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La rivolta dei facchini immigrati: “Anche qui è piazza Tahrir”

Uno sciopero nazionale. È quello che ha visto protagonisti, lo scorso 22 marzo, gli operai della logistica e del settore trasporto merci che lavorano per marchi come Tnt, Gls, Sda, Bartolini e Ups. Un’iniziativa che, spiega Mohamed Arafat, autotrasportatore egiziano della Tnt di Piacenza da sempre in prima linea, non nasce oggi, ma affonda le sue radici in lotte durissime che continuano da almeno due anni.

Intervista a Mohamed Arafat di Marco Zerbino da MicroMega – 27 marzo 2013.
Nord Italia, 22 marzo 2013: i facchini della logistica e del trasporto merci, in maggioranza lavoratori immigrati che tutti i giorni spostano, caricano e scaricano pacchi per pochi euro, decidono di fermarsi. Il libro ordinato via Amazon, le scarpe o la borsa che il nostro sito di e-commerce preferito doveva farci recapitare a casa in poche ore, il comodino dal nome impronunciabile che il punto vendita Ikea ci aveva assicurato sarebbe arrivato a giorni, dovranno attendere. Loro hanno deciso: fanno sul serio, da ora in avanti non si scherza più. Vogliono essere trattati come esseri umani che fanno un lavoro, non come schiavi. Succede allora che in molti hub dello smistamento merci situati in Nord Italia, da Milano a Treviso, da Verona a Padova, fino al polo logistico di Piacenza e all’interporto di Bologna, le maestranze delle cooperative che lavorano in appalto per Tnt, Gls, Bartolini, Ups, Sda e altre sigle minori incrociano le braccia con una richiesta precisa: poter avere voce in capitolo nella trattativa per il rinnovo del contratto nazionale di categoria che i sindacati confederali, Cgil inclusa, stanno portando avanti con la controparte senza confrontarsi con i lavoratori.

Fra questi ultimi corre infatti voce che il nuovo contratto subirà dei peggioramenti significativi rispetto al precedente. La ragione è piuttosto semplice: l’ultimo rinnovo è andato in porto prima che si aprisse la stagione di lotte, animata e organizzata prevalentemente da operai appartenenti a un sindacato extraconfederale come il SiCobas, che da un paio di anni a questa parte ha portato in molti luoghi di lavoro ad un’applicazione effettiva del contratto nazionale. Precedentemente, la regola applicata dalla maggior parte dei committenti per il tramite delle cooperative appaltanti (ancora valida laddove una resistenza adeguata non ha messo in discussione tale prassi) era quella di considerare il contratto lettera morta, violando la legge ed evadendo il fisco per centinaia di migliaia di euro. Un meccanismo reso possibile dall’infernale prassi esternalizzatrice che impedisce di fatto un rapporto diretto fra committente e lavoratore.

Gli operai che vediamo girare su un camioncino dell’Sda o della Tnt nella maggior parte dei casi non sono dipendenti delle aziende in questione, ma “soci lavoratori” di cooperative, spesso farlocche e dalle origini tutt’altro che limpide, che li fanno lavorare in condizioni di illegalità. La cooperativa assume di fatto quello che era un tempo il ruolo dei caporali: fa da intermediario, consentendo al committente ingenti risparmi che diventano possibili grazie all’alto tasso di sfruttamento della manodopera (a sua volta strettamente collegato alla mancata applicazione del contratto). Uno o due membri della cooperativa, in genere italiani, si ritagliano lauti stipendi avvantaggiandosi anch’essi dell’intero meccanismo a scapito degli altri “soci”.

È stato circa due anni fa che Mohamed Arafat, operaio del settore iscritto al SiCobas, ha ingaggiato insieme ad alcuni compagni di lavoro una lotta durissima alla Tnt di Piacenza per ribaltare questo tipo di situazione, chiedendo l’applicazione effettiva del contratto di categoria. Una vertenza poi risultata vittoriosa, che ha comportato, come in molti altri casi, anche una dura repressione, ma che ha infine fatto da battistrada per episodi analoghi che si sono moltiplicati in diverse città del Nord e fra i lavoratori di alcune delle principali sigle del trasporto merci. Da ultimo, lo scorso ottobre, c’è stato l’episodio dello sciopero dei facchini che lavorano per Ikea nel polo logistico di Piacenza, accompagnato da momenti di fortissima tensione con le forze dell’ordine. Anche nella giornata del 22 marzo, non sono mancati i casi di intervento della polizia contro i picchetti organizzati dai lavoratori (il più clamoroso ad Anzola, nel bolognese), e va ricordato che pochi giorni fa Aldo Milani, coordinatore nazionale del SiCobas, è stato colpito da un provvedimento di “foglio di via” emesso dalla questura di Piacenza, che gli impedirà di metter piede nella città emiliana per i prossimi tre anni. Lo stesso Arafat, 29 anni, egiziano, già militante politico negli anni passati da studente all’università di El Mansoura, ha ricevuto ben cinque denunce per manifestazione non autorizzata. «E pensare che noi abbiamo fatto arrivare nelle casse dello Stato italiano centinaia di migliaia di euro di nuovi contributi, con la nostra lotta. Meriteremmo una medaglia, altro che denunce e fogli di via»

Quanto è stato esteso e come si è svolto lo sciopero del 22 marzo?
Lo sciopero ha toccato diverse città: Bologna, Milano, Padova, Verona, Treviso e Piacenza. È stata un’iniziativa congiunta di due sigle del sindacalismo di base che hanno deciso di collaborare a questo scopo: il SiCobas e l’Adl Cobas, che è diffuso soprattutto in Veneto. Le aziende coinvolte sono state Tnt, Gls, Bartolini, Ups, Sda, Mtn, Antonio Ferrari, e l’area del polo logistico di Piacenza, dove ci sono i magazzini dell’Ikea che servono la totalità dei punti vendita italiani. Il nostro obiettivo era uno: dimostrare che i lavoratori, se vogliono, possono comandare. E penso che ci siamo riusciti. Basti pensare che alcuni committenti come Tnt, ad esempio, il 22 hanno lasciato a casa i propri dipendenti, perché sapevano che tutto si sarebbe fermato. Del resto noi eravamo stati chiari: se nella giornata dello sciopero esce anche un solo pacco dai magazzini, avevamo detto ai padroni, ricominceremo a scioperare nei giorni successivi. In questi giorni, cioè durante la settimana che segue lo sciopero, non abbiamo smesso la mobilitazione: stiamo facendo uno “sciopero bianco”: lavoriamo “solo” 8 ore e poi, appena l’orologio segna la fine dell’ottava ora, lasciamo il pacco a terra. Il messaggio che abbiamo cercato di dare e che vogliamo diventi ancora più chiaro in futuro è semplice: non si gioca col salario e con la vita dei lavoratori.

Perché, dopo due anni di mobilitazioni sparse in vari punti nevralgici della logistica del Nord Italia, avete alla fine deciso di convocare uno sciopero coordinato a livello nazionale?
In due anni di battaglie durissime, che sono costate denunce, repressione e licenziamenti, abbiamo acquisito tanti diritti che prima non avevamo. I lavoratori del trasporto merci hanno tollerato per dieci, in alcuni casi anche quindici anni, condizioni di semischiavitù, in cui dominava il lavoro nero, con tutto quello che ne consegue. È stato solo tramite una lotta prolungata e continuativa che siamo riusciti ad ottenere, laddove siamo presenti come sindacato e dove i lavoratori hanno scelto di mobilitarsi nell’interesse di tutti, l’applicazione del contratto nazionale del settore trasporto merci.
L’idea di questo sciopero, che abbiamo preparato con una serie di assemblee tenutesi in diverse città ai primi di marzo, nasce dal fatto che ora c’è in ballo la questione del rinnovo del contratto stesso. C’è una trattativa in corso, ma viene fatta senza informare i lavoratori. I sindacati confederali stabiliscono insieme alla controparte come sarà il futuro contratto, ma senza metterci la faccia andando a parlare con gli operai. Dalle informazioni che ci sono arrivate, la bozza di contratto sulla quale i padroni e Cgil, Cisl e Uil si stanno accordando dovrebbe contenere molti peggioramenti. Questo perché, mentre prima il contratto nazionale era di fatto carta straccia, con la nostra lotta è diventato in molti posti di lavoro uno standard effettivamente applicato. Ora i padroni, con la complicità delle tre maggiori sigle sindacali, vogliono eliminare i diritti che noi ci siamo conquistati con due anni di lotta. Per questo è nata l’idea di questo sciopero, che ha coinvolto almeno 210 cooperative in tutta Italia.

Rispetto alle vostre conquiste degli ultimi due anni, puoi spiegarci perché l’applicazione del contratto nazionale rappresenta un miglioramento? Tu sei stato protagonista di una vertenza pionieristica, quella alla Tnt di Piacenza, dove pare che le condizioni di lavoro fossero pessime. Com’era la situazione lì, prima che cominciaste a mobilitarvi?
La situazione nella logistica e nel trasporto merci, un po’ dappertutto, non solo a Piacenza, funziona con il sistema delle cooperative. È un sistema che è andato avanti per quindici anni, senza che lo Stato facesse nulla. Funziona più o meno così: i committenti, i marchi tipo Tnt, Sda, Bartolini, Gls, Ups, ecc., come anche, nel caso della logistica di magazzino, l’Ikea, non hanno nessun rapporto diretto con il lavoratore che effettivamente sposta le merci e carica e scarica pacchi. L’operaio è invece assunto da una cooperativa, la quale a sua volta ha un rapporto con il committente.

Un meccanismo di “esternalizzazione”…
Esattamente. La cooperativa che lavora per, diciamo, Tnt, dà in genere lavoro ad un membro più anziano, che magari ha sui 65 anni e che fa da prestanome. In genere una cooperativa dura poco, al massimo due anni, dopo di che sparisce e viene ricostituita in una forma nuova, con un altro prestanome. Nel corso di quei due anni i lavoratori vengono pagati in nero, e lo Stato non riceve quindi i contributi associati ad ogni singolo lavoratore. Quest’ultimo, quando vuole fare una vertenza legale spesso non fa neanche in tempo: la cooperativa che gli dava lavoro è già sparita. Su un piano formale, l’operaio è un socio della cooperativa, anche se in realtà è un dipendente ricattabile (oltretutto spesso straniero e bisognoso di permesso di soggiorno) e ipersfruttato. Sta di fatto che, anche come socio, in quanto è un lavoratore del settore trasporto merci, dovrebbe lavorare nelle condizioni previste dal contratto, cosa che non è mai avvenuta, se non in alcuni luoghi e dopo le nostre lotte.

Ma cosa significa che il contratto non veniva applicato? Ad esempio, come venivate, e come vengono, ancora oggi, pagati molti lavoratori?
Per quanto riguarda la retribuzione, arriva praticamente sempre in nero, con diversi stratagemmi. Faccio l’esempio della situazione che c’era un tempo in Tnt. Tutti, e dico tutti, quelli che lavoravano lì dentro venivano pagati con un bonifico, con una retribuzione mensile calcolata su una base di 6, massimo 6 euro e 50 all’ora, mentre alla fine del mese ricevevano una busta paga fasulla in cui figurava che erano in aspettativa e che non avevano guadagnato nulla. Formalmente, quindi, lavoravano zero e venivano pagati zero. Di conseguenza, anche le tasse e i contributi pagati allo Stato erano pari a zero. Una volta ricordo che venne un ispettore e rimase sbalordito dal fatto che i lavoratori risultavano tutti in aspettativa. Eppure lo Stato per anni non ha fatto nulla per combattere questa situazione, che è cambiata solo grazie alla nostra lotta. Prima ancora che avessimo la busta paga a zero euro, le retribuzioni venivano date addirittura in contanti, in mano al lavoratore. Ora la situazione è diversa, e abbiamo una busta paga vera, dalla quale risulta ciò che effettivamente guadagniamo.

E per quanto riguarda gli orari e i tempi di lavoro?
Per quanto riguarda gli orari, prima che ottenessimo l’applicazione del contratto erano assurdi e a totale discrezione dei capi. Non c’era un orario stabilito di entrata e di uscita. Magari un capo poteva dirti: “vieni alle cinque del pomeriggio”. Tu andavi e poi, di regola, aspettavi fuori, col vento, la pioggia, la neve o il sole a picco d’estate, fino a che non venivi chiamato. Se arrivavi per le cinque, capitava spessissimo che non cominciavi a lavorare prima delle nove. Poi magari ti tenevano operativo fino a mezzanotte, per poi dirti, di punto in bianco, senza preavviso, che la mattina dopo dovevi essere lì alle sei. Molti di noi dormivano in stazione, o in macchina, sempre esposti al freddo e al maltempo, per tornare ad essere al lavoro dopo poche ore. Ovviamente, più eri uno che chinava la testa e accettava tutto questo, più possibilità avevi di lavorare. Se invece contestavi le scelte dei capi o rivendicavi i tuoi diritti, potevano lasciarti a casa, senza lavoro e quindi senza retribuzione, anche per giorni. In pratica era una condizione di lavoro a chiamata mischiato al caporalato. Adesso abbiamo un regolare orario di entrata e di uscita, dei turni stabiliti in anticipo, che ci permettono almeno di programmare un po’ la nostra vita fuori dal lavoro.

Secondo te la mobilitazione degli operai della logistica, tanto quella passata quanto quella futura, può contribuire a far saltare una volta per tutte il sistema delle cooperative e del subappalto, che altro non è se non una particolare forma di sfruttamento invalsa in Italia, in diversi settori, a partire dagli anni Novanta?
Io guardo quello che siamo riusciti a realizzare a prezzo di grandi sacrifici. Alla Tnt di Piacenza prima c’erano cinque o sei cooperative. Ora sono solo due, e nei prossimi mesi probabilmente ne rimarrà una sola. L’obiettivo è far sì che il passaggio tramite la cooperativa venga saltato e che il dipendente venga assunto direttamente dal committente, che si chiami Tnt, o Sda, o Bartolini poco importa. Anche a questo mira la nostra richiesta di far applicare il contratto: a rendere non più conveniente per il committente il fatto di rivolgersi alle cooperative. Se quest’ultime devono rispettare le condizioni contrattuali, devono pagare di più i lavoratori, non possono più farli lavorare con ritmi e orari assurdi, ecc. Di conseguenza, la loro offerta al committente non potrà più essere competitiva come in passato. Non solo: le cooperative, laddove le abbiamo costrette, oggi pagano i contributi e non evadono più il fisco. Ho detto già altre volte che lo Stato italiano, invece di farci arrivare denunce (ne abbiamo collezionate ventinove) e fogli di via, dovrebbe darci una medaglia, a noi lavoratori del trasporto merci. Ottenendo il rispetto del contratto, noi, lavoratori per lo più stranieri, abbiamo fatto recuperare un sacco di soldi allo Stato italiano.

Perché hai scelto di aderire ad un piccolo sindacato come il SiCobas? Qual è stato l’atteggiamento che hanno tenuto i sindacati confederali durante la vostra vertenza?
Se nella nostra categoria siamo andati così indietro è stato soprattutto per colpa dei sindacati confederali. Il contratto che abbiamo fatto applicare con la nostra lotta è quello approvato da loro, non da noi. Eppure, per dieci, quindici anni, Cgil, Cisl e Uil non hanno mai dato ascolto alle richieste e alle denunce dei lavoratori, che spiegavano come quel contratto non contasse nulla. Sapevano benissimo che c’era il sistema della cooperative, e come funzionava. Ma la loro risposta era sempre: “c’è poco da fare, la situazione è questa, la fase è questa, ecc.”. Lo dico in tutta sincerità: spesso in passato, quando ci rivolgevamo ai confederali, avevamo la sensazione di essere semplicemente di fronte a un’altra faccia del padrone.

Tu vieni dall’Egitto, dove nel 2011 c’è stata una rivoluzione che ha fatto cadere il regime di Hosni Mubarak. Da quel momento anche i lavoratori egiziani non hanno smesso di lottare per i propri diritti e per avere un sindacato degno di questo nome. C’è qualcosa che vorresti dire loro?
Dopo la rivoluzione del 25 gennaio, in Tnt dicevamo sempre: “anche qui è piazza Tahrir”. La nostra, in effetti, è stata una piccola rivoluzione. Nessuno ci avrebbe scommesso, qualche anno fa. Abbiamo dimostrato che uniti si vince. Allora, io ho un solo messaggio per gli operai e i lavoratori che lottano nel mio paese: il sindacato siete voi. Non dovete seguire nessuno, solo voi stessi e i vostri bisogni. Dovete prendere in mano il vostro futuro, non guardando mai all’interesse personale e immediato. È l’interesse di tutti voi presi insieme quello che vi deve guidare, perché solo con l’unità e la solidarietà potrete vincere.