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[CONTRIBUTO] Sai che significa essere una donna in codice rosso?

Pubblichiamo qui sotto l’articolo “Sai che significa essere una donna in codice rosso?” realizzato dalla redazione de Il Pungolo Rosso e già disponibile sul loro sito.

Questa crisi sanitaria e sociale, che sta provocando i primi scioperi spontanei nelle fabbriche dopo decenni, e diviene ora anche crisi economica e finanziaria, mette alla prova i sistemi capitalistici, in Italia e nel mondo intero, e scuote le coscienze in settori della nostra classe cui si chiede di lavorare comunque, anche in assenza delle condizioni di sicurezza che vengono invece imposte al resto della popolazione.

Per la prima volta da decenni assistiamo a scioperi spontanei nelle fabbriche.

Anche nella lotta per ambienti di lavoro sicuri e adeguati dispositivi di protezione individuale, e nelle difficoltà di coloro che sono lasciati a casa con un futuro incerto, deve crescere la coscienza della necessità di lottare per superare questa società divisa in classi.

Contro le ideologie da “unità nazionale” tra sfruttati e sfruttatori.

Il virus globalizzato mette inoltre in chiaro l’inconsistenza delle prospettive di autonomie locali/localistiche, e delle scorciatoie “sovraniste”.

L’unica strada è quella internazionalista, dell’unione tra i proletari di tutto il mondo.

S.I. Cobas


Sai che significa essere una donna in codice rosso?

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, questa lettera che parla in prima persona di una delle tante storie di ordinaria violenza sulle donne, che il confinamento in casa degli ultimi mesi ha reso più drammatiche. In coda, due parole di commento. 

Sai che significa essere una donna in codice rosso? Spesso mi rispondono “significa che hai coraggio”.

Coraggio? Il coraggio della disperazione, il coraggio di avere paura di uscire di casa, il coraggio di guardare mio figlio e sentirmi in colpa perché ho paura anche per lui, il coraggio di un dolore che è un fardello che mi porto dietro giorno e notte.

Ed io sono fortunata. Fortunata perché sono una donna in codice rosso solo grazie alle persone che mi sono intorno che hanno accolto me e il mio fardello e mi hanno convinta che potevo essere ancora libera. Mi hanno spinto con tutte le loro forze a denunciare e hanno lottato contro la mia paura. La paura di fare quello che è giusto.

Ma la paura non se ne va… non se ne è mai andata. Ogni volta che lui me lo trovo davanti, ogni volta che mi segue, ogni volta che segue mio figlio. La paura che ti paralizza le gambe, la paura che fa tremare le mani, che non ti lascia respirare e ti fa solo desiderare di scappare. Lontano. I miei amici me ne dicono tante ogni volta che succede.

“Smettila di farti vittima. Devi reagire. Chiama i carabinieri. Ti è andata bene stavolta la prossima potresti non essere così fortunata da raccontarlo. Non voglio assistere al tuo suicidio”. Tutto questo mi dicono. Ma io ho paura. Paura che questa paura non se ne andrà mai. Paura che non vincerò mai. Paura di non avere speranza di uscirne mai.

Ma sentire le loro voci che mi dicono di reagire mi serve. Mi prende l’ansia, tremo, ho paura ma l’ho fatto.

La prima volta i carabinieri mi hanno fermato per la strada mentre passavano con la volante. Durante il lockdown, quando non si poteva neanche uscire di casa. Ma io dovevo riprendere mio figlio. Che tardava ad uscire da casa di lui. Mi hanno chiesto chi ero e che facevo in mezzo alla strada. Ero sola, sotto la pioggia. Ho vinto la mia paura e ho chiesto “mi date una mano? Sono in codice rosso” la risposta è stata agghiacciante: “che vuole che siano 20 minuti di ritardo”. Hanno ingranato la marcia, se ne sono andati e mi hanno lasciato là, sotto la pioggia. Non c’era un’anima. Manco un cane.

Ho fatto il maledetto 112. Li ho chiamati. Due volte. Lui mi ha seguito di nuovo. Due volte. Ed io li ho chiamati.

Ma tremo, piango, mi tremano le mani. Mo’ torna mio figlio e non può trovarmi così. I carabinieri non vengono. Non intervengono. Non c’è sentenza definitiva. Niente di scritto. Mi hanno chiuso il telefono e non sono venuti. Due volte. La paura è ancora più forte. E quel senso del dolore si impossessa di me.

Devo imparare a difendermi da sola. Come faccio a difendermi da sola? E se mi blocco? riuscirò mai a reagire?

a. v.

***

La punta dell’iceberg

Non conosciamo quasi niente della donna che ha scritto questa lettera (sappiamo che è vera), ma quello che lei dice, ci basta. E’ uno dei tanti esempi della violenza che attanaglia la vita di troppe donne, e della natura dei rapporti di coppia che con la crisi incombente non potranno che peggiorare perché è nell’ambito familiare, e in particolare sulle donne, che si scaricheranno di regola le frustrazioni e le difficoltà che ci aspettano nel prossimo futuro.

Ciò è dichiarato a fior di labbra da esperti e sociologi, ma la verità è che la sensibilità alla violenza domestica contro le donne è scarsissima, specialmente a quella diffusa che non arriva agli onori della cronaca. In questo periodo in cui le coppie sono state costrette ad una più intensa convivenza, le richieste di aiuto ai centri anti-violenza sono aumentate del 75%, nonostante il controllo stretto a cui sono sottoposte all’interno delle loro case le donne minacciate. E come si vede in questa storia, le “forze dell’ordine” non sono affatto solerti ad intervenire, quando arriva la richiesta di aiuto. Nessuno si fa carico del problema nella sua ampiezza come uno dei grandi problemi sociali con cui abbiamo a che fare.

Quindi la violenza fisica contro le donne è in aumento, come aumenta la sua gravità, mentre i femminicidi non accennano a diminuire. Evidentemente la solidarietà delle persone amiche non basta, i centri anti-violenza sono pochi e scarsamente finanziati, e soprattutto non sono in grado di fornire alle donne maltrattate un rifugio sicuro, e serie prospettive di lavoro e di autonomia per liberarsi effettivamente dai legami violenti che, come in questo caso, le terrorizzano.

Eppure da molte parti si affronta questo problema come se fosse un problema individuale, l’effetto di rapporti finiti male, un’anomalia come ce ne sono tante. Si gira la testa dall’altra parte gettando spesso la vergogna sulle vittime, isolandole e stigmatizzandole, sottovalutando cosa può voler dire vivere quotidianamente con la paura addosso. O si pensa che la violenza sia riservata alle sole situazioni di degrado sociale ed emarginazione. Essa attraversa invece, e bisogna una buona volta prenderne atto, tutti gli strati della società, come è chiaro dall’analisi dei contesti in cui avvengono i femminicidi – l’ultimo noto è avvenuto ieri l’altro a Cuneo, dove un militare italiano ha trucidato una donna romena, di nome Mihaela Apostolides.

E’ un problema sociale grave, se si pensa che solo poco più del 10% delle vittime arriva a denunciare il proprio aggressore, e comunque le denunce sono migliaia all’anno. Dobbiamo smetterla di nascondere la sporcizia sotto il tappeto. Dobbiamo pretendere per le donne maltrattate e abusate una protezione che vada molto al di là delle misere cifre erogate all’anno alle strutture destinate ad accoglierle. Dobbiamo andare a fondo, alle radici di questi rapporti gerarchici e di sopraffazione tanto preziosi per la società capitalistica. Dobbiamo capire e far capire che questo, e in generale tutto ciò che riguarda la specifica oppressione delle donne, è un nostro problema, di noi che vogliamo abbattere questa società e costruirne un’altra, radicalmente diversa, in cui questa galleria di orrori non abbia cittadinanza. Perciò è sempre più necessaria la denuncia e la lotta. E vale sempre il vecchio detto: il grado di civiltà di una società si misura dalla condizione che in essa ha la donna…