Riceviamo dai compagni della Tendenza internazionalista rivoluzionaria (Tir) e pubblichiamo qui sotto il contributo “A colloquio con Marx e altri maestri sulla questione fiscale – I”, già disponibile sul sito dei compagni della redazione Il Pungolo Rosso (vedi qui), cui ha fatto seguito il secondo contributo della Tir “A colloquio con Marx, Rosa L. e altri maestri sulla questione fiscale: II. La rivendicazione di lotta della million tax 10% sul 10% – TIR” (vedi qui).
Questa crisi sanitaria e sociale, che sta provocando i primi scioperi spontanei nelle fabbriche dopo decenni, e diviene ora anche crisi economica e finanziaria, mette alla prova i sistemi capitalistici, in Italia e nel mondo intero, e scuote le coscienze in settori della nostra classe cui si chiede di lavorare comunque, anche in assenza delle condizioni di sicurezza che vengono invece imposte al resto della popolazione.
Per la prima volta da decenni assistiamo a scioperi spontanei nelle fabbriche.
Anche nella lotta per ambienti di lavoro sicuri e adeguati dispositivi di protezione individuale, e nelle difficoltà di coloro che sono lasciati a casa con un futuro incerto, deve crescere la coscienza della necessità di lottare per superare questa società divisa in classi.
Contro le ideologie da “unità nazionale” tra sfruttati e sfruttatori.
Il virus globalizzato mette inoltre in chiaro l’inconsistenza delle prospettive di autonomie locali/localistiche, e delle scorciatoie “sovraniste”.
L’unica strada è quella internazionalista, dell’unione tra i proletari di tutto il mondo.
S.I. Cobas
A colloquio con Marx e altri maestri sulla questione fiscale – I
«Essi [gli operai] debbono spingere all’estremo le misure proposte dai democratici (…) e trasformarle in attacchi diretti alla proprietà privata. Così ad esempio (…) se i democratici proporranno l’imposta proporzionale, gli operai proporranno l’imposta progressiva; se i democratici proporranno essi stessi una imposta progressiva moderata, i lavoratori insisteranno per una imposta così rapidamente progressiva che il grande capitale ne sia rovinato; se i democratici reclameranno che si regolino i debiti di stato, i proletari reclameranno che lo stato faccia bancarotta. Le richieste degli operai dovranno sempre regolarsi sulle concessioni e sulle misure dei democratici.» [K. Marx – F. Engels, Indirizzo del Comitato Centrale alla Lega dei comunisti, marzo 1850 – in K. Marx, Opere. Lotta politica e conquista del potere, Ed. Riuniti, p. 425.]
Alcuni compagni hanno fatto alla nostra proposta di un’imposta patrimoniale del 10% sul 10% più ricco della popolazione (che appartiene alla classe capitalistica nelle sue varie componenti), con il gettito da destinare a fini di classe, questa stramba critica: non sarebbe “marxista” né classista. A loro dire la questione fiscale è del tutto interna alla classe capitalistica e/o al rapporto tra classe capitalistica e mezze classi. Per sua natura, quindi, non riguarda gli operai, il proletariato, i salariati. Anzi, molto peggio: occuparsene e avanzare rivendicazioni in materia, servirebbe solo ad ottenebrare le menti dei suddetti con falsi problemi.
L’insistenza di questa critica ci ha fatto venire voglia di andare a colloquio con i maestri, a cominciare da Marx, e porre loro qualche domanda. Di seguito i risultati del colloquio che è stato, si può immaginare, di grande interesse. Ne riferiamo qui solo una parte – l’altra parte, di non minore rilevanza, riguarda l’uso dell’arma fiscale da parte del colonialismo.
Marx, Engels e Wolff negli anni 1844-1850
Marx ed Engels si sono occupati della questione fiscale per circa mezzo secolo: dalla metà degli anni’40 fino al 1891-1892 (le lettere di Engels sulla bozza di programma della socialdemocrazia tedesca). Non c’è una trattazione ‘organica’ della tematica, perché il libro sullo stato che era previsto originariamente come libro IV del Capitale, non è stato mai scritto. Ci sono, però, molti testi chefanno parte dell’enorme attività giornalistica che Marx ed Engels svolsero dal 1839 al 1894 per 25 diversi giornali politici, e sono in 15 dei 50 volumi delle MECW (Marx/Engels Collected Works), in cui è analizzato il sistema fiscale in Germania prima e dopo l’unificazione, in Inghilterra, Irlanda, India, Francia, Russia, nell’impero ottomano, etc. Da questa massa di testi emerge una precisa rivendicazione dei comunisti, ribadita attraverso i decenni in una serie di documenti programmatici: una “imposta generale, progressiva sul capitale, il cui tasso percentuale salga con le dimensioni di quest’ultimo”. La ha formulata per la prima volta Engels nel febbraio 1845 in due discorsi ad Elberfeld. E ne ha rivendicato, in modo alquanto approssimativo, la rispondenza ad “un principio puramente comunista”: la prevalenza della “proprietà nazionale” (meglio sarebbe stato dire: sociale, comune) sulla proprietà privata. Per fare cosa? Per realizzare l’educazione “di tutti i bambini, senza eccezione, a spese dello stato”e riorganizzare completamente il sistema dei sussidi ai poveri. “Questi due provvedimenti richiedono denaro. Per procurare questo e insieme per sostituire l’attuale complesso di imposte ingiustamente ripartite, nel presente piano di riforma si propone un’imposta generale, progressiva sul capitale…” (O.C., vol. 4, pp. 574-5).
Due, tre anni dopo troviamo i membri della Lega dei comunisti impegnati nel dare attiva solidarietà al moto di resistenza dei piccoli contadini, dei braccianti e degli operai della Prussia, contro l’imposizione di tasse sui consumi di birra, segale, farina di grano, carni, zucchero, etc. – a quel tempo la tassazione indiretta copriva il 40% delle entrate fiscali della Prussia. Sulla Neue Rheinische Zeitung la parola d’ordine è: no alle tasse e al pagamento delle tasse da parte delle classi lavoratrici, sì alla resistenza, anche armata, agli esattori. Del resto, “nel 1848 le questioni relative alle tasse furono un fattore di straordinaria importanza per la mobilitazione politica di massa” [J. Sperber, The European Revolutions 1848-1851, p. 50 – questo è avvenuto anche negli anni 2018-2019, vedremo]. In questa campagna contro le tasse sui lavoratori poveri si segnalò W. Wolff, “l’ardito, nobile, fedele pioniere del proletariato” a cui è dedicato Il Capitale.Una raccolta di suoi articoli curata da Engels e Mehring, Il miliardo slesiano, è un atto di accusa contro “la rapina feudale e quella borghese esercitate quasi ovunque parallelamente” proprio a mezzo del sistema fiscale. Contro i proprietari terrieri della Slesia Wolff rivendica, a favore della popolazione rurale, il risarcimento di un miliardo di talleri per le rapine subite nei decenni precedenti dai “suoi signori predoni per grazia divina”, inclusi i censi e le prestazioni in natura corrisposte loro.
Nel vivo di questi anni tumultuosi Marx ed Engels fissano la posizione dei comunisti in questa materia nel Manifesto e nelle Rivendicazioni del partito comunista in Germania.Sono misure da prendere in caso di “rivoluzione comunista”; ma a quel livello di sviluppo delle forze produttive, la rivoluzione sociale si presentava come una rivoluzione democratica spinta fino in fondo più che come una rivoluzione direttamente socialista – sia Marx che Engels parlano, infatti, di “conquista della democrazia”. Capitolo 2 del Manifesto:
«Il proletariato adopererà il suo dominio politico per strappare a poco a poco alla borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante, e per moltiplicare al più presto possibile la massa delle forze produttive». Per ottenere questi risultati, sono necessari (ma non sufficienti) “interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione” per poi passare in seguito a provvedimenti che realizzino un completo “rivolgimento dell’intero sistema sociale di produzione”.
Gli “interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione” sono elencati in 10 punti. I punti 2 e 3 specificano: “imposta fortemente progressiva” e “abolizione del diritto di successione” (a quella data i proletari potevano trasmettere ai propri eredi solo la miseria – nel 1867, lo vedremo, ci sarà una parziale correzione su questa seconda misura). Notiamo due cose: a)Marx-Engels inquadrano l’imposta progressiva come una forma dispotica di espropriazione della classe borghese (“strappare”: è questo il significato del tedesco entraissen, un verbo che ritroveremo in seguito, in russo); b)concepiscono questa espropriazione non alla maniera di certo ingenuo anarchismo come qualcosa di puntuale, che avviene tutta in un momento, bensì come qualcosa di processuale “a poco a poco” (nach und nach).
Nei Principi del comunismo Engels si era già espresso su questo stesso tema al punto 18, là dove prevede un doppio passaggio della rivoluzione, con il primo che è sempre descritto, quanto alla forma politica, nei termini di una “costituzione democratica”. La conquista della democrazia, sostiene, sarebbe “del tutto inutile al proletariato” se non venisse subito usata per ottenere ulteriori misure che “intacchino direttamente la proprietà privata e garantiscano l’esistenza del proletariato”. Tra le misure “principali” da adottare la prima è la “Limitazione della proprietà privata mediante imposte progressive, forti imposte di successione, abolizione della successione per via collaterale”, etc.
Anche in questo caso, l’introduzione di imposte progressive è vista in tutto il suo significato politico – è uno strumento che intacca direttamente la proprietà privata, e intacca pure il sacro principio ideologico-politico che la presenta come l’architrave di tutto l’ordinamento sociale e giuridico borghese. Infatti per Marx ed Engels queste misure fiscali non hanno solo una valenza economica, hanno una non meno rilevante valenza politico-ideologico: sono misure di attacco alla classe borghese – benché non al modo di produzione capitalistico.
Sempre in quel giro di anni, nell’Indirizzo del Comitato centrale alla Lega dei comunisti rivolto ai membri della sezione tedesca dell’organizzazione, centrato sul rapporto tra il “partito operaio rivoluzionario” e il partito democratico piccolo-borghese e sulla necessità che il primo si rendesse indipendente dal secondo, questo processo di indipendenza non è descritto come estraneazione del partito operaio dal polverone demagogico dei temi posti dal secondo, ma come svolgimento in senso classista rivoluzionario dei temi che i democratici piccolo-borghesi erano costretti comunque a sollevare. Tra questi temi c’è, come si vede dalla citazione fatta in apertura, proprio la questione fiscale, l’imposta progressiva, il debito di stato, etc. Chiediamo ai compagni che ci contestano di rileggerla e riflettere sulla logica politica che essa contiene e indica.
Ne Le lotte di classe in Francia (cap. III) Marx torna su questi temi. E ragionando sull’indebitamento “continuo, crescente” dello stato francese, nota: per sfuggire a questo indebitamento, che ne fa un ostaggio nelle mani dell’alta finanza, lo stato francese ha davanti a sé due sole vie: o la riduzione, la semplificazione dei suoi apparati, o il riequilibrio dei suoi conti, dei rapporti tra spese ed entrate. Attraverso quale misura? “Facendo pesare imposte straordinarie [corsivo di Marx] sulle spalledelle classi più ricche”. Farà questa seconda cosa? “Pas si bête”, è escluso che sarà così bestia(p. 248).Perché il partito dell’ordine “avrebbe dovuto sacrificare la propria ricchezza sull’altare della patria”? Anche questo, comunque, non è un giudizio da prendere come assoluto: nella nostra logica storico-materialista non c’è nulla di assoluto. In date contingenze è accaduto – vedi Stati Uniti degli anni ’30, il punto più alto raggiunto dal conflitto di classe in quel paese nel secolo scorso – che la classe borghese, costretta dalle circostanze, abbia in parte “sacrificato la propria ricchezza” (si arrivò a un’aliquota massima formale del 90% circa) per salvare il proprio sistema sociale. E ci riuscì, utilizzando abilmente anche questa concessione per ricompattare la società statunitense fortemente divisa in vista della guerra in arrivo.
[Oggi, fine 2020, non ha affatto tale disposizione, né in Europa, né negli Stati Uniti. Vedremo perché. Ma non si può escludere, noi non lo escludiamo affatto, che davanti a una forte riaccensione dello scontro di classe, i grandi capitalisti e i loro governi si vedano costretti a invertire, parzialmente, le politiche fiscali degli ultimi quattro-sei decenni, che sono state sfacciatamente pro-grande capitale. O che, giocando d’anticipo, possano prendere blande misure di tassazione progressiva per tentare di disinnescare sul nascere moti di rabbia proletari e popolari – le due ipotesi non si equivalgono, la prima sarebbe comunque una concessione alla piazza, la seconda un merito del buon governo.].
Primo punto fermo: il tema fiscale non è affatto estraneo al programma dei comunisti. Nessun indifferentismo in materia: la cosa ciriguarda. E la questione è squisitamente politica, cioè concerne l’insieme dei rapporti di forza tra le classi, in particolare tra la classe del capitale e il proletariato.Vediamo ora se esso riguarda solo il periodo successivo alla presa del potere sia pur dentro una rivoluzione democratica, o anche la lotta proletaria nel capitalismo, contro la classe capitalistica. [In realtà, abbiamo già visto che la rivendicazione dell’imposta generale progressiva sul capitale e sulla ricchezza è stata formulata in sede propagandistica nel 1845 in un contesto non rivoluzionario, come proposta di riforma.]
La I Internazionale
Quando viene fondata la I Internazionale (1864) è Marx stesso a proporre, insieme a Fribourg, che il I Congresso dell’Internazionale si occupi del tema “tassazione diretta e indiretta”. La posizione decisa al Congresso di Ginevra (1866) è: “raccomandiamo l’abolizione totale delle imposte indirette e la loro sostituzione completa con le imposte dirette”. Le ragioni a sostegno di questo indirizzo sono: a)la riscossione delle imposte dirette costa meno; b)non influisce sulla produzione; c)non fa alzare automaticamente il prezzo delle merci, come le imposte indirette; d)le imposte dirette non consentono mistificazione, sono più trasparenti, meno opache delle imposte indirette e perciò, a differenza di quelle indirette, consentono “il controllo sul governo da parte di ogni membro dello stato”. [La Prima Internazionale. Storia documentaria, vol. I, pp. 156, 164, 179-180].
Queste considerazioni seguono una premessa altrettanto chiara sul fatto che la forma della riscossione delle imposte non produce “un cambiamento importante delle relazioni tra capitale e lavoro” – affermazione che non contrasta con quanto sostenuto prima, perché l’imposta fortemente progressiva rileva non tanto per la forma della sua riscossione, quanto per il suo contenuto di classe e per la sua entità: limitazione della proprietà privata (dei mezzi di produzione), garanzia per le condizioni di esistenza del proletariato [non stiamo parlando della soppressione delle condizioni di esistenza del proletariato, chiaro?].
Nella I Internazionale ci fu anche una disputa accesa intorno al diritto di eredità e alla sua soppressione. Per Marx l’idea di Bakunin di poter sopprimere il diritto all’eredità familiare nel contesto del modo di produzione capitalistico, era un’illusione (c’è qui una modifica della posizione contenuta nel Manifesto). A questa illusione opponeva come misura che poteva interessare la classe operaia, l’istituzione di una tassa di successione più pesante e progressiva: “Abbiamo già una tassa di successione, basterebbe accrescerla e renderla progressiva, come l’imposta sul reddito, esentando gli importi minori”. Distingueva anche il diritto d’eredità “per testamento” (proprio delle classi proprietarie) dal “diritto di successione non testamentario o familiare”, riguardante la trasmissione delle “cose usuali, gli oggetti personali e della casa, etc.” (pp. 352-3; 378-9; 385-6).
La stessa impostazione ritorna alcuni anni dopo nella redazione, a cui partecipò Marx insieme a Guesde, del programma del Parti ouvrier francese (1880), in cui è scritto al punto 12: “abolizione di tutte le imposte indirette e trasformazione di tutte le imposte dirette in una imposta progressiva sui redditi che oltrepassano i 3.000 franchi. Soppressione dell’eredità in linea collaterale e di ogni eredità in linea diretta che oltrepassi i 20.000 franchi”.
Pur considerando la questione fiscale rilevante per la lotta di classe del proletariato e dei contadini poveri, per Marx ed Engels non avrebbe senso immaginare che l’arma fiscale possa essere l’arma atomica con cui radere al suolo il modo di produzione borghese, neppure nel caso in cui si pretenda, con apparente radicalità, l’abolizione di tutte le tasse. È vero – obietta Marx a de Girardin, sempre sulla Neue Rheinische Zeitung – che ogni nuova tassa deprime il tenore di vita del proletariato, ma non per questo la sua abolizione incrementa automaticamente i salari. Così come, certo, “in una rivoluzione la tassazione, gonfiata fino ad assumere una proporzione colossale, può essere usata come una forma di attacco alla proprietà privata, ma anche in questo caso deve essere un incentivo per nuove misure rivoluzionarie che portino ad un rovesciamento delle relazioni [sociali] borghesi”. Un rovesciamento che anche la più radicale misura fiscale non è in grado di realizzare, perché non interviene sui rapporti sociali di produzione, sulla divisione sociale del lavoro o sull’organizzazione del lavoro, la centralità dell’azienda, la concorrenza, il carattere di merce della forza-lavoro, etc.. Agli strati medi dell’industria e del commercio e ai contadini piace l’“equa distribuzione delle tasse”, che, assunta come l’obiettivo più importante da perseguire, resta però espressione di “un banale riformismo borghese”. E può piacere ancor più l’abolizione totale delle tasse che però resta egualmente una piccola trovata da “socialismo borghese” (MECW, vol. 10, pp. 326-337).
In questa e altre polemiche contro le utopie filantropiche, umanitarie, proudhoniane, Marx va talvolta oltre, fino a sostenere che il sistema di tassazione può modificare “le relazioni tra salari e profitti, profitto ed interesse, rendita e profitto solo, al più in aspetti inessenziali, ma mai scuotere dalle fondamenta” i rapporti di produzione borghesi. Qui la conclusione della frase è indiscutibile: nessuna riforma fiscale può scuotere le fondamenta del modo di produzione capitalistico. È così. Il riferimento all’inessenziale, invece, se è assunto come una posizione di principio, cozza con quanto Marx afferma in altri e più cruciali testi programmatici. Non si spiegherebbe altrimenti perché per quasi cinquanta anni lui ed Engels abbiano ribadito la stessa, identica posizione, sia in congiunture “pacifiche” che in congiunture rivoluzionarie: no alle imposte indirette, sì all’imposta progressiva (o fortemente progressiva) sul capitale e la ricchezza da destinare al soddisfacimento di bisogni proletari e, più in generale, sociali. Sarebbe, in loro, un caso inspiegabile, unico, di cura sistematica per cose inessenziali. Anche in Engels si può trovare un passaggio del genere nella Questione delle abitazioni (p. 51), a cui si può muovere lo stesso rilievo. Qualcuno ha parlato di “dissonanza cognitiva”. A noi sembrano invece dei semplici eccessi polemici nella contesa per sgombrare il campo dalle mille varianti in circolazione, in quegli anni tempestosi, di “socialismo piccolo-borghese” o perfino reazionario – come nel caso del testo Il comunismo del ‘Rheinischer Beobachter’, scritto contro un sostenitore della monarchia prussiana che pretendeva di “gettare polvere negli occhi al proletariato con l’imposta sull’entrata”, lasciando inalterato tutto il restante quadro dei rapporti sociali (O.C., vol. 6, p. 237). A’ la guerre comme à la guerre! Solo dei pedanti possono pretendere che esista un’opera monumentale di 100 o 150 volumi che coprono un’infinità di situazioni differenti per un periodo che oltrepassa il mezzo secolo, priva di contraddizioni formali o sostanziali. In questa materia, come in ogni altra, si tratta di identificare il nocciolo della questione e metterlo in relazione con l’attuale contesto dello scontro di classe, come mezzo di orientamento.
Del resto, eccessi polemici a parte, è vero che solo una modifica radicale del sistema fiscale imposta dalla mobilitazione degli sfruttati può incidere in modo significativo sulle condizioni di esistenza della/e classe/i lavoratrice/i e sui rapporti di forza tra sfruttati e sfruttatori. Non può avere tale valore qualsiasi riforma fiscale, un ritocco – ad esempio – del cuneo fiscale, quale strombazzato di recente da Landini & co. alla stregua di un’inversione di rotta della riduzione del potere d’acquisto dei salari, o una imposta patrimoniale à la Sanchez. L’andamento complessivo, e sulla lunga durata, di profitti e salari dipende da altri fattori, è altra cosa dall’oscillazione temporanea e frazionale degli uni o degli altri. Ciò vale, dopotutto, anche per altri aspetti della lotta operaia, ad iniziare dalla stessa lotta per gli aumenti salariali, dal momento che nella grandissima parte dei casi questa lotta non è che il tentativo di “mantenere integro il valore dato del lavoro” (Marx), di recuperare cioè quello che si è perduto.
La II Internazionale, Luxemburg e Lenin
Nella II Internazionale la trattazione di sintesi del tema è contenuta ne La questione agraria di Kautsky (pp. 475 ss.). Questo testo di Kautsky è del 1900, un’annata di K. considerata da Lenin ancora ottima (invece noi avanziamo qualche dubbio). Kautsky parte da un dato incontrovertibile: le imposte statali “debbono e possono derivare soltanto da una fonte: dal plusprodotto, cioè dal plusvalore”. Quindi quando in linguaggio corrente, nell’agitazione, parliamo di imposta sulle imprese o sulle classi proprietarie, parliamo sempre di riprendere ai capitalisti, strappare loro, una quota di ciò che essi hanno espropriato alla classe lavoratrice. Kautsky nota che lo stato borghese si è rivelato non meno bellicoso e pesante di quello feudale, per cui ha bisogno di far fronte alle sue nobili attività con un crescente fabbisogno di mezzi. Dove trovarli? Ha davanti a sé due vie: o un prelievo dalla massa di plusvalore – ovvero un prelievo sugli arraffatori del pv, capitalisti e redditieri, con imposte sul reddito, il patrimonio, le successioni; o un prelievo sul popolo (lavoratore) attraverso le imposte sui consumi. Kautsky analizza la situazione in diversi paesi esaminando le differenti forme di compromesso tra l’una e l’altra soluzione, attaccando i partiti progressisti borghesi per mancanza “di decisione nei confronti dei capitalisti” quando si tratta di andarne a colpire la ricchezza accumulata. Fissa infine così “la politica fiscale della socialdemocrazia”: le imposte “debbono essere pagate soltanto dal plusvalore”. Benché la formula sia dottrinaria, il contenuto è chiaro: bisogna trasferire le imposte “sulle spalle di coloro che le possono sopportare” attraverso due provvedimenti: a)l’imposta progressiva sul reddito e sul patrimonio; b)l’imposta progressiva sulla successione “secondo l’ammontare dei beni ereditati e il grado di parentela”.
Lo stato capitalistico, invece, si muove di solito in tutt’altra direzione: ricorre ai prestiti, all’indebitamento, “uno dei mezzi attraverso cui lo stato borghese utilizza a fini statali il plusvalore appropriato capitalisticamente”. La socialdemocrazia (i comunisti) è per la cessazione del sistema dei prestiti statali. Se questa cessazione si verificasse (non è possibile nel capitalismo), ci sarebbe “un enorme sgravio non soltanto per il proletariato ma per tutta la massa della popolazione lavoratrice” (piccoli artigiani, piccoli contadini, piccoli commercianti). La contestazione che Kautsky fa alla politica borghese è di tassare i capitalisti sempre in una misura insufficiente. Ecco la sua conclusione:
«Soltanto una politica fiscale proletaria può colpirlo [il plusvalore, cioè la classe dei capitalisti] senza riguardi, può sottrargli per mezzo delle imposte tutte quelle somme che oggi la classe dei capitalisti investe nei prestiti statali interni ed esterni, e anche assai di più, senza pregiudicare lo sviluppo dell’industria e addirittura nemmeno le capacità di consumo della borghesia (…). Quanto più forte è la socialdemocrazia, tanto più diminuiranno le imposte indirette, tanto maggiore importanza avranno le imposte sul reddito, sul patrimonio e le imposte di successione, tanto più saranno ridotti i debiti pubblici e i loro interessi, tanto prima e tanto a minor prezzo saranno nazionalizzati e municipalizzati i grossi monopoli capitalistici” (pp. 487-8).
Qui Kautsky è in continuità con la linea tracciata dalla I Internazionale – come lo è il Programma di Erfurt (1891), approvato da Engels, che al punto 9 prevede: “Imposta progressiva sul reddito e sulla proprietà per coprire tutte le spese pubbliche, nella misura in cui devono essere pagate con la tassazione. Imposta di successione commisurata all’entità dell’eredità e al grado di parentela. Abolizione di tutte le tasse indirette, doganali e altre misure economiche che sacrificano gli interessi della comunità a quelli di pochi privilegiati”. Quello che però lascia molto perplessi in K. è che fa trasparire la possibilità che la socialdemocrazia sia in grado di plasmare progressivamente la vita sociale ed economica della società borghese attraverso lo strumento fiscale. Non l’afferma mai in modo esplicito ma sotto traccia si intravvede. Noi non crediamo affatto a una possibilità del genere, a questo gradualismo, a questa sorta di presa del potere senza prendere il potere attraverso la leva fiscale o altre leve – per quanto sia vero che quando si è verificato ciò che K. ipotizza (esempio: Italia anni ‘70), un certo soddisfacimento di bisogni immediati della classe lavoratrice c’è stato, più che nei periodi in cui – v. gli ultimi 40 anni – la tendenza è andata nel senso opposto.
Per la tradizione marxista rivoluzionaria senza macchia, va ricordato che nel discorso sul programma che Rosa Luxemburg tiene il 31 dicembre 1918 al congresso di fondazione del Partito comunista tedesco, c’è il richiamo integrale alle misure contenute nel Manifesto del partito comunista, tra cui la “forte imposta progressiva”. La stessa cosa è avvenuta per i bolscevichi, tanto in tempi non rivoluzionari quanto, ovviamente, in tempi rivoluzionari. Tre citazioni da Lenin. Marzo 1903, Ai contadini poveri. Spiegazione per i contadini di ciò che vogliono i socialdemocratici: “le imposte indirette sono le più ingiuste, sono le imposte per colpire i poveri. (…) Ecco perché i socialdemocratici esigono la soppressione delle imposte indirette e l’istituzione dell’imposta progressiva sui redditi e l’eredità. (…) Una tale imposta sul reddito,omeglio, imposta progressiva sul reddito, sarebbe molto più giusta delle imposte indirette. (…) È naturale, però, che tutti i possidenti, tutta la borghesia non lo vogliono e vi si oppongono. Soltanto una salda unione dei contadini poveri con gli operai delle città può strappare alla borghesia questo miglioramento” (O.C., vol. 6, p. 372 – corsivi di L.). Dieci anni dopo, giugno 1913, sempre in regime zarista, non c’è nessuna rivoluzione in corso (salvo allucinazioni), Lenin ripete: “la rivendicazione dei socialdemocratici [comunisti –n.], la completa abolizione di tutte le imposte indirette e la loro sostituzione con una imposta progressiva sul reddito, vera e non fittizia, è completamente realizzabile. Questo provvedimento, senza intaccare le basi del capitalismo, procurerebbe subito un enorme sollievo ai nove decimi della popolazione”. Ed è rivendicata anzitutto per questo “enorme sollievo” per le masse degli sfruttati (Il capitalismo e le imposte – vol. 19, pp. 177-180, c. n.). Maggio 1918: “Il secondo compito che è di fronte a noi è la giusta organizzazione di un’imposta progressiva sul reddito e sui beni. Voi sapete che tutti i socialisti sono contro le imposte indirette, giacché l’unica imposta giusta dal punto di vista socialista è l’imposta progressiva sul reddito e sui beni. Non mi nascondo che istituendouna tale imposta bisognerà affrontare enormi difficoltà; la resistenza delle classi abbienti sarà disperata” (O.C., vol. 27, p. 351, c. n.).
Ancora una volta: una posizione nettissima, quella che abbiamo ripreso noi in un contesto molto diverso, in cui questa rivendicazione assume – dentro un programma più generale di classe – un valore non meno dirompente. È evidente, infatti, che per la classe lavoratrice c’è una grossa differenza tra porre questa rivendicazione di lotta contro uno stato borghese o, addirittura, zarista, da classe oppressa e, invece, poter cominciare a imporre una tassazione progressiva avendo il potere statale nelle proprie mani. Fissata questa grossa differenza, è insensato dire: se ne parlerà solo quando avremo sbaraccato lo stato capitalistico. Perché, allora, lo stesso “rinvio della prassi” va fatto per un’altra serie di rivendicazioni che in un modo o nell’altro implicano l’intervento dello stato nemico. In ultima analisi, per tutte le rivendicazioni politiche.
Una precisazione: il metodo di parlare per citazioni non ci piace perché rischia di ipostatizzare singole frasi e singoli concetti, togliendoli dal loro contesto naturale: la situazione storica complessiva, e particolare, in cui sono stati formulati. Rischia, quindi, di trasformare il marxismo in un dogma morto, un insieme di “ricette” belle e pronte da spadellare sul momento – mentre è un metodo vivo di indagine, una guida per l’azione che serve a prendere in considerazione ed interpretare le specifiche condizioni storico-sociali di cui si tratta, coglierne le linee evolutive e intervenire in esse. Contro le nostre abitudini, ci siamo indotti a fare dei richiami testuali solo per far toccare con mano ai nostri critici, ammesso che lo vogliano, che nella storia del movimento proletario comunista c’è in questa materia, dall’inizio, una posizione politica univoca. Ed èquella che abbiamo ripreso, con la sua doppia motivazione di classe: la difesa e il miglioramento delle condizioni di vita della grande massa dei lavoratori, la limitazione della proprietà privata capitalistica (l’attacco ad essa). O crediamo invece che battersi per la difesa e il miglioramento delle condizioni di esistenza della classe lavoratrice sia di per sé “volgare riformismo”? Se così fosse, perché rivendicare aumenti di salario, riduzione di orario, salario medio operaio garantito, servizio sanitario universale e gratuito, riapertura degli ospedali, asili nido, aumento delle misere pensioni, permesso di soggiorno per tutti gli immigrati sganciato dal contratto di lavoro, chiusura dei Cpr, e così via? Non si finisce con un simile set di rivendicazioni per “accreditare” il capitalismo o lo stato borghese di poter concedere dei miglioramenti alla classe? E non ci si interseca, forse, anche in questo caso, come nel caso della patrimoniale con alcune schegge o, addirittura, con interi settori del campo borghese? L’idea che siano degni di entrare nel programma rivendicativo immediato solo obiettivi totalmente “incompatibili” con il capitalismo è di un infantilismo desolante (ed è smentita, di norma, dalla stessa prassi di coloro che la sostengono). Lo schema “strategico” che, in un modo o in un altro, sottostà alle critiche di cui stiamo parlando è questo: la lotta economica contro il singolo padrone o contro la classe dei padroni (nei contratti) sì; la lotta politica contro lo stato dei padroni ci interessa solo se è immediata presa rivoluzionaria del potere, il resto è fumo, e noia. Poveri maestri! E poveri noi, se nel Patto d’azione anti-capitalista dovesse affermarsi una simile logica economicista, un simile rifiuto dell’azione politica.
(continua)