Pubblichiamo qui sotto il contributo “Lockdown e diritti negati: la denuncia di una postina di Torino. Non si deve lasciar correre!” con la lettera di denuncia da una postina di Torino ingiustamente sanzionata dall’azienda, ricevuto dalla redazione de Il Pungolo Rosso e già disponibile sul loro sito.
Questa crisi sanitaria e sociale, che sta provocando i primi scioperi spontanei nelle fabbriche dopo decenni, e diviene ora anche crisi economica e finanziaria, mette alla prova i sistemi capitalistici, in Italia e nel mondo intero, e scuote le coscienze in settori della nostra classe cui si chiede di lavorare comunque, anche in assenza delle condizioni di sicurezza che vengono invece imposte al resto della popolazione.
Per la prima volta da decenni assistiamo a scioperi spontanei nelle fabbriche.
Anche nella lotta per ambienti di lavoro sicuri e adeguati dispositivi di protezione individuale, e nelle difficoltà di coloro che sono lasciati a casa con un futuro incerto, deve crescere la coscienza della necessità di lottare per superare questa società divisa in classi.
Contro le ideologie da “unità nazionale” tra sfruttati e sfruttatori.
Il virus globalizzato mette inoltre in chiaro l’inconsistenza delle prospettive di autonomie locali/localistiche, e delle scorciatoie “sovraniste”.
L’unica strada è quella internazionalista, dell’unione tra i proletari di tutto il mondo.
S.I. Cobas
Lockdown e diritti negati: la denuncia di una postina di Torino. Non si deve lasciar correre!
La vicenda che ci racconta Delia, una postina di 60 anni, in una lettera comparsa sul sito de “il sindacato è un’altra cosa”, potrebbe sembrare un “piccolo” episodio, è invece un chiaro segnale della tendenza del padrone pubblico e privato ad imporre senza mezzi termini la rincorsa alla produttività a tutti i costi, passando a carro armato sulle esigenze più elementari , necessarie e fisiologiche dei lavoratori, e in modo ancora più evidente, delle lavoratrici.
Qualunque obiezione ai ritmi e alle modalità del lavoro dettata da specifiche necessità, dall’avanzare dell’età o anche solo dal semplice buonsenso deve essere sanzionata, qualunque insistenza va punita, multata.
Non più l’indifferenza, il silenzio da parte delle aziende: queste passano all’attacco rendendo ancora più stretto il controllo su ogni singolo atto delle lavoratrici.
A questo si aggiungono le pressioni sull’opportunità di lasciar correre, che i problemi veri sono altri…
La denuncia di Delia, il ricorso, avranno un esito diverso a seconda che la sua storia, una storia emblematica del tempo che si prepara, sarà assunta collettivamente all’interno della lotta di tutte le donne contro gli abusi e le discriminazioni e il sessismo di cui sono oggetto quotidianamente sul posto di lavoro.
Il suo rifiuto di “lasciar correre” indica la strada che dovrebbe essere percorsa collettivamente: cominciare a puntare i piedi e dire no, non accettare le imposizioni e sfidare i commenti derisori e malevoli con cui altri lavoratori e lavoratrici pensano di potersi difendere da simili punizioni e ritorsioni.
La vicenda che ha vissuto Delia dimostra quanto insostenibili siano diventati i ritmi e l’attuale organizzazione stessa del lavoro.
Portare a conoscenza la sua storia deve far emergere le mille storie come questa che avvengono ogni giorno.
Il silenzio non paga.
Il Pungolo Rosso
Lettera
Quattro ore di sospensione a una postina per aver chiesto dove poter fare la pipì
Lo ammetto: non me lo aspettavo proprio!
Una sanzione disciplinare per aver chiesto dove poter fare la pipì, mi è sembrata incredibile prima ancora che ingiusta.
Andiamo con ordine e presentiamoci correttamente: mi chiamo Delia Fratucelli e sono una portalettere di Torino, ho sessant’anni e lavoro da più di trenta.
Noi postini quando manca un collega abbiamo un accordo che impone la sostituzione dell’assente, è denominato “PRESTAZIONE FLESSIBILE” (straordinaria e aggiuntiva) ed è normata da casualità e limiti orari, in questi anni fissati a quattordici ore mensili.
Del resto siamo un servizio pubblico essenziale, non possiamo interromperlo, anche durante il lockdown abbiamo sempre garantito l’incarico. Poste, durante la fase emergenziale, aveva concordato nazionalmente con le organizzazioni sindacali di sospendere l’obbligo della prestazione flessibile.
Non è stato facile lavorare durante il lockdown, le strade di Torino erano deserte e la tensione palpabile, mascherina, guanti, gel igienizzante, mantenere le distanze rendevano il recapito più complicato. Io e i miei colleghi lo abbiamo fatto, consapevoli che erano altre le categorie costrette a rischi e ritmi di lavoro atroci.
Noi non eravamo eroi, non avevamo l’aureola; siamo un servizio indispensabile, ma socialmente irrilevante, e anche se come postali abbiamo pagato un doloroso prezzo d’infortuni e decessi per COVID 19, ci siamo salvati dalla pubblica retorica narcolettica di eroi del lavoro.
Recapitare in quartieri urbani, dove tutto era chiuso, bar scuole, uffici… ha da subito evidenziato la difficoltà di non poter disporre di servizi igienici pubblici. Il problema era molto più pressante per le postine, molti colleghi risolvevano “marcando il territorio”.
La questione era stata posta negli organismi congiunti, preposti alla sicurezza e salute sul lavoro, senza giungere a una soluzione.
Mi sto dilungando in un riassunto normativo, che credo poco vi interessi, torniamo a tempi più recenti e alla sanzione disciplinare: il 18 maggio 2020 il governo stabilisce che l’emergenza è superata, e si possano riaprire senza troppi vincoli le attività commerciali, la giunta piemontese prolunga il lockdown ancora per una settimana, per la situazione sanitaria regionale. Poste Italiane il 18 maggio, ripristinano l’attività di recapito pre-COVID, quindi anche l’obbligo di flessibilità e straordinario; quando mi è stato chiesto di coprire l’assenza di un collega, facevo presente che, malgrado la mia disponibilità, non riuscivo a garantire un orario prolungato senza potere urinare, ovviamente rimanevo a disposizione dell’azienda, accettando una qualsiasi soluzione.
Richiesta reiterata per tre giorni e per tre giorni silenzio di Poste. Dal 25 maggio, primo giorno di riapertura dall’isolamento in Piemonte, riprendevo a svolgere l’attività straordinaria; che per altro ho sempre svolto.
Credo che comprendiate quindi il mio stupore quando mi è arrivata dai responsabili di Poste la sanzione disciplinare. Oibò che avevo combinato? Non mi ero rifiutata di svolgere il mio lavoro, ma avevo posto un problema oggettivo e verificabile dall’azienda, decaduto l’impedimento, avevo ripreso il lavoro aggiuntivo.
Chi sta leggendo adesso si domanderà di che entità è la sanzione: sono quattro ore di multa. Allora lascia correre, penserete in molti, accetta la sanzione, non ne vale la pena. Io invece non voglio subire senza reagire a un provvedimento che oltre che ingiusto, è anche umiliante.
Perché è una sanzione che trascende la mia piccola soggettività e diventa un atto di discriminazione di genere. Non ho avuto dubbi sul ricorso in sede legale, porterò la causa in tribunale e sarà un giudice del lavoro a stabilire a norma di legge se la punizione è corretta. Ho avuto molti più dubbi se rendere pubblica questa vicenda. Siamo ancora lì: stabilire se una lavoratrice si deve conformare a una prestazione stabilita su parametri maschili, senza sembrare inadeguata, con la paura di essere emarginata, e molto più banalmente ed efficacemente ridicolizzata, se chiede un riconoscimento nell’organizzazione del lavoro su funzioni fisiologiche come le mestruazioni o l’incontinenza.
Se non fosse arrivato il provvedimento disciplinare, anch’io avrei archiviato le difficoltà straordinarie per le postine che tutte abbiamo patito tra marzo e maggio, come difficoltà aggiuntive, che noi donne siamo talmente abituate a considerare oggettive e inevitabili, da ritenerle insignificanti, vantandoci pure di essere molto più resistenti dei colleghi. Dubito ci sia uno specifico negativo nella politica gestionale di Poste Italiane, episodi analoghi sono successi anche in altre aziende, la tanto declamata valorizzazione e rispetto delle dipendenti fa ovunque a pugni con la realtà feroce delle condizioni di lavoro.
Siamo ancora lì: il corpo, il genere, la disabilità, l’età dovrebbero stabilire i limiti e le norme dell’organizzazione del lavoro, non i profitti agli azionisti.
Il COVID 19 ha ristabilito il principio di realtà con la forza brutale dei dati statistici: non è vero che lavorare a trenta o a sessant’anni è uguale, nel prossimo futuro dovremo affrontare anche le conseguenze a lungo termine sui corpi colpiti dal virus, sono in maggioranza “corpi che lavorano, corpi di donne”.
Siamo ancora lì: ma se non riesci a essere “adeguata”, perché non chiedi una visita medica collegiale, che ti dichiari con ridotte capacità lavorative, inidonea alle mansioni? Lo fanno ogni anno centinaia di postini, decine di migliaia di lavoratori in ogni settore! Appunto: perché siamo costretti a risultare inidonei, quando inadatte sono le modalità del lavoro? Perché decine di migliaia di lavoratori in Italia devono passare gli ultimi anni della loro attività, in reparti confino o uffici ghetto?
Siamo ancora lì: è triste ammetterlo ma la strada percorsa dai tempi delle mondine sembra tanta, ma forse vogliamo illuderci per assolverci; tra le questioni poste dalle mondine il secolo scorso, vi era anche l’essere costrette a fare le loro funzioni fisiologiche e a cambiarsi, davanti agli occhi dei padroni e dei guardiani, aver ottenuto a volte, che i capisquadra fossero altre donne aveva migliorato di poco l’umiliazione, perché il nodo era il controllo gerarchico sulla propria intimità.
Le aziende fanno le aziende, i padroni fanno i padroni, dovremmo sapere che ogni diritto nel lavoro, anche quelli “fisiologici”, sono il risultato di un percorso delle lavoratrici e dei lavoratori, che si evolve da consapevolezza, a organizzazione e poi azione; nessuna conquista è ovvia e tutte sono temporanee, dalle pause alla disconnessione. La crisi economica che precede, intreccia e si acuisce con quella sanitaria, potrebbe fornire il pretesto per rimettere in discussione le condizioni dei lavoratori e soprattutto delle lavoratrici.
Le donne, le lavoratrici, si sono sempre organizzate e hanno inventato azioni e lotte partendo da sé, più di altre conseguenze, abbiamo paura della derisione e dell’isolamento.
Se devo rivendicare il diritto a pisciare lo faccio per me, ma anche per ogni altra donna, ovunque lavori, e per favore non chiamatela PLIN PLIN!
Delia Fratucelli postina – RSU Poste Italiane Torino – SLC/CGIL Riconquistiamo Tutto