato e il governo Berlusconi prima e quello Monti dopo hanno fatto vedere di che panni veste la restaurazione totalitaria dell’ordine capitalistico a partire dal rapporto di lavoro) si è palesata la pochezza di teoria e pratica, di strategia e tattica, di proposta e mobilitazione del sindacalismo di base, fino ad arrivare al dramma del suo mutismo e della sua scomparsa opportunisti ci e irresponsabili di fronte al pacchetto Fornero su precariato, ammortizzatori sociali e licenziamenti individuali.
Eppure, la complicità aperta della Cisl e della Uil, a cui si è felicemente ricongiunta da un anno e mezzo la Cgil della signora Camusso (che ha fatto “giacobinamente” piazza pulita dei tentennamenti dell’era Epifani, tesi per altro a guadagnare tempo piuttosto che a organizzare qualche cenno di resistenza o di contrattacco), poteva/doveva essere colta e interpretata come il contesto più favorevole all’iniziativa del sindacalismo di base, per uscire dal minoritarismo atavico di nicchia, dal vuoto testimonialismo inconcludente e passare alla proposta maggioritaria di progetto, programma, mobilitazione e lotta.
Incapacità del sindacalismo di base di essere punto di riferimento per il conflitto sulla gamma dei temi relativi al lavoro sotto padrone nei luoghi di lavoro e a livello generale; marginalità qualitativa e quantitativa della sua presenza; inadeguatezza dei suoi tentativi di non essere spazzato via dallo tsunami reazionario, per la verità scarsi, balbettanti e intermittenti: questi i nodi che impietosamente, infine, sono venuti al pettine, in una situazione in cui il mondo del lavoro subordinato e di quello c. d. parasubordinato è attraversato da una sorta di paralisi a rialzare la testa, prostrato com’è dalla crisi, la cui gestione i sindacati complici hanno consegnato interamente alla ferocia di classe dei padroni e dei loro governi.
Col risultato di un taglio sistematico dei tempi e delle pause; di una intensificazione massacrante dei ritmi produttivi e dei carichi di lavoro; di un’aggressione sistematica ai diritti (compreso quello di sciopero e di cura della salute), alla libertà e alla stessa dignità della persona; di un regime di ricatto, intimidazione e terrorismo psicologico, che ormai sono i metodi che si vanno sempre più diffondendo, con cui la gerarchia aziendale esercita il suo comando sulla forza-lavoro.
Per non parlare della miseria salariale, che non ha quasi più niente da “invidiare” a quella pensionistica; o dei provvedimenti legislativi che danno forza di legge alla dittatura padronale sul lavoro, espellono dal lavoro lavoratori non affidabili sindacalmente o quanto a “rendimento” lavorativo, li scaraventano nella situazione di fame dei senza-lavoro e dei senza-pensione, visto che il raggiungimento pieno dell’età pensionabile è ormai diventato una chimera.
Ma il sindacalismo di base non è solo quello degli “stati maggiori”, è anche quello dei lavoratori e dei militanti diffusi nei posti di lavoro e nei territori, i quali da tempo fanno i conti con le caratteristiche di pesante negatività dell’impianto generale in cui si “muovono” i vari loro sindacatini.
E, mai come negli ultimi quattro anni, sono convinti della necessità di rivoluzionare quell’impianto generale, sia in termini di analisi, di progetto e di proposta, sia di assetti organizzativi, modalità di funzionamento interno e di relazione con le singole situazioni di lavoro e con quella generale.
Senza contare che sta crescendo da parte delle “periferie” del sindacalismo di base l’esigenza di un confronto vero tra le varie organizzazioni sull’unità d’azione e sulla necessità di un rimescolamento generale delle carte.
Non è un caso che (mentre a livello nazionale perdura, quanto a iniziative di carattere generale, un dialogo tra sordi, o quasi, in particolare tra i due sindacati di base che vanno “per la maggiore” e lo stesso coordinamento nazionale degli autoferrotranvieri si trova, pare, in una pausa di riflessione) comincino a sorgere in alcune province o regioni forme di unità d’azione tra sindacati di base, magari circoscritte ad alcuni episodi particolari o ad alcuni settori.
E non è un caso, nemmeno, che comitati, coordinamenti, iniziative comuni, anche non estemporanee, si stiano formando tra lavoratori e lavoratrici, delegati di RSU e non, appartenenti al settore pubblico e a quello privato, aderenti a sindacati di base o alla Cgil o a nessun sindacato, lavoratori precari, studenti, movimenti per la difesa del territorio e dei beni comuni.
L’opposizione al pacchetto Fornero attualmente in parlamento e alla controriforma delle pensioni andata in porto in dicembre si presenta significativamente come un terreno su cui costruire esperienze di organizzazione e di unità d’azione “dal basso”, sia nei vari luoghi di lavoro che a livello territoriale.
Un’opposizione che sarebbe grave errore concepire solo per il tempo della discussione parlamentare di quel pacchetto, per disarmare dopo la sua approvazione, perché questo vorrebbe dire arrendersi senza condizioni, per farsi stritolare nella morsa della sottomissione più brutale e spietata all’ordine padronale.
Queste forme di unità dal basso necessitano non solo di svilupparsi, rafforzarsi ed estendersi, ma anche di coordinarsi su archi territoriali sempre più vasti, fino a raggiungere il livello nazionale.
E non va dato affatto per perso il tessuto dell’attuale sindacalismo di base, anzi esso va chiamato in causa, non per richiedergli di essere all’altezza della situazione, ma per imporglielo, insieme all’imporgli di rivedere pesantemente la sua progettualità, i suoi assetti, la sua organizzazione.
Se questo non dovesse accadere, tanto peggio per gli attuali suoi gruppi dirigenti, che si vedrebbero inevitabilmente emarginati da un ciclo di lotte, per il quale lo sviluppo dell’aggregazione dal basso potrebbe, nel frattempo, avere costruito le condizioni per andare avanti.
In ogni caso, dopo anni che i singoli luoghi di lavoro non sono più lo scenario di apertura di vertenze su piattaforme basate su rivendicazioni provenienti dai bisogni dei lavoratori, e che si trovano invece a dovere fare i conti con le rivendicazioni padronali, bene accolte e ratificate dai sindacati complici che, con stile notarile, trasformano in “accordi” i diktat del padrone, è chiaro che la mobilitazione in corso a macchia di leopardo contro il disegno di legge sul “mercato del lavoro” (da generalizzare e da estendere dai metalmeccanici a tutte le altre categorie) dev’essere anche il terreno su cui darsi la forza per riprendere l’azione e la lotta contro l’organizzazione del lavoro, per il salario, per i diritti, per la libertà, per la tutela della salute e della dignità.
Azione e lotta che, altrimenti, sarebbe pia illusione immaginarsi di potere rilanciare azienda per azienda, dopo essere stati schiacciati dal rullo compressore del governo e delle banche e dei padroni, suoi mandanti, ed essersi arresi fino a data da stabilire.
Anzi, l’attuale momento di opposizione dei lavoratori alle politiche governative, che ha una dimensione e una configurazione di tipo generale, dev’essere utilizzata anche per mettersi in grado di ragionare e agire nei termini di una generale “vertenza” nazionale sui temi del salario, dell’orario di lavoro, dell’occupazione (e -perché no?- anche della questione alloggiativa), tutti temi che devono integrarsi col programma dei NO (alla cancellazione dell’articolo 18, alla riduzione ai minimi termini degli ammortizzatori sociali, alla condanna a vita a essere precari, all’affossamento del diritto alla pensione, alla miseria pensionistica).
Quello che serve (lo ripetiamo, per ribadirlo con forza), per risalire la china nella quale ci troviamo e la cui risalita potrebbe diventare sempre meno praticabile, non è tanto una, attualmente improponibile, ripresa della vertenzialità aziendale, perché in azienda oggi si perde (se ce n’è qualcuna in cui si può vincere, tanto meglio, naturalmente!), ma (insieme alla mobilitazione su quei NO) una campagna di propaganda, d’informazione e di organizzazione per dare vita a una sorta di lotta generale su quei contenuti.
Condizione per muoversi in questa direzione è l’aggregazione dal basso, la sua costruzione senza indugi, il rovesciamento di questa forza sull’inerzia talora inetta e irresponsabile del sindacalismo di base, l’iniziativa determinata e indipendente dal fatto che i gruppi dirigenti del sindacalismo di base decidano o non decidano cosa faranno da grandi.
Noi, intanto, pur lavorando con convinzione per l’organizzazione dal basso, stiamo e restiamo nella confederazione Cobas, perché qui non ci manca di certo da lavorare.
Buon lavoro!
Pisa, 16 aprile 2012
Federico Giusti Marcello Pantani
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Contributo dei compagni e delle compagne del CSA Vittoria di Milano
Unire le lotte per un’alternativa di classe.
Crediamo importante ogni momento di confronto che provi a costruire ragionamento complessivo e relazioni politiche all’interno di una strategia di ricomposizione e di unità della classe.
Riteniamo ancor più importante valorizzare ogni possibilità di confronto quando questo sia indirizzato a produrre relazioni stabili tra i soggetti reali che producono il conflitto, provando a ricomporre sul terreno dei bisogni materiali e non solo, quello che l’organizzazione capitalistica del lavoro ha scomposto nei mille rivoli della produzione post fordista nei paesi occidentali a capitalismo avanzato.
Crediamo che il conflitto sia l’unico terreno dove verificare ognuno le proprie strategie, la condivisione di obiettivi e il superamento della pesantissima fase che abbiamo attraversato e stiamo tutt’ora attraversando di crisi di identità della classe portatrice di interessi inconciliabili.
Accogliamo, facciamo nostra e giriamo ad altre e altri la proposta di aprire un confronto tra alcune esperienze di conflitto reali che si muovono sul territorio nazionale convinti che il confronto, la messa in rete, tra esperienza di lotta settoriali e diverse ma che condividono radicalità di contenuti, sia un passaggio necessario per la generalizzazione e l’estensione del conflitto.
I vari Marchionne alla fiat, i vari Caprotti padre padrone dell’ Esselunga, i vari luridi pescecani seduti nei consigli d’ amministrazione dei poli logistici , dei call center e della fabbrica diffusa nel territorio, le diverse punte più aggressive del capitalismo italiano già da tempo utilizzano il metodo dell’imposizione di relazioni sociali e sindacali improntate sull’autoritarismo e la politica antisindacale.
Loro, la loro parte di lotta di classe, la stanno facendo egregiamente e infatti il governo Monti, espressione diretta del capitale produttivo e finanziario, sta costruendo un ombrello ideologico a copertura giuridico istituzionale e a giustificazione congiunturale dei vari processi di dismissione di interi apparati produttivi e, riportando in auge il concetto di “razionalità produttiva”, fa scempio di conquiste e diritti, demolisce progressivamente ogni pezzo di welfare e garanzia sociale rimasta all’insegna della salvezza del capitalismo come unica società possibile.
Il capitale sta dichiarando guerra al lavoro rendendo la precarietà come condizione strutturale della classe.
Crediamo assolutamente necessario interrogarci su come ricomporre quello che il capitalismo ha disgregato, atomizzato, individualizzato, trovando elementi unificanti e ricompositivi per un fronte di classe, pensando che sia ormai maturo il tempo della collettivizzazione di ogni ragionamento e proposta sugli obiettivi concreti da porsi come vertenzialità sociale generalizzata.
Il capitalismo, cosi fortemente in crisi e in caduta anche come modello di relazioni sociali, ci potrà fornire le armi per il suo abbattimento solo se saremo in grado di comprendere la fase e, con ogni passo indietro possibile di ciascuna delle soggettività politiche che agiscono all’interno del conflitto, contribuire alla ricomposizione dei mille lavori, alla messa in rete dei protagonisti reali del conflitto senza alcuna presunzione, se non in proiezione, di interpretarne il ruolo di rappresentanza politica.
Reali e oggettivi processi rivoluzionari di massa potranno riprendere piede solo ed esclusivamente fuori dalle stanze del potere, dai suoi comitati d’affari e fuori da ogni logica di real politic a cui attenersi,
Crediamo poco positiva la corsa alla rappresentanza, la rincorsa verso cartelli sommatori di soggettività, un insieme di debolezze con la logica di aree che si contendono la visibilità mediatica senza riuscire ad incidere realmente sui processi di formazione della coscienza, dell’organizzazione e dell’identità della classe.
Crediamo invece fondamentale avviare ad ogni livello confronto e relazioni tra pezzi di lotta reale, la costruzione di coordinamenti di lotta e di solidarietà , il percorrere e l’esperimentare la strada della condivisione di ragionamenti e percorsi nella prospettiva del fare emergere con forza un punto di vista di classe sulla crisi in grado di costruire rapporti di forza per il superamento radicale dell’ esistente.
In questo senso facciamo nostra la proposta raccogliendo l’appello per un confronto tra settori diversi della classe, sapendo che questo è solo un piccolo, se pur importante, pezzo dello scenario nazionale che il conflitto sta componendo.
I compagni e le compagne del Csa Vittoria
www.csavittoria,org vittoria@ecn.org