NON SI PUO’ CONTINUARE A VIVERE PER ANNI SUL CIGLIO DEL BURRONE DEI LICENZIAMENTI! di Giorgio Cremaschi
“L’intero quadro politico istituzionale che , da sinistra a destra, ha coperto le insane politiche della Fiat è corresponsabile di queste morti insieme alle centrali confederali. Dopo aver lucrato negli anni scorsi finanziamenti pubblici multimiliardari, lo speculatore Marchionne chiude e ridimensiona le fabbriche Italiane e delocalizza la produzione all’estero per fare profitti letteralmente sulla pelle dei lavoratori che sono costretti ormai da anni alla miseria di una cassa integrazione senza fine ed a un futuro di disoccupazione. A Pomigliano l’unica certezza dei cinquemila lavoratori consiste nella lettera di altri due anni di cassa integrazione speciale e cessazione dell’attività di Fiat Group Automobiles nella consapevolezza che buona parte di loro non saranno assunti da fabbrica Italia. Il tentato suicidio di oggi di Carmine P., cui auguriamo di tutto cuore di farcela, il suicidio di Agostino Bova dei giorni scorsi, che dopo aver avuto la lettera di licenziamento dalla fiat per futili motivi è impazzito dalla disperazione ammazzando la moglie e tentando di ammazzare la figlia prima di togliersi la vita, sono solo la punta iceberg della barbarie industriale e sociale in cui la Fiat sta precipitando i lavoratori…”
Così scriveva nel 2011 Maria Baratto, operaia di Pomigliano confinata da anni in cassa integrazione a Nola. Era militante del sindacato SlaiCobas, tra le animatrici del comitato delle mogli di Pomigliano e per il suo impegno a sostenere i tanti che non ce la facevano più, era stata definita l’operaia anti suicidi.
Maria si è uccisa alla fine del maggio del 2014. Sola, nel suo povero appartamento che non ce la faceva più a tenere, si è inflitta tremendi colpi di coltello al corpo. Ha sofferto a lungo prima di morire, a conclusione di una vita di soli 47 anni, di cui gli ultimi 6 di cassa integrazione. Maria non ha lasciato un testo nel momento in cui ha deciso di uccidersi, aveva già scritto tutto tre anni prima, quando lottava perché altri non si suicidassero. Solo pochi mesi prima, nel febbraio del 2014, Maria aveva subito un altro colpo. Peppe De Crescenzo, anch’egli operaio e militante dello SlaiCobas confinato in cassa a Nola, si era impiccato. Erano amici e compagni di lotte, Maria a quel punto ha cominciato a piegarsi..non si può continuare per anni a vivere sul ciglio del burrone…
La Fiat ha sempre violato diritti e libertà umane fondamentali nei confronti dei propri dipendenti. A cui è sempre stata negata la libertà di iscriversi al sindacato scelto, di scioperare, di dire come la si pensa sul lavoro, di avere idee in conflitto con quelle della proprietà, della direzione, delle gerarchie aziendali. A tutti i livelli della Fiat è sempre stato impossibile fare carriera senza dimostrare fedeltà assoluta e servile verso chi comanda. Questo è il primo e molte volte l’unico “merito” che vige davvero in azienda. E i dissidenti in Fiat sono sempre stati accomunati ai malati, agli invalidi, a tutti coloro che son stati giudicati non sufficientemente produttivi. Per tutti costoro la Fiat è sempre stata la feroce dispensatrice di punizioni, emarginazione, licenziamento. E il licenziamento in Fiat ha spesso significato la cancellazione dalla possibilità di ottenere qualsiasi altro posto di lavoro. I licenziati Fiat sono sempre finiti nelle liste nere di quelli da non assumere mai, per non incorrere nelle rappresaglie di chi li ha espulsi dal lavoro. Chi la Fiat caccia deve diventare un emarginato per sempre, esempio perenne per chiunque abbia in mente di non ossequiare l’azienda e chi la dirige.
Nel corso degli anni ci sono stati momenti nei quali la Fiat ha dovuto frenare i suoi brutali istinti autoritari, perché la forza organizzata dei lavoratori, i sentimenti della opinione pubblica, i poteri dello stato democratico, qualche suo stesso interesse contingente, la costringevano a fermarsi e mascherarsi. È stato così subito dopo la Liberazione, negli anni 70, per brevi sprazzi degli anni 90 del secolo scorso. Ma appena il vento è cambiato la vera natura del potere Fiat è subito riemersa, spesso più astuta e feroce di prima. Uno degli strumenti dell’oppressione dell’azienda verso i suoi dipendenti sono sempre stati i reparti confino. Officine con attività e scopi sostanzialmente inventati, la cui unica vera funzione è sempre stata quella di tenere assieme coloro che l’azienda voleva colpire, ma che, ancora, non intendeva o poteva licenziare.
Negli anni 50 Giuseppe Di Vittorio usò la Officina Sussidiaria Ricambi, OSR, a Torino come esempio di ciò ch’egli definiva il fascismo della Fiat guidata da Vittorio Valletta. In quel reparto furono confinati tanti attivisti e dirigenti della Fiom, tanto che tutti poi lo chiamarono Officina Stella Rossa. Che alla fine fu chiusa con il licenziamento completo di tutti i suoi dipendenti.
Negli anni 80, dopo la sconfitta sindacale e dopo anni di cassa integrazione per decine di migliaia di operai, furono create le Unità Produttive Accessoristiche, le famigerate UPA, dove furono confinati i malati e gli attivisti sindacali giudicati rompiscatole irrecuperabili dall’azienda guidata da Cerare Romiti. La Fiat ha sempre avuto un gusto particolare nel dare nomi pomposi a quelle che in realtà erano semplici galere. La stessa sadica fantasia è stata usata negli anni 2000, sotto la gestione di Sergio Marchionne, nei confronti degli operai di Pomigliano.
World Class Logistic, si sente che la direzione aziendale oramai vive all’estero, è il nome ufficiale del reparto confino di Nola. Qui nel 2008 vengono trasferiti 320 operai di Pomigliano, gìa da tempo in cassa integrazione. Non vengono spostati nel nuovo reparto per farli lavorare, ma per lo scopo esattamente opposto. Non devono lavorare più. Dei trasferiti più di un terzo sono iscritti allo SlaiCobas, che così viene quasi cancellato a Pomigliano. Gli altri sono iscritti FIOM e poi malati e invalidi. E poi qualcuno che ha detto una parola di troppo su questo o quel capo, vittime dell’ultimo minuto quando l’infamia dei carnefici aggiunge anche qualche vendetta personale nella lista dei deportati. Dal 2008 al 2014 i 320 lavoratori del WCL di Nola non hanno fatto un minuto di lavoro e hanno dovuto vivere con 800 euro di assegno mensile, in più sottoposti periodicamente alla minaccia che anche quella misera somma dovesse venir meno. L’orlo del burrone. Decine i tentativi di suicidio o altre forme di autolesionismo, molti di più i casi di profonda depressione. Era stato così anche per i cassaintegrati degli anni 80 a Torino, sulle cui condizioni psichiche dovettero operare gli specialisti e le strutture sanitarie locali. Almeno 149 sono i suicidi allora documentati.
La strage è continuata a Nola, sia ben chiaro non per impossibilità tecniche di far lavorare tutti, ma solo per la volontà della Fiat di emarginare e distruggere le persone che non le piacciono. Nell’agosto del 2014 Antonio Frosolone, altro operaio deportato, iniziava uno sciopero della fame e delle prestazioni farmacologiche. Antonio è un infartuato ed in questo modo metteva immediatamente a rischio la vita. Lo sciopero durava 15 durissimi giorni. Questa volta la Fiat capiva che qualche passo lo doveva fare e prometteva una ripresa del lavoro. Graduale naturalmente e infatti ancora oggi un bel gruppo dei deportati di Nola lavora metà del tempo normale.
Comunque un’altra sua vendetta la Fiat l’aveva già realizzata, licenziando Mimmo Mignano e altri quattro operai per la loro protesta dopo il suicidio di Maria Baratto.
Qui voglio porre una domanda. Come reagireste voi dopo anni di persecuzioni e miseria, vedendo tanti amici e compagni crollare, perdersi, morire? Come reagireste di fronte al suicidio disperato di un’amica e compagna di sempre? Io ho pensato per me e non sono sicuro che la mia reazione sarebbe dentro le regole della legalità corrente.
Mimmo Mignano e gli altri invece hanno asciugato lacrime e rabbia e hanno trasformato la loro indignazione in una rappresentazione, anche per rompere il muro di omertà grandi e piccole che copre le malefatte della Fiat. I cinque operai hanno inscenato la loro morte davanti ai cancelli del polo fantasma di Nola e hanno unito ad essa il suicidio di un pupazzo, che aveva la maschera di Sergio Marchionne.
Per questo terribile delitto d’opinione, per altro commesso al di fuori del posto di lavoro, i cinque sono stati licenziati e il loro licenziamento è stato poi confermato dal Tribunale di Nola, che da sempre concede alla Fiat il diritto di fare tutto ed il suo contrario.
Mignano e gli altri così hanno perso anche gli 800 euro di cassa integrazione e ora vivono in povertà assoluta, anche se nel loro impegno quotidiano non parlano mai di sé. Mignano e gli altri stanno in una dimensione morale che è totalmente estranea a coloro che li hanno licenziati e che hanno perseguitato Maria Baratto. Schierarsi con questi operai contro la prepotenza medioevale della Fiat è un dovere civile e sociale, un discrimine sul quale misurare la coerenza di chi si dichiara democratico.
Il 20 settembre i cinque operai sono in appello a presso il tribunale di Napoli e lì si deciderà quanta libertà e quanta giustizia ci siano ancora in questo paese, per il lavoro e per tutti noi.
(15 settembre 2016)
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IO SONO MIMMO, OPERAIO di Ascanio Celestini (tratto da comune-info.net)
«Io sono Mimmo Mignano, uno dei cinque licenziati dalla Fiat» così inizia il racconto di un signore che incontro a Napoli in un teatro a Montecalvario nei Quartieri Spagnoli, quella zona del mondo che agli occhi di Stendhal «è, senza nessun paragone, la città più bella dell’universo».
Mi chiedono di fare una fotografia, di firmare una petizione e io gli chiedo di incontrarli, di raccontarmi la loro storia. Accendo la videocamera e registro l’incontro al Nuovo Teatro Nuovo, accanto al palcoscenico dove, tra qualche ora, farò spettacolo.
Mimmo mi dice che «ci sono due sentenze contro di noi. Nei tribunali vogliono far passare qualcosa che per legge hanno più problemi, cioè il diritto di espressione, di satira». Sta parlando di un fatto avvenuto veramente, ma che sembra l’invenzione di uno sceneggiatore per qualche commedia cinematografica. È la storia di un pupazzo che è stato impiccato durante una manifestazione. Non un attentato con decine di morti, non una gambizzazione e nemmeno un sequestro, ma un pupazzo di stoffa. E nemmeno la rappresentazione di un omicidio (nella tradizione dei nostri carnevali si ammazzano i re da secoli e nessun giudice processa il popolo che uccide il Re Carnevale), ma un suicidio: la messa in scena del suicidio di Marchionne.
C’è un capannone che la Fiat chiama Polo Logistico di Nola, ma gli operai lo chiamano “Reparto Confine” (Accornero parlava della stessa strategia della Fiat già alla fine degli anni Cinquanta) «nel senso che Marchionne prende gli operai più sindacalizzati, quelli più scamazzati dalle catene di montaggio, come si chiamano… Rcl, ridotte capacità lavorative, li sposta a una ventina di chilometri gli fa fare qualche giorno di lavoro e poi li mette per anni in cassa integrazione. In questo periodo buio di cassa integrazione due nostri colleghi si tolgono la vita: Peppe De Crescenzo si impicca nella sua camera da pranzo e tre mesi dopo Maria Baratto la trovano morta suicidata con le coltellate allo stomaco. E questa compagna aveva rimasto pure una lettera testimoniale della gravità della sua condizione di vita sociale e economica».
Nel documentario di Rossomando “La fabbrica incerta” la Baratto dice «le patologie causate dalla catena di montaggio? A ventidue anni montavo il tergilunotto sull’Alfa 33, da sola. Oggi prendo psicofarmaci». Due anni dopo accusa «l’intero quadro politico-istituzionale, che da sinistra a destra ha coperto le insane politiche della Fiat» e poi si lacera il ventre a coltellate.
Aveva scritto che «a Pomigliano l’unica certezza dei cinquemila lavoratori consiste nella lettera di altri due anni di cassa integrazione speciale per cessazione di attività di Fiat Group Automobiles nella consapevolezza che buona parte di loro non saranno assunti da Fabbrica Italia. Il tentato suicidio di oggi di Carmine P., cui auguriamo di tutto cuore di farcela, il suicidio di Agostino Bova dei giorni scorsi, che dopo aver avuto la lettera di licenziamento dalla Fiat per futili motivi è impazzito dalla disperazione ammazzando la moglie e tentando di ammazzare la figlia prima di togliersi la vita, sono solo la punta dell’iceberg della barbarie industriale e sociale in cui la Fiat sta precipitando i lavoratori». Così scriveva, poi s’è ammazzata anche lei.
Dopo il suicidio di Maria «la pelle s’è fatta d’oca. Stavamo in una situazione di drammaticità enorme e inscenammo un finto suicidio di Marchionne con un finto testamento nel quale, prendendo dalle parole di Maria Baratto, scrivemmo che lui chiedeva scusa di questi suicidi e chiedeva di far ritornare i 316 al proprio posto di lavoro, cioè all’interno della Fiat di Pomigliano D’Arco. Da qui è scattata la lettera di contestazione e di seguito il licenziamento».
Mimmo dice che loro hanno sempre fatto satira nelle loro manifestazioni. «Ci siamo travestiti da pagliacci davanti allo stabilimento di Melfi quando Renzi è stato in visita allo stabilimento, ci siamo travestiti da fantasmi… Noi usavamo la satira per denunciare quello che avveniva all’interno della fabbrica. E infatti con te non vogliamo parlare dei cinque licenziati per quel fatto del pupazzo di Marchionne suicida, ma ci rendiamo conto che se passa in tribunale una sentenza che vieta il diritto di critica, di espressione, di satira… se passa nei tribunali per i più deboli, tra qualche anno arriva anche a Ascanio Celestini e Moni Ovadia, a Daniela Sepe e a Francesca Fornario…, insomma a quelli che fanno satira, cinema, teatro, letteratura, che scrivono sui giornali, che disturbano i potenti. Quante migliaia di licenziamenti avremo nei prossimi anni perché un operaio si permette di dire: come è cattivo il mio padrone! Se viene meno questa democrazia andiamo oltre la questione dei licenziati».
E per Francesca Fornario sono venuti a Roma, alla Rai ad esprimere la loro solidarietà. Mimmo s’è incatenato al cavallo di Viale Mazzini, Francesca arriva di corsa, si commuove e scrive: «Leggo il comunicato e penso: È uno scherzo… Vedo la foto, lo striscione, controllo se non sia un fotomontaggio. Operai. Licenziati. Di Pomigliano. Che srotolano uno striscione davanti alla Rai. Non per chiedere indietro il lavoro. Non per chiedere indietro la casa, che i più hanno lasciato alla moglie che ha lasciato loro, negli anni in cassintegrazione a Nola, mentre a Pomigliano si facevano gli straordinari ogni sabato per produrre automobili e loro no, loro in automobile ci dormivano. Non per chiedere indietro la vita, la loro e quella dei colleghi che hanno provato a togliersela, perché la vita in cassintegrazione al reparto-confino di Nola crolla per “l’effetto domino”, lo chiamano così, mimando il crollo di un palazzo con le mani: 700 euro al mese per un lavoro che non c’è più, i soldi che non bastano per pagare la mensa a scuola e l’assicurazione della macchina e allora vai in giro senza fino a quando non ti fermano e ti tolgono la patente precipitandoti nell’illegalità, e allora ti deprimi e ti incazzi e tua moglie ti lascia». «Lo striscione che si sono portati da Acerra chiede indietro la satira. “Satira Libera”. Mi precipito a Viale Mazzini e li trovo lì, stupiti del mio stupore”. Mi spiegano che è la stessa guerra. Che anche loro hanno perso il posto per aver osato criticare l’azienda. “Sì, ma io me ne sono andata perché non c’erano più le condizioni per…”. Che anche a loro è stato impedito di fare satira su Marchionne. “Eh?!”. E via con le battute su Marchionne che facevo a Radio2. Marchionne che va a produrre la Panda in Polonia dove gli operai non pretendono di fare la pausa-pranzo. Fino a quando non scopre che lungo il Gange c’è un ashram di fachiri in grado di trattenere la pipì per 36 ore e trasferisce lì la produzione della Panda. Fino a quando non legge su Focus che i macachi delle Filippine sanno avvitare i bulloni…»
Nel piccolo teatro dei Quartieri Spagnoli di Napoli accanto a Mimmo c’è Antonio Montella che sul suo profilo Facebook si descrive così: Licenziato presso Fiat Group.
«Dopo che la Fiat ha acquistato l’Alfa Romeo» dice «si è cercato testardamente di capire quali progetti c’erano per Pomigliano. Quando sono entrato io nell’89 la fabbrica era un cesso, si lavorava a cappello d’asino. Ora le migliorie sono per l’ergonomia, per aumentare la linea di produzione. E invece le battaglie che abbiamo fatto noi è di farci licenziare per fare assumere anche le donne, per esempio. La battaglia per un operaio con l’ernia al disco che doveva prendere un ammortizzatore da un cassone, lo doveva sollevare con le braccia per metterlo su una postazione, abbiamo lottato per un paranco. Abbiamo lottato per i carroponti che c’erano i freni che contengono ferròdo e sappiamo che il ferròdo, per il raffreddamento, contiene amianto. E quanti operai sono morti in meccanica, in carrozzeria, in verniciatura, da tutte le parti? Siamo capatosta, così si dice a Napoli. La classe operaia è colei che mantiene uno Stato così corrotto e così indegno di essere chiamato Stato.
La Classe operaia è colei che mantiene il prodotto interno lordo, è colei che mantiene tutto. Non a caso questa compagna Maria Baratto per istinto e cose interne della persona scrisse proprio quella cosa sui suicidi in Fiat. Cioè che non erano suicidi casuali, ma suicidi per i sacrifici della classe operaia. E noi chiediamo rispetto per questa cosa. In seconda cosa chiediamo la sicurezza sul posto di lavoro. In terza cosa, soprattutto, chiediamo la democrazia: il diritto di satira, di critica, di espressione. È una cosa che non ci possono togliere. Ci abbiamo impiegato secoli per uscire dal silenzio del dolore e della sottomissione. Adesso non è più possibile stare zitti e, come scrive Di Ruscio pensando a qualche derelitto proletario «se gli dicono di smetterla canta più forte». E dunque urleranno questi operai. Urleranno forte nelle piazze e nei tribunali.
APPELLO PER LA DIFESA DELLA LIBERTA’ D’OPINIONE DEI LAVORATORI