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[CONTRIBUTO] Donald Trump versione 2.0: origini e natura

Riceviamo e pubblichiamo qui sotto il contributo “Donald Trump versione 2.0: origini e natura”, già pubblicato dai compagni della redazione de Il Pungolo Rosso sul loro sito.

Questa crisi sanitaria e sociale, che sta provocando i primi scioperi spontanei nelle fabbriche dopo decenni, e diviene ora anche crisi economica e finanziaria, mette alla prova i sistemi capitalistici, in Italia e nel mondo intero, e scuote le coscienze in settori della nostra classe cui si chiede di lavorare comunque, anche in assenza delle condizioni di sicurezza che vengono invece imposte al resto della popolazione.

Per la prima volta da decenni assistiamo a scioperi spontanei nelle fabbriche.

Anche nella lotta per ambienti di lavoro sicuri e adeguati dispositivi di protezione individuale, e nelle difficoltà di coloro che sono lasciati a casa con un futuro incerto, deve crescere la coscienza della necessità di lottare per superare questa società divisa in classi.

Contro le ideologie da “unità nazionale” tra sfruttati e sfruttatori.

Il virus globalizzato mette inoltre in chiaro l’inconsistenza delle prospettive di autonomie locali/localistiche, e delle scorciatoie “sovraniste”.

L’unica strada è quella internazionalista, dell’unione tra i proletari di tutto il mondo.

S.I. Cobas


Donald Trump versione 2.0: origini e natura

Riprendiamo volentieri dal blog Noi non abbiamo patria questa analisi sul Trump degli ultimi mesi, che ha evidenti elementi di discontinuità, e non solo di continuità, con il Trump del 2016, e anche con quello del 2019. Non ci stancheremo di dire: per ragioni di ordine globale, internazionale, grandi avvenimenti sociali e politici sono in corso negli Stati Uniti. Bisogna seguirli, studiarli attentamente, per le loro enormi ricadute interne e mondiali.

Introduzione

Sono sempre più frequenti i commenti allarmati degli analisti politici riguardo che cosa farà Trump se dovesse uscire sconfitto dalla sfida elettorale con Biden. Cederà tranquillamente il potere, oppure griderà all’imbroglio elettorale, ricorrerà alla legge marziale ed invocherà l’aiuto ed il sostegno delle milizie armate dei Proud Boys e patrioti bianchi vari? Non solo Trump lascia intendere di non escludere niente, non solo i suoi fedeli consiglieri gli raccomandano un’azione repressiva preventiva in grande stile, ma l’argomento in questione è diventato il tema dell’ovvio, senza troppo stupore si dà per scontato che un qualche cosa che non ha precedenti accadrà.

Siamo di fronte ad un politico psicopatico venuto dal pianeta Marte, oppure Donald Trump con il mitico interprete di Ziggy Stardust ha in comune solamente il colore dei capelli, e si tratta di ben altro?

In un precedente articolo, sulla rivolta contro il razzismo sistemico negli Stati Uniti, si chiariva che le forze del capitale si trovano costrette ad affrontare una nuova fase della crisi generale e di sistema del capitalismo, accelerata ed aggravata dalla pandemia. Crisi di cui la rivolta inedita del proletariato multirazziale contro il razzismo e la violenza della polizia è la materializzazione della profonda polarizzazione di classe determinata. Una rivolta che produce lo scuotimento ulteriore di tutti i rapporti sociali (e di forza tra le classi) precedentemente consolidati, ma già traballanti dal 2008 quando la crisi di accumulazione globale del valore riesplose nella forma di crollo dei saggi di profitto del capitale fittizio (finanziario).  

In quell’articolo si evidenziava che il precipitare della crisi, aggravata dalla pandemia globale (che è un elemento endogeno del procedere del capitalismo), richiede il superamento in avanti dei limiti del trumpismo di ieri, che era incentrato sul rilancio aggressivo degli Stati Uniti nella contesa della leadership mondiale, unito al tentativo di unire un “popolo lavoratore” interclassista contro gli interessi specifici “globalisti”. Operazione abbastanza riuscita nel 2016. Dopo 8 anni di crisi ed il fallimento dell’aspettativa obamista, dall’operaio delle fabbriche in difficoltà per effetto della delocalizzazione e della concorrenza della mano d’opera globale più a buon mercato, al produttore agricolo, al piccolo imprenditore dei servizi al ceto medio produttivo, in molti diedero credito al progetto Trump. L’unità interclassista nazional popolare, però, non poteva e non può durare a lungo nel contesto in cui tutti i nodi generali della crisi sistemica non vengono risolti, tanto più che la crisi generale e globale genera proprio negli U.S.A. le prime reazioni proletarie diffuse che rimandano ad una ripresa di lotte verso un risorgente antagonismo di classe.

Infatti, veniva scritto che “… l’indistinto popolo “trumpista” negli USA non è più rappresentabile con le politiche di ieri e che il “sovranismo” bianco e popolare per affermarsi richiede oggi una maggiore contrapposizione frontale di una parte di questo “popolo” contro un’altra parte “del popolo”, una maggiore aggressività e violenza contro gli sfruttati che intendono resistere. Prima ancora di appalesarsi come una opzione politica, questa contrapposizione già emerge come effetto della crisi nelle faglie della società”.   

Donald Trump versione 2.0.

Negli ultimi sette mesi abbiamo assistito alle premesse di una nuova auto attività del proletariato giovanile multirazziale. Già prima delle estese e generalizzate rivolte in nome di George Floyd, abbiamo verificato un crescente numero di lotte e scioperi spontanei, “walks out” e “sicks out” sui posti di lavoro a difesa della salute e contro le priorità dei padroni e del profitto, cui le vite di tutti devono inchinarsi nonostante il covid19. All’apparenza resistenze parziali, minoritarie, limitate agli aspetti esteriori dello sfruttamento capitalistico e del tutto prive di un respiro politico generale, ma che, viceversa, facevano i conti con la crisi generale della riproduzione di tutte le relazioni sociali capitalistiche, la cui crisi improvvisamente rimette al centro aspetti fondamentali della vita immaginati superati dall’orologio della storia e dal “progresso” capitalistico. Tanti “anticapitalisti” si sono mestamente convinti negli ultimi decenni che nel grasso e ricco occidente l’alienazione e lo sfruttamento capitalistico avrebbe agito principalmente come disagio esistenziale e psicologico [vedi “il Sole 24 Ore” del 16 agosto 2020: Arriva dagli USA un’altra epidemia: migliaia di morti per mancanza di senso].

In una America improvvisamente scossa nel breve spazio di poche settimane da pesanti ricadute sociali, i bisogni basilari sono tornati al centro delle preoccupazioni di milioni di lavoratori americani, in special modo al centro delle vite di milioni di giovani proletari e tra questi, soprattutto dei proletari neri, ispanici ed immigrati. Una reazione istintiva che apre la contraddizione se la vita umana è utile solo come mera merce e forza lavoro, o è l’aspetto delle virtù della vita sociale e comunitaria che deve essere riscoperta ed esaltata. Mettere il pane ed il cibo in tavola, non perdere un tetto sopra la testa rimanendo esposti alla pandemia, le “cattive profezie” della novella Cassandra Greta Thunberg sulla devastazione ambientale, diventano il tema centrale nella vita di milioni di sfruttati. Dai luoghi di lavoro della GIG economy alle moderne fabbriche della logistica, nelle aziende dell’agrobusiness a quelle di lavorazione e macellazione delle carni, negli ospedali, fino ai cortei ed ai caroselli contro gli sfratti abbiamo visto durante tutto il mese di aprile e maggio come quell’indistinta nazione popolare interclassista andava di fatto a scomporsi, dividersi e contrapporsi. Di qua un “incoerente” e informe nuovo proletariato, di là quel ceto medio produttivo che in nome della “libertà” e del “libero arbitrio” si sottomette e invita a sottomettersi alle necessità di valorizzazione del profitto privato.

Non stupisce appunto che la rivolta del proletariato multirazziale, che si è data nel nome di George Floyd, abbia unificato quelle prime reazioni di resistenza, trascinando in un generalizzato movimento di lotta a fianco dei proletari neri, il proletariato ispanico, latino, immigrato, le comunità dei nativi americani, gli oppressi e le oppresse per motivi di genere e sesso, e soprattutto pezzi consistenti di proletariato giovanile bianco bastonato dalla crisi di questi ultimi dodici anni, tutti ulteriormente penalizzati dalle conseguenze economiche e sociali del coronavirus. E’ soprattutto questa unità di lotta tra proletariato nero e proletariato bianco che preoccupa e fa paura alla società del capitale razzializzato, dominata dai bianchi, una unità così radicale che non si vedeva dai tempi della ribellione di John Brown. 

Quindi, come tenere unita e coeso la “nazione lavoratrice” interclassista quando l’ascensore sociale ed il progresso perpetuo si bloccano, quando, anzi, il sistema scricchiola, mentre la lotta proletaria rifà capolino da sotto la polvere della storia?

Nel modo in cui abbiamo assistito. Lo Stato americano si è visto costretto a ricorrere al coprifuoco, all’impiego della Guardia Nazionale, agli arresti di migliaia di manifestanti e di giovani di tutti i colori, alle investigazioni per terrorismo domestico ed al risorgimento di un nuovo squadrismo “bianco”, facendo leva sulle paure delle classi medie (bianche e di colore).

La necessaria risposta da parte del sistema capitalistico a questa lotta antirazzista (ma dai connotati più profondi e generali), è all’origine della necessità di superare il trumpismo in versione 1.0, e sta definendo un trumpismo in versione 2.0.

Una versione nettamente più agguerrita e più apertamente antiproletaria e razzista di quella del 2016. Qualcuno potrebbe notare che il Trump di oggi è la semplice continuazione di quello di ieri. Anche nel 2016 Trump flirtava con le organizzazioni di estrema destra, neonaziste e apertamente razziste, rifiutandosi, per esempio, di condannare apertamente l’azione dei gruppi di destra che a Charlottesville nell’agosto 2017 causarono l’uccisione dell’attivista Heather Heyer (travolta dall’auto del suprematista bianco James Alex Fields). In quell’occasione Trump si limitò ad assumere una posizione di equidistanza condannando gli opposti estremisti di destra e di sinistra.

Se guardassimo la realtà con queste lenti, però, ci sfuggirebbe il cambiamento del Trump di oggi, annotando le sue esternazioni come il prodotto del suo essere uno psicotico. 

Era poco più di un anno fa che il 5 agosto 2019, in seguito alle contemporanee stragi razziste nei confronti di cittadini ispanici ad El Paso e nei confronti di altri afroamericani a Dayton, “The Donald” dichiarò con un tweet:

“Non possiamo lasciare che le persone uccise a El Paso, in Texas, e Dayton, in Ohio, muoiano invano. Allo stesso modo per quelli così gravemente feriti. Non possiamo mai dimenticarli, e quei tanti che li hanno preceduti. I repubblicani e i democratici devono unirsi per eseguire solidi controlli sui precedenti, magari unendosi in matrimonio…”.

Lo stesso giorno in diretta TV “The Donald” si rivolse ancora alla nazione dichiarando: “Il razzismo e il suprematismo sono ideologie che non devono avere posto in America e devono essere sconfitte… Il killer a El Paso ha pubblicato un manifesto online, consumato dall’odio razzista… con una sola voce la nostra nazione deve condannare il razzismo, il bigottismo e il suprematismo bianco. Queste ideologie sinistre devono essere sconfitte. L’odio non ha posto in America. L’odio deforma la mente, saccheggia il cuore e divora l’anima.

Parole dal medesimo contenuto politico ed ideologico di quelle pronunciate dal suo attuale avversario democratico Biden, il quale, successivamente all’assassinio di George Floyd, con toni sicuramente meno accorati di Trump, disse che “il peccato originale di questo paese macchia ancora la nostra nazione..” (riferendosi implicitamente alla schiavitù), finendo poi nell’invocare la riforma della polizia e l’unità nazionale per debellare il razzismo dagli USA [per inciso è lo stesso Biden che nel 2019 veniva messo sotto pressione proprio dalla sua candidata vicepresidente Kamala Harris, che lo denunciava di aver ostacolato le politiche a favore delle comunità afroamericane in California negli anni ’70 e ’80 e specificatamente riguardo i servizi di scuola bus per i bambini neri, così come di essersi contraddistinto in Senato negli ultimi anni per la sua collaborazioni lobbistica con alcuni senatori repubblicani suprematisti].

L’antirazzismo di Trump ha l’altra faccia della medaglia. L’antirazzismo di Trump (e la tutela dei neri, ispanici autoctoni o semplicemente del “popolo lavoratore”) si forgia attraverso la guerra senza sosta agli immigrati, necessaria proprio per “difendere” le minoranze black e marroni dalle ricadute sociali che l’immigrazione clandestina incontrollata provocherebbe. 

Quindi la differenza sostanziale tra Biden e Trump (nella sua versione 2.0), risiede non “nelle visioni politiche” sul razzismo, bensì nella presa d’atto da parte di quest’ultimo che l’unità nazionale del suo “popolo” interclassista stia franando, e le città ed i quartieri in rivolta lo dimostrano. E per contenere la frana sotto la montagna e continuare a perseguire l’unità del “popolo”, è necessaria una escalation a tutti livelli della violenza istituzionale ed extra istituzionale contro i proletari di colore e bianchi e contro tutti gli aspetti di insubordinazione sociale. Operazione urgente e necessaria anche a costo di minacciare la rottura delle regole della democrazia borghese e della legalità costituzionale. In sostanza, il trumpismo 2.0 tenta di incarnare una politica di aggressione complessiva al proletariato interno. La semplice intensificazione dello sfruttamento e di estrazione del plusvalore (cosa che il capitalismo fa già di suo moto proprio) non è da sola più sufficiente.

Il passaggio alla versione 2.0., l’intelligence parallela delle agenzie di polizia federali, la guerra agli immigrati e la repressione del movimento antirazzista

E’ un salto dal Trump 1.0 a quello di oggi, che avviene dunque per determinati fattori oggettivi che risiedono nell’aggravarsi complessivo e generale della crisi di accumulazione del capitale. Gli Stati Uniti, già in difficoltà nella loro leadership globale a causa della concorrenza nella competizione globale con Cina, Europa, Russia e Giappone (che gli contendono la leadership mondiale un tempo indiscussa), devono fare i conti anche con il fattore endogeno: appunto la ripresa di auto attività di larghi strati del proletariato di tutti i colori, soprattutto giovanile.

Un primo campanello d’allarme l’amministrazione Trump l’aveva già dovuto registrare in occasione delle diffusissime proteste antirazziste del 2018 e del 2019 contro il progetto del muro al confine con il Messico e contro le politiche di guerra agli immigrati. Le proteste del biennio passato seminarono bene il terreno, e non è un caso che l’attuale rivolta contro la violenza della polizia e il razzismo sistemico affianca alle parole “black lives matter” e “dismantle the police”, quelle di “close the camps” e “against the wall”; si attaccano e bruciano i distretti di polizia, così come si assaltano gli edifici dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement) e le proprietà federali del DHS (Dipartimento della Sicurezza Interna).

Mentre di fronte ai fatti di El Paso e di Dayton Trump invocava l’unità nazionale contro il razzismo e il suprematismo bianco, la radicale reazione delle proteste antirazziste contro il muro e per la chiusura dei lager evidenziava che la politica borghese di unità interclassista poggiava su fondamenta non fatte di cemento rinforzato. Settori sociali giovanili (di certo ultra minoritari) non si lasciavano abbindolare dall’antirazzismo della Casa Bianca, viceversa si battevano al fianco degli immigrati. Il fatto è che le briciole per foraggiare l’abbindolamento proletario scarseggiano, ed è paradossalmente la stessa guerra agli immigrati che sottrae le risorse per il sostegno la piccola impresa autoctona e per i salari operai.

Il budget stimato nel 2017 dal governo Trump per la costruzione del muro sul confine con il Messico era di circa 12 miliardi di dollari [fonte BBC febbraio 2017], ma solo per costruire le prime 1000 miglia (su un totale di 1900 miglia). Questa cifra venne ritenuta ottimistica anche da Fox News, ritenendo il costo per la copertura di 1150 miglia di confine non inferiore a 25 miliardi di dollari (ed al netto delle spese di manutenzione annua pari a 750 milioni di dollari l’anno) [fonte Fox News dicembre 2018]. Tant’è che è stato verificato che per completare le prime 576 miglia erano già stati spesi 11 miliardi di dollari nel 2019 [fonte NPR gennaio 2020]. Il tutto, in una spesa di bilancio che include continui aumenti del finanziamento al Pentagono (spese militari), che porta la previsione di deficit di bilancio per il 2020 a circa a mille miliardi di dollari [fonte voanews marzo 2019], in parte coperto riducendo il finanziamento a sanità e ad altri programmi sociali.

La verità è che una parte consistente del finanziamento è stata spesa per incrementare le truppe federali degli U.S. Marshall, del DHS e le agenzie dell’ICE, mentre il consigliere e amico Steve Bannon si prodigava in campagne per la raccolta di fondi privati per colmare l’insufficiente budget federale e per realizzare l’altra metà della fortificazione (poi si è saputo che Bannon – accusato per frode proprio per questa operazione – ha racimolato miseri 25 milioni di dollari sufficienti solo a coprire qualche centinaio di metri di muro). 

Un’altra parte ancora è andata a finanziare la realizzazione di corpi di intelligence paralleli all’interno delle agenzie federali di polizia (fuori dal controllo formale del Congresso e del tutto indipendenti da FBI e CIA), il cui principale compito è stato quello di controllare e spiare le reti antirazziste impegnate nelle mobilitazioni contro il muro. Il giornale The Intercept ha prodotto un ricco reportage di questa dinamica, riannodando i diversi fili che il caso Blue Leaks (documenti segreti delle agenzie di polizia venuti alla luce a fronte di un attacco informatico) ha svelato.

Le attività di intelligence del DHS dalla fine del 2018 al 2019 hanno prodotto dossier nei confronti di attivisti antirazzisti, di avvocati impegnati a difendere gli immigrati senza documenti, ed anche molti giornalisti impegnati al confine. In questi dossier le persone illecitamente indagate sono definite come “attivisti politici terroristi”, “criminali” e “contrabbandieri” (vedi The Intercept del 25 luglio).

Spesso le operazioni di intelligence sono sfociate in irruzioni degli U.S. Marshall e del DHS all’interno dei campi di soccorso per gli immigrati nelle zone di confine, in centinaia di arresti ed in tante incriminazioni per reati che prevedono fino a 20 anni di carcere. E’ in questa dinamica repressiva e di intelligence parallela del governo federale che lo Stato delinea il teorema della cospirazione anarchica, di cui oggi parla Trump.

Il personale di queste agenzie si è via via riempito di nuovi ufficiali fedeli a Trump, altri con precisi connotati politici vicini ai nuovi gruppi di estrema destra dei Boogaloo Boys o dei Proud Boys di nuova formazione.

Le infiltrazioni negli apparati di polizia, la conflittualità con i vertici dell’esercito e la crisi costituzionale

Le infiltrazioni e la collusione tra i sindacati di polizia, federali e formazioni politiche del nuovo “partigianesimo” bianco, è stata evidente nelle rivolte di questi mesi, in particolare a Kenosha e a Portland.

Dal 2016 in poi l’atteggiamento della polizia e della FBI nei confronti delle dimostrazioni dei gruppi di estrema è diventato vieppiù tollerante, retrocedendo i cordoni della polizia di fronte alle marce armate degli estremisti di destra. Fino ad arrivare ai giorni nostri dove le forze di polizia locali e federali trattano questi suprematisti come fratelli e alleati, come i fatti di Kenosha e l’assassinio di due attivisti bianchi del BLM da parte del giovane Kyle Rittenhouse hanno ben confermato.

La dinamica, però, non si ferma qui, coinvolge anche l’esercito federale dove è in atto un palese scontro interno ai comandi generali del Pentagono tra “lealisti” della Costituzione ed i cosiddetti sostenitori della “legge e dell’ordine” a tutti i costi. Lo scontro è senza esclusione di colpi e non risparmia i pezzi da novanta del governo Trump. Il primo a farne le spese è stato il generale James Mattis, Segretario alla Difesa dell’amministrazione Trump, dimessosi il primo gennaio 2019. Il giorno dopo – 2 gennaio 2019 – la stessa sorte è toccata al generale John F. Kelly, prima segretario di Stato per la Sicurezza Interna e poi capo di Gabinetto della Casa Bianca. Lo scontro nell’esercito federale e all’interno dei comandi del Pentagono si è fatto sempre più duro con l’avvio della rivolta a seguito dell’assassinio di George Floyd. Durante i primi giorni di giugno quando la “Guardia Nazionale” non svolgeva al meglio il suo compito, Mark Esper – capo del Pentagono –, il segretario generale dell’esercito Ryan McCarthy e il Generale Mark Milley, prima rifiutarono il loro appoggio a sostenere l’Insurrection Act proposto da Trump per domare le rivolte nei giorni di maggio e giugno. Poi immediatamente dopo gli stessi vertici del Pentagono dichiararono pubblicamente che non avrebbero mai schierato l’esercito federale per reprimere le manifestazioni dei cittadini americani, schierandosi apertamente contro l’uso politico dell’esercito.

E’ uno scontro di potere quello in atto, che scuote alla base ed ai vertici l’unità centralizzata dell’esercito federale degli Stati Uniti, che prosegue attraverso la campagna di arruolamento della truppa in due schieramenti distinti e contrapposti. Da un lato troviamo le lettere aperte di alcuni giovani graduati e cadetti di West Point (l’accademia militare) contro il tentativo di uso anti costituzionale dell’esercito. Dall’altro le lettere, prese di posizione e chiamate a raccolta di altrettanti ex ufficiali sempre rivolte ai giovani cadetti e che sostengono il ruolo dell’esercito a difesa del paese contro il marxismo debordante e a sostegno dell’operato di Trump.

E’ una crisi istituzionale profonda dell’esercito federale, che apre a possibili scenari di crisi costituzionale tali da mettere a rischio l’unità stessa dello Stato. Sotto questa luce le recenti dichiarazioni di Trump che definisce i generali americani “un branco di ragazzine”, o i caduti in guerra in Francia durante il primo conflitto bellico mondiale “babbei e perdenti”, sono perfettamente coerenti con l’obiettivo di centralizzazione della forza dello stato borghese contro il proletariato.

L’impossibilità a continuare nel solco del trumpismo prima maniera

Trump sarebbe rimasto molto volentieri nel solco della sua politica in versione 1.0, caratterizzata dalla paternalistica solidarietà verso il “popolo” lavoratore americano. Senonché, nei primi mesi del 2020, mentre gli U.S.A. si rilanciavano sul piano internazionale con rinnovata aggressività (l’attacco all’Iran, la guerra commerciale con la Cina, la minaccia dei dazi commerciali alle merci della EU, l’embargo al Venezuela, il colpo di Stato teleguidato in Bolivia, l’affare Corea del Nord, gli affronti al confine Russo e l’invio di truppe NATO in Polonia), Trump si è trovato non solo costretto ad affrontare le contro risposte di Russia e Cina, ma ha dovuto anche prendere atto di alcune indisponibilità di importanti pezzi decisivi del capitalismo nazionale a gestire la crisi sanitaria incombente, il che ha evidenziato il limite della politica populista a “protezione” del “popolo lavoratore”.

Infatti, sul finire del mese di marzo, quando si rendeva evidente che la struttura sanitaria nazionale era del tutto impreparata ad affrontare la pandemia da Coronavirus, Trump tentava di imporre a GM e Ford e Tesla la riconversione delle linee chiuse dal lockdown (deciso dai colossi dell’auto stessi), in favore della produzione di ventilatori e di macchinari di cui gli ospedali non erano provvisti in numero adeguato. Trump arrivò anche a minacciare l’uso del Defense Production Act. Dopo una lunga trattativa nello studio ovale tra governo e GM, Ford e Tesla, la risposta dei big dell’automotive USA è stata irrevocabile: nessuna riconversione in grande stile della produzione delle linee ferme verrà fatta; GM, Ford e Tesla non produrranno in proprio i macchinari necessari per gli ospedali, semmai i costruttori d’auto offriranno il loro supporto in logistica alle aziende partner già produttrici di strumentazione tecnica ospedaliera. E tanto è bastato a far retrocedere Donald.

Al contrario FCA dichiarava che era in procinto di avviare una produzione di mascherine ospedaliere su larga scala pari ad 1 milione al mese, però prodotte dai suoi stabilimenti in Cina (offerta poco digeribile per gli interessi generali dell’imperialismo USA proiettati verso l’aggressione alla muraglia cinese).

In sostanza un doppio duro colpo da parte di importanti pezzi del grande capitale nazionale non disposti a farsi mettere in riga in nome degli interessi del sovranismo popolare. Non rimaneva a Trump che fare buon viso a cattivo gioco. Iniziare a sostenere che il “virus” è una semplice influenza, al massimo è un “virus” cinese, fino ad ammettere pochi giorni fa di aver “mentito” per non gettare gli americani nel panico. In sostanza, il Trumpismo 2.0. non è la rinuncia della vocazione “populista”. Ma questa politica, nelle condizioni parzialmente mutate (in peggio), può darsi solo previa una diretta e decisa azione complessiva antiproletaria.

Un salto verso una più decisa politica contro i proletari, ma anche nei confronti di certi interessi borghesi “globalisti”

Nei primi mesi del covid-19 i cosiddetti “essential workers” vengono messi sotto la stretta del ricatto padronale, che imponeva due scelte: perdita del lavoro e dunque del sostentamento, o rischio per la salute in cambio di salari da fame. Ricatto che in particolar modo si fa sentire sul proletariato giovanile tutto, e nello specifico su quello nero, marrone ed immigrato. Da Amazon e dalle moderne fabbriche della logistica, dai settori della GIG Economy e delle catene multinazionali della distribuzione delle merci e del commercio, dagli ospedali, dalle industrie di allevamento e macellazione della carne, dalle grandi aziende dell’agrobusiness abbiamo un proliferare di scioperi spontanei e di nuove forme autorganizzate di trade-unionismo dei lavoratori. In alcuni settori dell’industria tradizionale (quale la cantieristica navale legata alla produzione militare), ed in alcune piccole e medie aziende metalmeccaniche specializzate nel recupero dei metalli si sciopera o per recuperare le perdite salariali degli ultimi anni, o contro il taglio delle assicurazioni sanitarie.

A maggio, nella FCA dove la UAW è sempre più al servizio delle necessità dell’azienda, sorgono spontanei comitati operai di “Rank e Files” nei primissimi giorni della riapertura degli impianti, ed in due importanti stabilimenti di Detroit ci sono gli scioperi spontanei durante i turni ed il blocco totale delle linee di produzione.

Nella metà di aprile gli scioperi nell’industria del meat packing (macellazione) e le decine di migliaia di operai in malattia (e tanti, soprattutto tra i delegati sindacali, moriranno) per il covid-19, la distribuzione della carne viene razionata per circa due settimane.

Trump ed i governatori a lui fedeli corrono ai ripari: centinaia di detenuti dei penitenziari di stato sono costretti al lavoro coatto negli impianti di macellazione in sostituzione degli operai in malattia o in sciopero. Poi il covid-19 si diffonde negli istituti carcerari e scoppiano varie rivolte nelle carceri (ecco una spiegazione su come fa il coronavirus a diffondersi all’interno degli istituti di pena).

Trump è costretto ad accelerare la politica di riforma del National Labour Relations Board (NLRB) già iniziata sul finire del 2019. Il NLRB è l’agenzia federale che ha come compito quello di accogliere le cause collettive dei lavoratori e risolvere i contenziosi con le imprese. Per sua costituzione questa agenzia si prefigge di fornire uno strumento legale a quei lavoratori che non dispongono della organizzazione sindacale sul posto di lavoro. In quei mesi la Casa Bianca provvede velocemente a ridurre gli spazi legali di ammissibilità dei contenziosi collettivi contro i padroni per tutta una serie di rapporti contrattuali precari o in collaborazione. Amazon, Fedex, Instcart, Whole Foods, Walmart, McDonald, Uber, e le imprese di macellazione e dell’agrobusiness ringraziano.   

Le disposizioni per il social distancing sono rigidissime quando queste servono a vietare i referendum degli infermieri e dei lavoratori degli ospedali fissati per istituire – secondo la legge – la rappresentanza sindacale. E mentre le infermiere protestano contro il coronavirus e contro il lassismo del governo, la mobilitazione trasversale del ceto medio bianco (ma anche black) scende in piazza sfidando i cosiddetti “essential workers” in diverse piazze al grido di voi siete delle “fake news”, “andate in Cina”. Abbiamo visto come questa mobilitazione spontanea del ceto medio sia stata supportata da Trump ed incanalata verso la costituzione del partito del Trumpismo 2.0., che va ben al di là della tradizionale base sociale del partito Repubblicano. E’ la formazione del partito di Trump che mette all’angolo i vecchi tromboni repubblicani, incluso G.W. Bush.

La Casa Bianca provvede anche ad indirizzare la politica monetaria della Federal Reserve secondo un piano sempre più centralizzato. Questo non solo – come ovvio – provvede a ripulire le banche e le holding finanziarie sostituendo titoli di debito a rischio di inesigibilità con quelli freschi di “stampa”, ma anche per mantenere a galla quel ceto medio produttivo e di lavoratori garantiti che in questo marasma generale tentennano, creando le premesse, però, alla lunga, per la formazione di un numero crescente di aziende zombie mantenute con il debito dello Stato Federale.

In sostanza il trumpismo 2.0 è la politica dell’offensiva delle forze impersonali del capitalismo statunitense che risponde alle esigenze di aggressività sul piano internazionale contro i propri concorrenti e le masse sfruttate del sud del mondo, e sul piano interno contro il proprio proletariato che ha iniziato ad agitarsi per sé. La sua sostanza non è determinata dalle sole necessità macro-economiche, ma molto di più che in passato e in modo qualitativamente differente, dalle sue esigenze di dominio nei rapporti di forza di classe all’interno delle relazioni sociali complessive del capitalismo.

Esigenze impersonali del capitalismo che chiamano a regolare i conti anche con alcuni e pezzi importanti del grande capitale e dell’alta borghesia, ritenuti, per i lori interessi privati, poco ricettivi circa la svolta antiproletaria interna, e troppo propensi a considerare solo i loro specifici interessi “globalisti”, tipici di alcune multinazionali dell’industria tecnologica e digitale.

Jeff Bezos (padrone di Amazon) fino a pochi mesi fa rappresentava il potere economico avverso al trumpismo, ed il nemico numero uno personale di Trump. Viceversa, ora si trova improvvisamene in una posizione strategica di vantaggio economico che la versione 2.0. di Trump sta involontariamente favorendo.

Sin dai tempi degli appalti miliardari per il cloud computing del Pentagono, che sfuggirono di mano all’ultimo minuto al patron di Amazon (proprio per l’intervento della Casa Bianca) e furono vinti da Microsoft, il rapporto tra il Presidente e Jeff Bezos aveva raggiunto un livello di contrapposizione frontale di non ritorno.

La strategia di Trump di lasciar fallire il servizio postale americano, rifiutandosi di coprire l’enorme buco finanziario di U.S. PS, sembrerebbe dettata dalla volontà della Casa Bianca di danneggiare l’odiato nemico Bezos (oltre che per i ben noti motivi elettorali). Viceversa, invece di danneggiare Amazon (che dipende solo in alcuni casi e solo per le consegne dell’ultimo miglio dal servizio postale tradizionale), il colosso di Seattle dell’E-Commerce e della logistica sfrutta la crisi del servizio postale ottenendo sempre più prezzi ribassati per le consegne dell’ultimo miglio. Nel frattempo Amazon, in caso di fallimento di U.S. PS, ha preparato l’alternativa stipulando accordi con Fedex, UPS ed altri driver della logistica americana. Alla fine la crisi finanziaria di U.S. PS non è altro che il risultato del processo di concentrazione del capitale nella moderna industria legata alla circolazione globale delle merci. 

Viceversa, l’attacco vero di Trump è proprio nei confronti delle multinazionali americane della Big Technology e dell’industria digitale dirette concorrenti di Amazon.

Non è un caso, infatti, se l’ex consigliere e stratega della Casa Bianca Roger Stone consiglia il presidente Trump di ricorrere alla legge marziale in caso di sconfitta elettorale, preceduta, però, da alcuni arresti preventivi e di eccellenza ben mirati: Tim Cook (patron della Apple), Zuckerberg (patron di Facebook), Bill Gates, Evan Williams (che è l’attuale CEO di Twitter), tutti agguerriti concorrenti di Amazon nel Cloud Computing e nella Digital Economy. Anche dietro la vendita imposta della cinese Tik Tok America ad una proprietà americana, si sospetta l’intervento della Casa Bianca a sfavorire alcune importanti Big Companies della digital economy quali Microsoft e Google (tra i più pericolosi concorrenti di Amazon nell’offerta del Cloud Computing) pilotando la vittoria ad Oracle, altro colosso dell’informatica il cui cofondatore Larry Ellison è un importante supporter e finanziatore di Trump.    

Come mai il nome di Jeff Bezos, dunque non è nella lista dei padroni da punire, come mai ci finiscono invece tutti i suoi diretti concorrenti? Anche Amazon, come il resto delle Big Tech Corporations, ha quei tratti “globalisti” tipici delle multinazionali della digital economy e dell’informatica, che tanto plasmano le loro “culture aziendali” (e i loro interessi finanziari).

La ragione di fondo è che il CEO di Amazon rappresenta proprio una di quelle forze soggettive del capitale e della grande borghesia che invocano il trumpismo nella sua versione decisamente più antiproletaria, chiamata versione 2.0.

Con i mega magazzini di New York, Chicago e della Bay Area e della California attraversati da scioperi spontanei per condizioni di lavoro meno schiavistiche (e a sostegno del Black Lives Matter nel giorno del Juneteenth), Jeff Bezos ed il suo gruppo di azionisti di riferimento sono costretti a governare l’azienda attuando una articolata repressione dei suoi lavoratori. Amazon non si limita ad intimidire e a licenziare i lavoratori più combattivi, ma si prefigge di azzerare l’esperienza in progress degli Amazonians United. Ritorsione nei confronti dei lavoratori ed intelligence privata vanno di pari passo.

E’ emerso che il colosso della logistica e dell’E-commerce di Seattle stia facendo largo uso delle moderne tecnologie presenti sulla rete Cloud di Amazon Web Services (AWS) per monitorare attraverso i social media le attività di unione sindacale autorganizzate dei lavoratori Amazon. Nuove posizioni sono state aperte nell’organizzazione aziendale della Global Security e Global Intelligence per esperti analisti con mansioni che vanno dal monitoraggio dei lavoratori fuori dall’azienda, allo studio, analisi e protezione degli interessi aziendali di fronte a minacce esterne, quali conflitti sociali e crisi geopolitiche. Da qui le traiettorie di partenza divergenti tra Bezos e Trump, alla lunga dovranno convergere.

L’innovazione tecnologica di Amazon per l’esercizio del monitoraggio e del controllo, riporta Jeff Bezos in auge come un importante partner commerciale della FBI e di altre agenzie investigative federali.

La repressione delle lotte sociali da parte dello Stato sta facendo largamente uso delle nuove tecnologie che consentono di intercettare ed incriminare i “facinorosi”, gli “anarchici” attraverso i social media. Amazon sta producendo nuovi sistemi tecnologici di sicurezza (video citofoni, webcam di sorveglianza private, webcam antifurto per le automobili, droni per il monitoring dei condomini) per il mercato privato consumer, attraverso la piattaforma cloud di Amazon ed il sistema denominato Amazon Ring. Il diffuso materiale pubblicato dal giornale “The Intercept” sul caso Blue Leaks ci ragguaglia su come la rete privata Amazon Ring collegata alle reti dei Dipartimenti di Polizia e della FBI, non sia affatto un elemento separato della repressione di Stato. 

La legge e l’ordine del Capitale

La legge e l’ordine invocati da Trump sono la controreazione borghese a questo movimento inedito del proletariato nero e multirazziale – covato sotto la brace della crisi generale di accumulazione capitalistica e quella sanitaria del covid-19.

Questo non solo avviene per l’essenza oggettiva anticapitalistica della rivolta dell’estate 2020. Ma anche perché questo movimento ha avuto il merito di coagulare ed intrecciare le tante singole battaglie dei mesi precedenti: quelle legate alla lotta contro la guerra agli immigrati (di cui da ultimo scopriamo viene effettuata l’asportazione dell’utero delle donne immigrate recluse nei “camps”), quelle per la difesa proletaria dagli effetti della crisi sanitaria e della pandemia, quelle contro gli sfratti, quelle per migliori condizioni di lavoro, quelle per una scuola pubblica che abbia al centro la salute dei bambini, quelle contro le oppressioni di genere e di sesso. In sostanza per la sua capacità di aver espresso che tutte quelle profonde ingiustizie, ineguaglianze sono figlie dello stesso meccanismo di sfruttamento razziale e di classe imperante nella società. I giovani in rivolta in questa settimana a Lafayette, Louisville, Portland e New York contro il proscioglimento degli agenti di polizia da tutte le accuse per l’assassinio di Breanna Taylor, ci dicono non solo che un certo proletariato multirazziale giovanile non può più vivere come prima, ma che esso non è disposto a continuare a vivere come prima.

William P. Barr, Procuratore Generale degli Stati Uniti d’America, è l’interprete più schietto, più lucido e coerente nel capire che questa è la vera sostanza del movimento cosiddetto BLM, ed interpreta la politica antiproletaria e di controreazione borghese e dello Stato senza badare troppo ai vincoli imposti dalla legalità costituzionale.

Sin dai primi giorni di giugno William Barr non si è attardato nelle polemiche con i Democratici che sostengono che l’86% delle proteste del BLM fossero “pacifiche”, mentre solo in pochi casi erano “degenerate” in atti “violenti” e in “saccheggi”. Il Procuratore Generale è andato oltre, affermando che il movimento BLM nel complesso è fatto di estremisti di sinistra e di teppisti che inscenano “i pochi casi di neri uccisi dalla polizia per avanzare la loro agenda politica”. Si perché è risaputo – spiega Barr – che il maggior numero di neri uccisi “è a causa di un’altra persona di colore”.

Quindi, cos’è che il BLM vuole inscenare dietro alla falsità del razzismo diffuso della polizia? qual è la sua agenda politica, si domanda il Procuratore Generale?  E risponde così: questi estremisti sono interessati “ad una sorta di socialismo”, vogliono “abbattere il sistema”, sono essenzialmente dei “bolscevichi che vogliono imporre una utopia marxista” contro le libertà, attraverso la distruzione della proprietà privata.

Di fronte al proscioglimento degli assassini di Breonna Taylor da parte del gran giurì del Kentucky, Trump e William Barr hanno giudicato la sentenza “fantastica”. William Barr e il Presidente conducono senza tregua la campagna politica per assolvere e giustificare i “miliziani” bianchi dall’accusa di omicidio volontario dei proletari bianchi e neri durante le proteste il razzismo (come nel caso di Kyle Ritthenhouse).

Nel mentre fanno questo, applaudono le esecuzioni sommarie a morte dei “traditori della razza bianca” eseguite dalla polizia durante i tentativi di arresto.

Nemmeno erano partite le indagini preliminari del Dipartimento di Polizia di Portland per determinare la dinamica dei fatti che hanno portato l’uccisione Michael Forest Reinoehl durante il suo tentato arresto, William Barr ha messo una pietra tombale sull’indagine interna di protocollo con uno storico comunicato ufficiale dell’ufficio del Procuratore Generale degli Stati Uniti: “…Plaudo alla straordinaria collaborazione tra le forze dell’ordine federali, statali e locali, in particolare il team della task force fuggitiva che ha individuato Reinoehl e gli ha impedito di sfuggire alla giustizia. Le strade delle nostre città sono più sicure con questo violento agitatore rimosso e le azioni che hanno portato alla sua posizione sono una dimostrazione inequivocabile che gli Stati Uniti saranno governati dalla legge, non da folle violente”.

Capito? Per i proletari ed i militanti che si oppongono a questo sistema di sfruttamento razziale è rimosso il legittimo status di innocenza, finché la colpevolezza non venga provata attraverso un regolare processo penale. La polizia si erge ad accusa, giudice ed esecutore della pena di morte seduta stante, il velo dell’ipocrita democrazia borghese basata sullo stato di diritto viene strappato con poche ma nette parole.

La legge e l’ordine – indipendentemente se volontariamente o no da parte dei suoi interpreti – procede a colpi di piccone sui dettami “costituzionali”, invocando, all’occorrenza, l’azione extra legale dei “patrioti” bianchi e della middle class suprematista quando il muro non vuole cedere. Lo stesso suprematismo bianco borghese ha caratteristiche sostanzialmente nuove: dismette i panni tradizionali del Ku Klux Klan, e veste anch’esso i panni di classe borghese al di là delle linee del colore, mettendo al centro la discriminante tra chi sostiene il sistema, la proprietà privata, e la repressione violenta dello Stato contro quei bolscevichi e anarchici che con la lotta mettono in discussione il sistema delle relazioni del capitale razzializzato.

L’attivismo politico di Barr non si limita alla controreazione contro il movimento BLM, si estende anche alla gestione dello Stato della pandemia – che è l’altra faccia della crisi complessiva della riproduzione delle relazioni sociali capitalistiche – in un paese che ormai ha raggiunto più di duecentomila morti ufficiali (mentre la conta di quelli non censiti sarà possibile solo nei prossimi anni).

In una intervista su Fox News il Procuratore Generale chiarisce il suo punto di vista: questa gestione “non deve essere lasciata nelle mani degli scienziati, ma deve essere gestita dagli ufficiali di polizia e dallo Stato”. E si dichiara contrario a qualsiasi politica per il contenimento della pandemia, perché “oltre alla schiavitù, che era un diverso tipo di contenimento, è la più grande intrusione nelle libertà civili nella storia americana”.

Cosa si muove all’orizzonte

Dovrebbe essere evidente, a questo punto, perché il dibattito su cosa farà Trump in caso di sconfitta elettorale stia diventando un dibattito sull’ovvio, come quelli della moviola del lunedì per determinare se il rigore per la Juventus c’era o l’arbitro, come al solito, era un venduto.

Quello cui stiamo assistendo è un primo atto traumatico della crisi economica, sociale, politica ed istituzionale, iniziata dalla crisi generale di accumulazione del capitalismo su scala mondiale (che, se vogliamo datare, ha ripreso la sua marcia dal 2008), e che, nel punto più alto del capitalismo globale, si manifesta nelle forme più acute. La polarizzazione antagonistica delle classi sociali negli Stati Uniti che ne consegue, determina la necessità di una ulteriore centralizzazione dello Stato borghese atta ad esercitare la dittatura del capitale su tutta la società, e specialmente sul proletariato, con il massimo della violenza possibile.

Lo schieramento borghese liberale e democratico si agita in questo scenario di approfondimento di tutte le contraddizioni come lo sprovveduto finito dentro la gabbia dei leoni che prova ad ammansire le belve bisbigliando “micio micio”.

Infatti, la borghesia liberale e democratica ritiene certamente che il rilancio dell’imperialismo USA ed il suo recupero di perdita di “leadership” sul mercato e nella concorrenza con gli altri Stati capitalistici (inclusi quelli emergenti come Cina, Russia ed India) necessita sicuramente di una maggiore aggressività verso l’esterno, però che non sia troppo conflittuale con gli “alleati” di Europa e Giappone, mentre regolerebbe il rapporto con il proletariato con un affondo generale ma moderato. La realtà, però, ci dice che il ricompattamento di tutte le classi in questo progetto di rilancio non può realizzarsi senza una previa decisa escalation antiproletaria politica, e non solo economica.

Tant’è che Trump, dato per spacciato ad inizio giugno, riconquista punti nei sondaggi ed acquista maggiori possibilità di farcela nella sfida elettorale per la Presidenza alla Casa Bianca.

In ogni caso è certo, l’attuale crisi politica ed istituzionale in corso non potrà essere risolta senza una violenza repressiva dello Stato ed una politica antiproletaria, sia che vinca Trump, sia che vinca Biden.

Il ritardo che la ripresa del conflitto sociale e di classe sta determinando nell’attuare il progetto “facciamo di nuovo l’America grande”, comporterà ancora più aggressività degli USA sia verso l’esterno, che verso gli sfruttati interni ed esterni (in Africa, Medio Oriente, Asia ed America Latina).

Ciò detto, la partita per il proletariato americano e quello internazionale si sta aprendo sfruttando il risvolto della medaglia.

L’accelerazione trumpista 2.0 verso la deriva fascistoide e di democrazia blindata degli USA porta con sé anche l’accentuazione di una crisi costituzionaleche mina al tempo stesso la tenuta unitaria dello stato. Il “super stato” yankee scricchiola paurosamente. Ne trarrà beneficio la rinnovata rivolta in Colombia, Bolivia, Cile, Ecuador, Argentina, in Sud Africa e in Egitto, nel Medio Oriente martoriato, a Port au-Prince, nell’isola di Lesbos ed al confine del Messico degli immigrati braccati dai governi Europei e degli Stati Uniti, a Bangkok, a New Delhi (solo per citarne alcune) degli sfruttati e dei senza riserve. Perché l’imperialismo nordamericano ha non ha al momento le mani completamente libere, ed il proletariato degli Stati Uniti che ancora si attarda a fare i conti con il proprio “biancore” interno, potrà essere attratto alla lotta dalla duplice e combinata azione della crisi generale e dell’uscita dai ranghi dei giovani proletari bianchi – traditori della razza – oggi in lotta al fianco dei propri fratelli di classe neri. 

La partita che si sta aprendo prelude certamente a scenari drammatici, ma anche ad una ripresa dell’antagonismo di classe internazionalista all’orizzonte. Non oggi, non domani, ma nemmeno nel prossimo secolo. E questo è grazie a questo movimento di rivolta sorto nel nome di George Floyd, grazie al coraggio di questo proletariato multirazziale che lo sta animando.

Da un cassetto di un anonimo, pessimo sceneggiatore hollywoodiano degli anni ottanta

Sono le 7:15 del mattino. Guardo fuori dalla finestra. In lontananza vedo a malapena il golden gate immerso in questo cielo rosso bruno denso. La radio è accesa e trasmette il notiziario del mattino: buongiorno amici della Bay Area. Dopo un’accurata analisi dei dati demografici e sanitari messi a disposizione dal National Health Service CDC, in collaborazione con Amazon Big Data, è stato appurato che i decessi del periodo 2020-2022 riconducibili al coronavirus sono stati 21415…. Sono ripresi gli incendi nell’area dell’Umpqua Forrest, mentre l’incendio divampato nell’area dello Yosimete Park, a causa dei forti venti da sud est, sta risalendo verso l’Eldorado National Forest. La Guardia Federale sta dichiarando lo stato di allerta e si prevedono possibili evacuazioni dell’area est di Sacramento nelle prossime ore… Amici della Bay area anche per oggi vi consigliamo di indossare i respiratori portatili..”

Fottuti terroristi comunisti! Dopo che a seguito dei drammatici fatti del 2021 le guardie partigiane lealiste hanno riportato l’ordine, la California è tutta un rogo. Il Dipartimento della salute assicura che la cenere, il fumo e le polveri sottili non rappresentano un problema per la salute, ma si consiglia di indossare i respiratori per non respirare il tanfo di copertone bruciato che da giorni avvolge la baia. Anzi mi devo ricordare di ordinarne on line una nuova scorta. Sembra che i nuovi respiratori di Amazon siano migliori. Non te ne torni a casa con quel terribile mal di testa e senso di nausea dopo che ci hai respirato dentro per ore.

Guardo fuori e mi rendo conto che se riuscissimo a sbarazzarci di queste cellule terroriste che appiccano gli incendi sulla nostra terra, adesso potrei vedere l’oceano in lontananza non questa distesa cinerea arancione. Il Presidente ha avuto coraggio da vendere. Non è stato facile epurare i terroristi e gli anarchici dalle fila della Guardia Nazionale. Abbiamo scoperto che si erano infiltrati in ogni istituzione, nelle scuole ed in ogni buco di aule universitarie. Dai giornali questi professori del terrore ci propinavano le loro falsità. I partigiani e patrioti dello Stato sono riusciti a farne piazza pulita, anche a costo di bombardare qualche caserma dell’esercito. Abbiamo scoperto che per centinaia di anni questa rete internazionale di massoni ha riscritto la storia a suo uso e consumo. Hanno esercitato il dominio sugli americani inculcandoci un senso di colpa immotivato. Storicizzando presunti peccati originali che avrebbero contraddistinto la nostra sacra nazione. Hanno preconfezionato il mito di una inesistente schiavitù, propinandocela nelle scuole fin da bambini.

Ma adesso, la storia, la storia, grazie a Dio, la conosciamo. Quegli africani arrivarono qui da noi come oggi tentano di farlo gli immigrati clandestini. E noi li abbiamo accolti, gli abbiamo dato un lavoro nelle piantagioni e un tetto. Gli abbiamo insegnato i costumi civili, il buon dio, a leggere e a scrivere. E quelli che sono già qui da generazioni accolti da noi, pretendevano che ne accogliessimo ancora altri. E all’inizio ci abbiamo anche provato, ma non potevamo sfamarli tutti nei “campi”, e prenderci cura pure dei loro figli che continuavano a sfornare, senza alcuna considerazione che se hai poco, perché non ti astieni dal riprodurti in continuazione?…